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TETTÈ
Un bambino, uno come tanti. Il classico scugnizzo, abbandonato a sé stesso, alle intemperie, alla povertà, alle miserie della vita. Il suo gracile corpicino viene rinvenuto nelle prime ore del mattino, il suo unico amico, un cane bastardino a chiazze, è rimasto con lui sino alla fine ed ora, seppur privo della facoltà di parlare, sussurra e chiede a Ricciardi di indagare, perché non tutto è come appare, non tutto è come sembra. Il suo è uno sguardo silenzioso, mosso, dalla volontà di giustizia ma anche dal legame di fedeltà che lo stringeva al piccolo balbuziente che soltanto con lui sapeva parlare.
Ed il commissario Luigi Alfredo Ricciardi non si sottrae a quella preghiera, a quella richiesta sorda. Non può farlo perché quegli occhi sembrano invocarlo a gran voce, non può farlo perché qualcosa nel ritrovamento del cadavere non lo convince. Va contro tutto e contro tutti il funzionario, arriva addirittura a prendersi qualche giorno di ferie, lui che non si è mai assentato dal lavoro, lui che è sempre arrivato prima dell’orario di inizio del turno per andarsene ben oltre dopo questo, pur di poter investigare, pur di poter arrivare alla verità. In contemporanea, l’imminente visita del Duce in quel di Napoli, in contemporanea il corteggiamento incessante della vedova Vezzi ormai trasferitasi in città, in contemporanea il sodalizio tra la tata Rosa e la paziente e calma Enrica, in contemporanea Modo e Maione, antitesi perfette dell’agente.
Un capitolo, questo, dove De Giovanni non manca di toccare il cuore di chi legge, dove l’autore non manca di solleticare le corde più intime. Perché sotto la falsa veste dell’indagine di polizia, tante sono le tematiche che vengono toccate ed affrontate, molteplici sono le riflessioni indotte.
E’ mediante l’ausilio di due creature affini, il piccolo cane e il bambino affetto da balbuzie, entrambi così magri da potersi perfino assomigliare, che la magia ha luogo, che il ruolo e la figura del protagonista si consolidano, che la visione di una Napoli affamata e indigente ma prostrata al Fascismo si palesa, che l’emarginazione sociale affetta e penetra nei cuori. Poiché sono sempre i più deboli a pagare il conto di quella avidità e povertà, loro, gli invisibili, i dimenticati. I dimenticati che sono avvicendati da un semplice ed ineguagliabile legame: la lealtà. E’ da questo che traggono la forza di andare avanti, di sopravvivere.
«Perché sono stato un bambino anch’io orfano pure io, brigadie’. Senza un padre e senza una madre, abbandonato in mezzo alle strade di questa città. Io lo so, che non sei niente; che se campi o muori è lo stesso e nessuno se ne fotte. Mi sono dovuto guadagnare la vita a bocconi e a morsi, proprio come a questa creatura sfortunata che avete trovato a Capodimonte. Diciamo che è stato un fiore sulla cassa di questo bambino. Un fiore da parte di Bambinella» p. 236
Non mancano infine, le tanto attese svolte in ambito sentimentale, ma in merito non svelo altro in quanto queste non sono che i primi passi per quegli sviluppi che troveranno una evoluzione significativa e concreta nell’ultimo capitolo della serie, “Rondini d'inverno. Sipario per il Commissario Ricciardi”, da ieri disponibile in libreria (e che si, lo confesso, ho già letto).
In conclusione, “Il giorno dei morti. L’autunno del commissario Ricciardi” è un testo caldo, avvolgente, empatico e ricco di contenuti, un testo avvalorato da uno stile fluido che accarezza il conoscitore e che non pecca nemmeno per ricostruzione storico-ambientale.
«Acqua. Acqua che non lava. Che scende in mille fiumi e trascina il fango sulle soglie dei bassi e dentro, allungando dita melmose sui pavimenti in terra battuta, nella paglia annerita dei letti. Che picchia sulle finestre e sveglia il sonno, o reca nei sogni fantasmi di antichi dolori. Che lascia tracce nere sugli alti muri di tufo, trovando vie in vecchi palazzi per minarne le fondamenta. Che imbratta scarpe lucide e strappa ombrelli nelle mani, perché non vuole ostacoli per entrare nelle anime e portarci l’umido della tristezza. Acqua che separa. [..] Acqua che deruba [..]. Acqua che fa paura. [..] Acqua che non finisce» pp. 57-58
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