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Sherlock Holmes e Penelope Poirot: chi fa la cosa
“E’ proprio nei momenti di abbandono che la capacità di ragionare dà le sue prove migliori, assurgendo a livello di intuizione”.
Sono le parole del fido Watson, il collaboratore del detective Sherlock Holmes, non può fare a meno di notare che il rigore di un freddo ed astratto ragionamento logico deve trovare un compromesso con l’intuitività e col senso comune se vuole commisurarsi con la realtà dell’esperienza vissuta: e forse è per questo, per venire incontro alla realtà sensibile, che il cristallino intelletto di Holmes va leggermente “corretto” con un pizzico di stupefacenti. A questo principio si affida anche Penelope Poirot, discendente del leggendario Hercule Poirot, una simpaticissima quanto intrigante signora inglese di quasi mezza età, protagonista de Penelope Poirot fa la cosa giusta, romanzo di Becky Sharp (nome d’arte di Silvia Arzola), dal sapore fortemente gotico e di preziosa fattura narrativa e linguistica. La Poirot, alla quale piace “annebbiare” l’ingegno con un bicchierino tracannato di tanto in tanto, è convinta che per risolvere un giallo ci voglia soprattutto suggestione: un fiuto quasi animale, l’infallibile capacità della sensibilità di captare i segni di un delitto:
“oltre alla silhouette a forma di pera, il prozio le aveva trasmesso una qualche eredità genetica: un talento nel risolvere oscuri crimini o perlomeno la facoltà di giudicare misteri letterali.”
Che il fiuto non le manchi non è strano: di mestiere fa la critica gastronomica, ha alle spalle una lunga carriera da buongustaia che le ha depositato quei chili di troppo direttamente sul girovita Ed è proprio per perdere questi chili che l’elegante signora inglese, coi suoi bauli di vestiti, il suo collo di volpe, sui suoi tacchi a spillo, si reca nel cuore della Toscana, a Villa Onestà, insieme alla sua segretaria Velma Hamilton, una non più giovane e quasi zitella donna anche lei inglese. E’ all’interno della villa,una sorta di clinica della salute in un parossistico stile new age, che, in un clima di sottilissima quanto esilarante ironia, s’inscena una concatenazione di intrallazzi amorosi e misteri che condurranno al fantomatico e immancabile delitto. Sin da subito si respira un’aria inquieta che fa di Villa Onestà una versione ironica e postmoderna del sanatorio di lusso della Montagna magica: sulla scena si muovono vari personaggi, come la scrittrice di romanzi gialli Elisabeth e suo marito Achille, il “vero” scrittore, e ancora il medico direttore della clinica, avvenente ed inquietante padrone di casa e una piccola folla di massaggiatori, giardinieri, cuochi ed ospiti variopinti. L’autrice tesse la trama da sapiente conoscitrice del genere, del quale sono spesso presenti molti elementi caratteristici: tra di essi la collaborazione tra la detective e la sua aiutante, come nei romanzi di Conan Doyle; e anche una parte della narrazione sotto forma di diario memorialistico composto dalla collaboratrice Velma, come nei Delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe. L’irruente Penelope Poirot è convinta, come lo era anche il detective Auguste Dupin, che per risolvere un caso non si debba applicare un ragionamento troppo analitico, astratto, seguendo un’idea fissa che ci si era proposti. Bisogna,
“restare a distanza, mantenere una visione d’insieme, non andare mai troppo a fondo”,
e solo allora attendere con pazienza che l’intuizione e il senso comune colgano quegli elementi necessari alla risoluzione. Elementi che emergono dal contesto, come nel romanzo della Sharp, rendendo l’effetto suspense ancora più riuscito. Elementi che, per colpa del caso, potrebbero anche non presentarsi mai. Chi lo sa se Penelope Poirot riuscirà, con suo grande intuito e con un pizzico di fortuna, a fiutare e, infine, a fare la cosa giusta.