Dettagli Recensione
Teresa Battaglia
Bosco di Travenì. Il corpo di un uomo viene rinvenuto privo di vita. Giace sull’erba in posizione supina, è coperto di brina. Il candore della sua pelle contrasta con il nero dei capelli e del pube. Le braccia sono poste lungo i fianchi, le mani adagiate su un cuscino di muschio, tra le dita qualche fiore invernale dai petali pallidi e trasparenti. Un dipinto quello che si apre innanzi alla squadra di polizia, in cui gli unici colori sono determinati dal rosso cadmio scuro del sangue ormai freddo, delle vene svuotate, dalle membra rigide. Il gelo ne ha mantenuta integra la conservazione, nessun odore se non quello della selva, della terra umida e delle foglie marcescenti è percepibile nell’aria.
Investita del caso è Teresa Battaglia, commissario di polizia specializzato in profiling che ogni giorno scruta e analizza il peggio del peggio dell’intimo dell’essere umano e che imperturbabile nasconde un segreto, un segreto inconfessabile ma determinante per la sua vita e la sua carriera lavorativa. Tanti sono gli elementi che la rendono inquieta: il quadro presentato fa pensare ad un delitto compiuto da due persone diverse. Una prima, lucida, metodica che ha posizionato e custodito (con trappole varie) il corpo affinché arrivasse al suo pubblico nel modo più integro possibile, una seconda, al contrario, completamente disorganizzata, quasi animalesca, che non si è fatta scrupoli o preoccupazioni nell’uccidere in vicinanza di un sentiero e con alte possibilità di essere visto/a. Quasi, come se l’omicidio fosse frutto di un raptus. La protagonista, coadiuvata nell’inchiesta dal novizio ispettore Massimo Marini, con cui si instaura da subito un rapporto molto particolare a cui ancora non si è in grado di dare un nome, e dai veterani del corpo, sa benissimo che per capire chi è l’assassino di Roberto Valent deve prima di tutto stabilire il come dell’azione e, una volta ricostruite passo passo le modalità di questa, rispondere a quell’unica ma fondamentale domanda: perché? Interrogativo a cui nello scorrere dell’opera se ne aggiungono molti altri. Chi è il bambino n. 39? Cosa si cela nel passato? Cos’è accaduto nel trascorso da essere così determinante per quello che è oggi il presente?
Da questi brevi e semplici assunti ha inizio il romanzo di colei che è definita come la nuova promessa del thriller italiano, Ilaria Tuti. Che dire, i presupposti per riuscire ci sono tutti: lo stile narrativo è fresco, ben argomentato, sottile, elegante e sufficientemente maturo. La storia, dal suo canto è ben orchestrata e caratterizzata dai giusti colpi di scena, dai giusti mutamenti d’azione. Le ambientazioni, ancora, rendono palpabili le vicende descritte, i protagonisti sono ben delineati tanto da risultare tangibili e concreti per chi legge. Purtroppo però, quel che manca all’opera è quel velo di originalità che l’avrebbe resa inattaccabile sotto tutti i punti di vista. Nello scorrere delle pagine, infatti, i riferimenti e i rinvii ad altri elaborati (vedi “Child 44”/”Bambino 44” di Tom Rob Smith, giusto per citarne uno a titolo meramente esemplificativo) del filone sono inevitabili. Quella sensazione di deja vu è una costante in tutto il volume e fa sì che il lettore perda un poco di interesse nel conoscere dei fatti. L’impressione è quella di ritrovarsi di fronte a un riassunto del meglio che c’è in giro in materia di thriller.
Ad ogni modo “Fiori sopra l’inferno” resta un buon romanzo, adatto a chi cerca opere con quel giusto alone di mistero e si conferma un buon esordio il cui successo definitivo è interamente nelle mani dell’autrice. Non ci resta che aspettare e vedere come questa evolverà la storia nonché il personaggio del commissario Battaglia.
Buona lettura!
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Commenti
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Vale.
A presto amici
Simona
Ci sono romanzi molto peggiori anche se ben pubblicizzati.
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