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Un bolognese tra i nuraghi
Novembre 1961, il tenente Giorgio Roversi è stato trasferito per motivi disciplinari dalla natia Bologna a Sassari: i suoi metodi d’azione, più simili a quelli dell’amato eroe dei fumetti Tex Willer che a quelli di un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri, non erano graditi ai superiori. Così, orfano di mortadella, tagliatelle al ragù, lambrusco e cioccolata tipo “scorza Majani”, deve adattarsi alla nuova realtà, davvero diversa da quella a cui era assuefatto.
La fortuna vuole che divenga subito amico con uno dei più rappresentativi abitanti di Sassari, l’ex Capitano veterinario dell’Arma, don Luigi Gualandi, proprietario di una azienda agricola poco fuori dalla città e membro della “greffa di la cionfra”, gruppo di amici sassaresi non dissimili dagli “Amici miei” di Monicelli, anche se meno goliardici.
Il Gualandi, proprio il giorno dopo l’arrivo di Roversi, nel cercare chi ha messo un laccio da cinghiali che per poco non gli uccideva l’amato cane Argo, scopre il cadavere di Carlo Ferrero, suo vicino di casa. Il corpo è nascosto nella grotta di Abbacuada sita tra le due proprietà ed è stato orrendamente mutilato di un orecchio, secondo un rituale che pare ricalcare i modelli del codice barbaricino. L’omicida è dunque Bachisio Bellu l’unica persona originaria della Barbagia che vive nella zona?
Roversi, con il contributo determinate di Gualandi, della bella governante Caterina, della teutonica donna Brunilde, moglie del Gualandi, e di altri improbabili collaboratori, tra cui Argo ed il maiale Giovannino, svolgerà accurate indagini, non trascurando, però pure un suo graduale acclimatamento negli usi, costumi e delizie alimentari della Sardegna.
Alla fine, quel team ben affiatato scoprirà non solo il colpevole del barbaro assassinio, ma anche chi mette pericolosi lacci in giro per la campagna e chi, spacciando alimenti contaminati, pone a rischio la salute di uomini e bestie del circondario.
“Il Mistero di Abbacuada” è un simpatico romanzetto nel quale la trama poliziesca, per la verità piuttosto esile, fa solo da scusante per gettare uno sguardo nostalgico all’Italia dei primi anni sessanta, quando c’era solo un canale televisivo che trasmetteva “Non è mai troppo tardi” o “Campanile sera” con il giovane Pippo Baudo; le auto da sogno erano le Aurelia B24S; la Costa Smeralda era solo un progetto sulla carta e l’ultima meraviglia tecnologica era il traghetto Tyrsus delle FS che permetteva il carico delle auto al seguito, in modo autonomo, attraverso le rampe di salita.
In effetti, proprio per la puntigliosità con la quale ci si dilunga nella descrizione di questi ed altri particolari, il romanzo sembra quasi una guida turistica per un viaggiatore nel tempo in quella Italia che non c’è più, in quella Sardegna ove l’A. (sassarese d’origine e bolognese d’adozione) era poco più che un neonato.
Esaminato il libro sotto questo profilo bisogna riconoscere che la ricostruzione dei tempi è quasi perfetta se non ci fosse un unico piccolo scivolone: nel 1961 non era possibile effettuare le cosiddette “telefonate interurbane” mediante teleselezione. Si doveva necessariamente passare per i centralini delle varie società telefoniche dell’epoca (per Sardegna e Lazio la Teti). Quindi un passaggio essenziale del romanzo forse sarebbe stato un po’ più macchinoso. Per il resto, l’atmosfera che si respira è perfetta e la documentazione molto accurata.
Anche i personaggi sono delineati con attenzione, pur nella loro ingenua linearità; gran parte degli sforzi narrativi sono stati dedicati proprio ad inventare, ricreare e dettagliare l’ambiente di quella città di provincia e le persone che l’animavano, senza dimenticare qualche strizzatina d'occhio agli usi bolognesi. Gli accenni a questi ultimi forse indulgono eccessivamente nei luoghi comuni, ma nel contesto sono annotazioni simpatiche.
Forse, ciò che manca è un maggior nerbo nella narrazione. La storia scorre in modo lineare, troppo lineare, senza colpi di scena o episodi imprevisti. Il problema poliziesco offerto al lettore è facile, troppo facile, quasi da “Settimana Enigmistica”. Lo stile usato è scorrevole, ma, forse troppo semplice ed essenziale.
Tuttavia, considerando l’opera nell’ambito delle letture d’evasione, ha una gradevolezza da non sottovalutare, proprio poiché riesce a calarci in ambiente sano e rilassante per qualche ora. Senza contare che – a chi quegli anni li ha vissuti davvero, anche solo “da cinno” o “da fangén” (come direbbe Roversi, cioè da ragazzino o da bimbetto) – una lacrimuccia di nostalgia riesce pure a strapparla.
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Io l'ho vissuto dall'altro lato della "emigrazione", visto che sono più vicino alle sensazione del Tenente Roversi piuttosto che a quelle di don Luigi Gualandi. Forse per quello ho percepito un po' di luoghi comuni di troppo. Però, ripeto, tutto sommato è un bel libricino. Lieve e leggero, ma proprio perché non troppo cerebrale, consente di passare alcune ore in piena serenità. Forse meritava qualche stellina in più, ma io sono tendenzialmente abbastanza avaro nei voti, perché vorrei riservarmi le 5 stelle solo per i veri capolavori.
Effettivamente, senza essere un capolavoro letterario, il libro risulta molto piacevole per la freschezza dell'esposizione.
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E poi, da sarda, non posso che essere incuriosita da questo romanzo che hai così bene recensito!
Mi annoto il titolo, grazie!