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Dolce Lissy, piccola Lissy...
1974. Marlene, ventidue anni, occhi azzurri, un neo a completarne il sorriso. Marlene e il suo matrimonio sbagliato con l’uomo sbagliato. Per quei “soldisoldisoldi” che le rimbombano da sempre nella testa, per quei “soldisoldisoldi” che alla sua famiglia sono sempre mancati. Impossibile rinunciare a quest’occasione di riscatto.
Scappare, scappare, scappare. Il più lontano possibile. Da quella vita per riprendersi la propria vita. Ma qualcosa va storto, una deviazione improvvisa e un incidente. La giovane donna si risveglia in un maso con Simon Keller, un Bau’r – contadino – delle alte montagne di 63 anni. Si ritrova così circondata da personaggi ambigui e pericolosi, uomini senza scrupoli pronti a catturare la volpe e identificati in un marito accecato dall’idea del tradimento, in un sicario infallibile e spietato che non è altro che un’arma – perché a premere quel grilletto non è mai lui bensì chi ha firmato il contratto – e in niente meno che in questo solitario uomo di fede. Passano le ore e con loro i giorni. Marlene si abitua alla quotidianità con l’opa Simon, ma è anche preda dei dubbi perché non sa di chi può fidarsi in quelle molteplici inesattezze e perplessità che inesorabilmente le si insinuano nella mente.
Sin dalle prime pagine “Lissy” si offre al grande pubblico come un thriller angosciante, claustrofobico, inquietante. Un romanzo caratterizzato da una narrazione priva di sbavature, solida e ben orchestrata, una narrazione che rivela con il contagocce gli avvenimenti e le storie di ciascun protagonista tanto che le oscurità proprie dell’animo umano vengono percepite da chi legge poco alla volta in un crescendo costante e continuo. Abile è inoltre l’autore nel rimescolare le carte senza quasi che il conoscitore se ne renda conto. Per ben oltre la metà dell’elaborato, quest’ultimo, immagina e delinea un cattivo eppure ha sempre quel senso di incompletezza e quel dubbio attorno alla figura che si è prefigurato tanto che nel procedere verso l’epilogo, resta basito, si chiede “ma ho capito bene?”. Il senso di ansia, apprensione, di tumulto non risparmia e non lascia andare dalla sua morsa nemmeno per un istante.
Al tutto si sommano brevi capitoli in cui le vicende si intersecano nonché flashback tra presente e passato che ben si mixano con l’altra grande protagonista: la montagna altoatesina. Questa con la sua neve, il suo freddo, i suoi boschi, le sue altezze, ricrea perfettamente nella mente dell’appassionato quelle sensazioni di prigionia. L’impressione è infatti quella di trovarsi in trappola. Queste alture che sono specchio della natura e della sua realtà si tramutano nell’opera di Luca D’Andrea in un vicolo cieco da cui è impossibile fuggire così come essere trovati. Un rifugio perfetto per chi deve nascondersi, ma anche una trappola mortale per chi deve fuggire.
Altro grande pregio dello scrittore è quello di non svelare alcunché sul significato del titolo sino a 1/2 del componimento. Fino ad allora l’avventuriero brancola tra una supposizione e l’altra e anche successivamente torna a interrogarsi sul medesimo perché la verità va oltre le prime apparenze.
Unica pecca che ho riscontrato nella narrazione è data dalla tendenza del romanziere ad eccedere in quelle crudeltà che dovrebbero rappresentare gli angoli più bui dell’animo umano. A mio modesto parere avrebbe ottenuto lo stesso e identico risultato con molto meno. La sua invece è una tendenza all’eccesso che seppur riesca a tenere incollati alla lettura a briglie strette, che seppur riesca a trasmettere l’agitazione necessaria, talvolta può risultare eccessiva.
Nel complesso, una buona prova che raggiunge senza difficoltà il suo obiettivo.
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Commenti
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Bella recensione, Maria!. Mi ritrovo completamente con tutte le tue osservazioni.
Un abbraccio,
Manu