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L'inverno di Giona
 
L'inverno di Giona 2019-08-03 20:44:02 Jacopo
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Opinione inserita da Jacopo    03 Agosto, 2019

Un esordio tutto da scoprire

«Tu hai di nuovo i ricordi, Giona. Lo hai visto prima. Non dovevi ricordare e lui adesso vuole portarteli via di nuovo.»

Perché Norina, perché? Perché Giona non doveva ricordare? Perché adesso il vecchio vuole che dimentichi di nuovo? Cosa si nasconde dentro la mente di questo giovane quindicenne che non ha memoria, che non ha passato e che nulla ricorda se non quell’appena prossimo avvenuto? Chi sei davvero Giona? Chi è Alvise? Chi è la vittima, chi il carnefice?
Il suo nome è Giona, o almeno questo è l’appellativo con cui è sempre stato chiamato da Alvise, l’anziano di cui tutti nel paese hanno terrore e che lo ha raccolto dalla solitudine e abbandono in cui verteva. Perché Giona non ha genitori, non sa chi è, non conosce le proprie origini, un maglione rosso è il suo unico tesoro e nulla ricorda. Sa soltanto che deve fare del suo meglio per non sbagliare perché in tal caso, la punizione che gli verrà commisurata sarà ben più severa di quello che è stato il suo errore. Non ha scelta, e lo sa. Questo, a detta di Alvise, è l’unico modo per imparare. Perché soltanto con il dolore si può apprendere, soltanto con la sofferenza. In altro caso, tutto si dimentica, tutto cade nell’oblio. Non vi è insegnamento. Un paese di contadini e pecorelle sperduto tra le montagne, nelle nubi e in una dimensione atemporale è il luogo in cui si dipanano le vicende e dove le voci corali dei coprotagonisti si fondano e uniscono a Luca e alla sua voce.

«È questa la sua magia. È fatta di musica e suoni, Anna. Lei è tanto musica quanto sua nipote è silenzio. Anna, la donna che dà i nomi alle cose e alle persone. Quella che ha trovato un soprannome per ognuno dei suoi abitanti e per ogni albero del paese.»

L’universo disegnato da Filippo Tapparelli, autore esordiente Mondadori e vincitore del Premio Italo Calvino 2018, è totalmente privo di affettività bensì è caratterizzato da violenza, da un quotidiano che riflette il dolore come rappresentazione di una unica e improcrastinabile verità fatta di controllo, di precisione, di resilienza, di schemi precostituiti e irreversibili. Tuttavia, dopo una partenza in cui l’angoscia attanaglia il lettore tenendolo imbrigliato nelle sue morse e obbligandolo ad andare avanti senza possibilità di interruzione alcuna, ecco che tutto quel che era stato costruito e che si era delineato, si sgretola. Si sgretola per focalizzare l’attenzione su un’altra verità. Dal tema del ricordo assente, misteriosamente venuto a difettare, lo scrittore prende per mano il suo conoscitore e lo conduce tra nuove tematiche e in una dimensione psicologica tutta da scoprire.
Il risultato è quello di un elaborato di grande pregio caratterizzato da una trama solida e ben articolata, una penna pregiata, erudita, fluida e capace di trattenere il suo lettore e da personaggi tangibili con mano tanto che non faticano a disegnarsi nella mente. Da leggere.

«E mi chiedo se per me ci sia una qualunque esistenza fuori da questa casa oppure, anche se ora mi pare terribile, io possa vivere solo qui dentro. Sono uscito da qui tante volte, eppure quello che ora mi stringe il petto non è il sollievo del ritorno ma il peso dell’addio. È come se provassi nostalgia per questo luogo, per le botte di Alvise, per la sua violenza mascherata da lezioni di vita.»

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