Dettagli Recensione
La casa degli spifferi
«Per questo io e papà dobbiamo proteggerti dagli estranei. Gli estranei ti stanno cercando. Se vuoi vivere, devi imparare a morire» p. 148
Il lavoro di Pietro Gerber, psicologo infantile specializzato in ipnosi, è molto particolare: consiste nell’insegnare ai bambini a mettere ordine nella loro fragile memoria – sospesa fra gioco e realtà – e a distinguere ciò che era vero da ciò che non lo era. Quando la dottoressa Walker lo contatta parlandogli di A.S. (amnesia selettiva) e per chiedergli di ipnotizzare una donna di circa trent’anni di nome Hanna Hall, dai lineamenti gentili ma dai sintomi della patologia della schizzofrenia, proveniente dall’Australia per conoscere del proprio passato turbolento e fatto di una sorta di misterioso vagabondaggio tra le terre toscane per i primi dieci anni della sua vita nonché di un trascorso in cui ella si ritiene responsabile della morte di un bambino di nome Ado, è scettico e ritiene di non poter in alcun modo esserle d’aiuto. Di fatto, poi, le vicissitudini che si susseguono tra le vie di Firenze, non gli consentono di staccarsi dalla misteriosa donna anche se ciò può significare mettere in pericolo la moglie Silvia ma soprattutto il figlioletto Marco. A far da cornice al tutto un padre, Mister B. venuto a mancare liberandosi di un segreto più grande e una misteriosa casa delle voci; una casa fatta di sospetti, spettri, spifferi e porte che si chiudono senza un motivo e sepolture vive. Da questi brevi assunti le varie circostanze si susseguiranno con un ritmo rapido e veloce ma, tuttavia, non convincendo completamente chi legge.
Seppur lo stile e la tecnica narrativa siano gli stessi da sempre adottati da Donato Carrisi nei suoi libri, cosa questa che farà sentire “a casa” i lettori più affezionati, di fatto quest’ultimo titolo presenta al suo interno delle incongruenze e delle falle sulle quali è difficile passar sopra. Almeno per quanto riguarda il lettore più attento. In primo luogo, da fiorentina, ho ravvisato delle inesattezze linguistiche (vedi l’utilizzo della parola papà anziché di babbo in una protagonista nata e cresciuta per un decennio in Italia e più precisamente nel capoluogo toscano) o delle eccessive descrizioni idilliache di luoghi (vedi la viabilità nel e fuori dal centro storico o il Tribunale dei Minori che ha dei limiti oggetti già ravvisabili al solo pensare alla sua collocazione geografica e senza parlare del suo funzionamento) che si sommano a quelle strutturali. Perché seppur circa quelle linguistiche o affini si possa passar sopra, gli si possa dar meno peso, si possano ricondurre ad artifizi narrativi atti a dar vita alle ambientazioni della storia e seppur consapevoli del fatto che queste vanno a minare la credibilità e tangibilità del testo, medesima giustificazione non può essere attribuita anche alla parte sostanziale del libro che è di fatto semplicemente inverosimile. Man mano che la lettura procede tante sono le domande che si affacciano nella mente del conoscitore, domande che passano dalla più sciocca “ma perché la protagonista femminile dovrebbe attraversare mezzo mondo solo per venire a farsi ipnotizzare da Gerber quando già era in terapia in Australia?” al “dove vuoi arrivare Carrisi? Qual è il mistero che si cela in questa casa delle voci che con i suoi spettri e spifferi ricorda niente più che quelle giostre sulle quali salivamo da bambini durante le fiere?”.
Ma concediamogli ancora il beneficio del dubbio, aspettiamo prima di trarre conclusioni, non facciamoci prendere dalla fretta, l’epilogo ci sorprenderà come sempre lo scrittore ha saputo fare. Ed eccolo che arriva, quel finale. Un finale che è inconsistente, un finale che fa sorridere tanto ancora più improbabile è del contenuto del libro, un finale che non convince e che anzi fa storcere il naso.
Per quanto cerchi sempre di essere il più equilibrata possibile e di ben bilanciare i pro e i contro di ogni titolo che vado a recensire, in questo caso e per mia modesta e soggettiva opinione, i contro sono maggiori dei pro e il risultato è quello di un volume scarso, carente e non all’altezza dei precedenti lavori del thrillerista.
«Chiamandoci a vicenda da una parte all’altra, quei suoni diventano familiari. Impariamo a fidarci di quei nomi. E a essere diversi, pur rimanendo uguali» p. 93
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Commenti
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Pur apprezzando molto Carrisi, soprattutto per i suoi colpi di scena capaci sempre di soprendermi, non so perchè questo romanzo non mi ispirava del tutto. Ecco, dopo le tue parole, mi sa che lascerò proprio perdere.
Un abbraccio,
Manu
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