Dettagli Recensione
Per mortem ad vitam
“Il nome del padre” è un giallo classico che si inserisce nel filone italiano del quale Giorgio Scerbanenco è il maggior esponente. La storia ha inizio in un afoso agosto milanese dei nostri giorni quando la viceispettrice Salemi riceve dal suo superiore il commissario Rocco Cavallo un suo manoscritto; lì, nero su bianco, il commissario ha raccolto tutti i suoi ricordi e i suoi sospetti sul caso d’esordio della sua carriera rimasto irrisolto, l’efferato omicidio di una donna trovata fatta a pezzi in una valigia al deposito bagagli della stazione Centrale di Milano in un analogo afosissimo agosto del 1972. Il giovane ispettore Cavallo deve fare i conti con i depistaggi e le tesi precostituite del suo superiore il commissario Naldini e del capo della Buoncostume Ferretti. Ma per lui non contano solo i risultati e un colpevole a caso ma la giustizia. In questa sua ricerca viene in qualche modo aiutato dal giudice Nobile e dal vicecommissario Vicedomini che lo mette al corrente di altri due omicidi avvenuti con le stesse modalità trent’anni prima nel 1944, quando l’Italia era sull’orlo del baratro e a nessuno interessava di due donne uccise. Molto interessanti sono il racconto nel racconto, la similitudine tra due poliziotti alle prime armi, un Cavallo e un Vicedomini, che hanno la stessa visione etica del loro lavoro e che si scontrano con il “potere”, come anche le analogie fra due casi quello del ’44 e quello del ’72 che rimarranno entrambi irrisolti.
A metà romanzo, con un nuovo salto temporale, torniamo ai nostri giorni, quando dopo aver letto il manoscritto, la viceispettrice Salemi aiuterà il suo commissario, curvo sotto il peso di quella sconfitta, a risolvere, non senza colpi di scena, entrambi i casi.
“Il nome del padre” (il perché del titolo si scoprirà solo nelle ultimissime pagine) è un grande romanzo. Perfetto lo stile, il ricreare atmosfere reali di epoche così diverse, mi ha appassionato subito e anch’io come Valeria Salemi non riuscivo a sottrarmi al fascino del manoscritto di Cavallo. Bellissima l’ambientazione milanese che ci fa conoscere diversi scorci della città, della sua periferia e dei dintorni, ma soprattutto bellissima l’ambientazione ferragostana, il caldo opprimente, la luce, quella sensazione di soffocamento ci accompagna per tutto il romanzo. Mi sono ritrovata nel paesaggio lunare di una città che, a differenza di oggi, nel 1972 si svuotava completamente. Molto ben trattati sono il clima politico e sociale negli anni ’70 dove, accanto a nostalgici del ventennio ed ecclesiastici preoccupati, si affiancavano nascenti forze “comuniste”, l’asservimento al potere e la considerazione che si aveva degli immigrati dal sud (siano essi operai o laureati)che alla fine erano poco correttamente definiti terroni; anche i personaggi, compreso quelli minori, sono descritti intensamente nella loro umanità. Finisco con una frase del commissario Cavallo –“la conclusione è tanto a portata di mano da essere pressochè irraggiungibile. Un paradosso? Sì, lo è, ma si chiama vita”-.
Indicazioni utili
Commenti
2 risultati - visualizzati 1 - 2 |
Ordina
|
2 risultati - visualizzati 1 - 2 |
Perché non sei iscritta al gruppo "Le frasi più belle"? :)