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Gli alberi dritti finiscono dentro alle aiuole
Il romanzo è costruito sulla tensione psicologica indotta da un misterioso stalker che – attraverso un cellulare recapitato nella cassetta postale di Lena – induce nella vittima l’illusione che Saverio, l’amante scomparso nell’Arno in preda ai fumi dell’alcol o della droga, sia ancora in vita (“C’è qualcuno che ti provi, che ti abbia mai provato che sia davvero lui?”).
Da quel momento, tutte le azioni di Lena sono dettate dalla sudditanza psicologica (“Ma la regola era una sola: lui comandava e lei ubbidiva”), dalla paura (“Aveva l’odore della paura addosso, nel respiro, nei capelli, sulla pelle, ed era un odore onesto, quasi buono, preferibile a tanti falsi odori…”), dal desiderio di ritrovare in vita la persona amata (“Faccio quello che vuoi se mi dimostri che è vivo”), che - detto tra di noi - ha un profilo odioso e insopportabile nel passato della protagonista.
Lena deperisce (“Aveva perso altro peso…”), si annienta (“Comprò altra vodka”), mentre una frase ricorre nel romanzo: “Gli alberi troppo dritti finiscono dentro alle aiuole”. Intanto in suo aiuto interviene un grezzo agente di polizia (ho trovato fastidioso e a tratti incomprensibile il suo modo rudimentale di esprimersi, che sostituisce la narrazione)…
La costruzione del romanzo è eccessiva e macchinosa, la protagonista miete più rabbia che pena. Il finale è… lì, da giudicare quanto a verosimiglianza e credibilità, anche se a questo mondo tutto sembra possibile.
Giudizio finale: artificioso, ipertrofico, estenuante.
Bruno Elpis
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