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Ricciardi, l’autunno e la perdita.
Il cav. Costantino Irace è rinvenuto cadavere in un vicolo buio presso il porto. Barbaramente ucciso. A pugni. Ma nelle sue tasche ci sono ancora sessantamila lire ben conservate: non è stata una rapina, quindi. La sera precedente, a teatro, era stato protagonista di un violento scontro verbale con Vincenzo Sannino, campione dei medio-massimi che recentemente aveva abbandonato la boxe per il rimorso d’aver ucciso un avversario sul ring. Vincenzo (in America soprannominato Vinnie the Snake) era diventato famoso per il suo micidiale gancio sinistro e a teatro aveva minacciato di morte Irace che s’era sposato Cettina, la ragazza di cui è follemente innamorato sin da ragazzo. Tutto chiaro, dunque? Sembrerebbe di sì, Vinnie non ricorda neppure dove si trovava quella sera, tanto era preda dei fumi dell’alcol: potrebbe benissimo essere stato lui a commettere l’omicidio. Per Ricciardi e Maione, però, le cose non appaiono così scontate: ci sono altri che avrebbero tratto vantaggio dalla morte di Irace, Però l’indagine si rivelerà difficile e spinosa soprattutto per le interferenze del potere politico, che vuole a tutti i costi la condanna del “pugile vigliacco” che ha abbandonato il ring imbattuto. A complicare le cose ci sono poi le storie personali dei due investigatori; storie che rischiano di distrarre l’attenzione dal caso: Maione vorrebbe aiutare Bambinella, il cui “innamorato” ha pestato i piedi ad un camorrista e, ora, rischia la vita; Ricciardi, d’altra parte, pur facendo con assiduità il “cavalier servente” alla bellissima Bianca, è in crescente pena perché Enrica sembra prossima al fidanzamento. Alla fine la soluzione dell’inchiesta apparirà in tutta la sua straziante evidenza. Come al solito la molla omicida è da ricercarsi nei due moventi classici: la fame e l’amore. Anche le situazioni personali dei due protagonisti si riveleranno, forse, meno insolubili del temuto.
Commentare un romanzo di De Giovanni è sempre impegnativo. Infatti si rischia di diventare tediosamente ripetitivi e banali.
Che altro dire se non che lo stile è mirabile e sfiora, in alcuni passaggi, una vera poesia in prosa? Che la tecnica narrativa è perfetta ed alterna, con accurata scelta di tempi, alle scene drammatiche, i divertenti siparietti con il comicissimo brigadiere Maione, puro distillato di umanità partenopea? Che la vicenda gialla è ben congegnata e descritta, per quanto faccia solo da trama sulla quale è intessuto l’elaborato arazzo dei sentimenti umani sapientemente analizzati? Che l’ambientazione storica è accurata al punto da precipitare il lettore in pieni anni ’30, come dentro ad una perfetta macchina del tempo?
In effetti se non ci si vuole ripetere rimane poco altro da aggiungere, se non che, forse, “Serenata senza nome” risulta più gradevole rispetto ai due volumi che lo hanno preceduto, troppo intimamente deprimenti e cupi. Qui c’è maggiore equilibrio delle componenti e la storia fluisce in maniera più agile e tranquilla. Per quanto anche questo romanzo ponga l’analisi delle emozioni al centro dell’attenzione, è dato rinvenire un pathos meno esasperato; i personaggi e le loro vicende sono raffigurati con tratti più lievi, con contrasti meno accentuati, tinte meno fosche. Anche l’altalenante amore a distanza tra Enrica e Ricciardi assume meno quei connotati da tira-e-molla tipici di una telenovela brasiliana, che avevano inacidito un po’ i contenuti dei romanzi immediatamente precedenti.
Si potrebbe criticare, forse, la struttura stessa del romanzo: sin troppo meccanicamente simile a quella di altri. Anche in questa, infatti, vi è l’alternanza tra gli interludi (in cui due ignoti personaggi analizzano l’animo poetico di una famosa canzone napoletana), il filone narrativo principale dell’indagine (con gli enigmi polizieschi offerti), quelli secondari (descrittivi delle vicende personali di Maione e Ricciardi) e, infine, quegli indecifrabili intermezzi nei quali un elemento naturale (sia esso la brezza, il sogno o la pioggia, come nel caso specifico) ci rivela l’animo dei protagonisti, spogliato impudicamente dalle maschere che ognuno di noi quotidianamente indossa per affrontare la vita. Tutto è simmetricamente composto in un ingranaggio sempre uguale a sé stesso. Si potrebbe anche contestarne l'uniformità, quindi, ma sarebbe come criticare il fatto che De Giovanni abbia voluto apporre la sua firma all’opera. Qualche tempo fa mi fu sagacemente fatto notare che l’A. non scrive romanzi, bensì fa letteratura: ogni sua opera è un piccolo capolavoro di estetica che va accettato anche per questo vezzo personale.
Di fronte a tutta questa “perfezione” rimane al povero commentatore solo una piccola, sadica soddisfazione. Ho notato, infatti, un’incongruenza storica che non mi sarei aspettato di trovare nella precisissima ricostruzione che i romanzi del ciclo di Ricciardi fanno degli anni ‘30. Livia, ad un certo punto della storia, canta davanti ad un pubblico estasiato la canzone di Gershwin “The man I Love”, canzone portata al successo dalla cantante nera Billy Halliday. Testualmente De Giovanni scrive “la platea, che si aspettava una romanza, o al limite un pezzo tradizionale, fremette: la canzone di un ebreo alla presenza di nazisti e fascisti”. Ora la vicenda è ambientata nell'ottobre del 1932, alla vigilia dei festeggiamenti per il decennale della Marcia su Roma. A quell'epoca il fascismo non aveva ancora evidenziato alcuna connotazione antisemita (anzi la popolazione di religione ebraica benestante appoggiava apertamente il Regime e molti avevano partecipato alla Marcia su Roma). Proprio nel 1932 Mussolini ebbe a dichiarare ad un giornalista ebreo che l’antisemitismo non faceva parte della cultura italiana. Quindi non si comprende la “sfida” che la scelta del brano avrebbe comportato ed il “brivido” negli astanti. Inoltre questo scivolone fa coppia con l’altro “falso storico”: nel 1932 non potevano esserci diplomatici nazisti a Roma, poiché il partito nazionalsocialista, pur avendo ottenuto un confortante risultato elettorale nel luglio di quell'anno, non era il partito di governo. A novembre ci saranno nuove elezione nelle quali, addirittura, il partito subirà una flessione come numero di seggi. Solo nel gennaio 1933 Hitler verrà nominato Cancelliere. Quindi quella scena non potrebbe mai essere avvenuta nella realtà ed è da considerarsi una licenza poetica al solo scopo di creare un coup de theatre; intendiamoci perdonabilissimo, ma incongruo perché l’A. non ha bisogno di questi “effetti scenici” per suscitare emozioni nei lettori.
Peraltro, De Giovanni è da ringraziare per un altro verso. In un’epoca in cui, ormai, ci vergogniamo delle parole e siamo arrivati a sostituire agli eufemismi parole ulteriormente edulcorate per evitare, usando i lemmi corretti secondo il dizionario, di urtare la suscettibilità di sedicenti benpensanti, non ha esitato ad usare, più volte il termine “negro” per definire l’avversario che Vinnie aveva involontariamente ucciso sul ring. Suppongo che la tentazione di utilizzare l’accezione “pugile di colore” sia stata forte, ma nel 1932 sarebbe stato assurdamente anacronistico se non addirittura ridicolmente ipocrita, visto che la parola neppure aveva (almeno all'epoca) un senso dispregiativo.
Concludendo, dopo queste due divagazioni, “Serenata senza nome” è sicuramente un libro da leggere, anzi, alcuni passaggi meritano di essere letti e riletti sino ad imprimerseli nella memoria, perché sono tocchi d’artista che meriterebbero una vita propria, al di fuori del racconto in cui sono inseriti.
Chiudo con una delle tante frasi che mi hanno colpito.
“L’amore è un dio perfido. Ci sono stati momenti in cui avrei preferito che mi odiassi. L’odio è pur sempre un’emozione dal colore carico, non come l’affetto, che è dipinto con gli acquerelli”.