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Il diavolo custode
 
Il diavolo custode 2008-01-22 04:32:07 Torreggiani Emanuele
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
Opinione inserita da Torreggiani Emanuele    22 Gennaio, 2008

Storia di un ribelle

La storia inizia quando fame fumo freddo e fastidi erano, detti così tutti d’infilata l’un l’altro, norma di vita. E allora, poi l’accento della filastrocca si poneva sull’ultimo: i fastidi, quelli che venivano nel tentativo di sfangare ribellandosi alla dura legge della giornata. Un bandito è un bandito, si dirà. Chiaro, ma un bandito, il bandito di allora non era propriamente il criminale di oggi. E non solo perché con questa storia narrata e da leggere siamo nella verità del romanzo, ma perché nella verità della storia, quella che si dovrebbe scrivere con la esse maiuscola, allora non si rubava per diletto, per piacere, per avidità, ma semplicemente per fame.

Un ragazzo del ’99 (1899) il Sante Pollastro prende, appena tredicenne, la via del furto: ruba una gerla di carbone, aveva freddo. Era quell’Italia che sapeva illustrare Achille Beltrame sulle tavole della Domenica del Corriere, quell’Italia che si apprestava a scendere in campo per la Prima Guerra mondiale, quell’Italia che si appassionava per i primi voli del comandate Gabriele D’Annunzio e di Francesco Baracca, per le imprese del dirigibile Italia in volo sul Polo, per il naufragio del Titanic. Un Italia così diversa da quella odierna che quel tempo non pare neppure l’altro ieri, ma lontanissimo come lo sono i frammenti dei ricordi delle favole udite nella prima infanzia. Ma era l’Italia di allora fatta di città, paesi e contrade unite da una bandiera tricolore più che da una lingua, i dialetti infatti erano parlata costante e un ‘giro’ da Abbiategrasso a Milano erano sgambate di otto ore al passo e di quattro in bicicletta lungo strade sterrate coperte di breccia ed alle case cantoniere ammucchiate in bella vista cumuli di pietra che gli scalpellini lavoravano a mano. Ed era un Italia di boschi, di brughiere, di nebbie, di pioggia, di acque di rongia, di osterie dense di fumo, di lampadine da venticinque candele, era quell’Italia che oggi possiamo vedere quando in televisione inquadrano, per il fotogramma d’un attimo, i paesi emergenti dell’Est. L’Italia era così: paesi che erano cortili larghi e fitti e laggiù in fondo, tra gli sgambusci e l’olezzo dei cessi comuni, pollai, conigliere e porcilaie, dove guatavano cani scheletrici, affamati, forse tisici. E il Sante Pollastro, e che omonimia nel cognome con il mestiere di suoi avi venditori di polli, viveva lì. E lì si mosse sin da piccolo per uscirne dalla fame, dal freddo dal fumo e, subito catturato dai carabinieri, entrò nei fastidi che gli sarebbero durati per tutta la vita.

Passione per la rivolta, la sua, semplice ma greve rivolta contro il destino segnato dalla condizione della nascita, eppoi lo squillo della rivolta allora infiammava gli animi come squillo di quella fanfara che imperava nella piazze nei dì di festa: un anarchico, il Pollastro, ma estraneo da connotazioni ideologiche. Rubava per sfangare, rubava ai ricchi perché avevano troppo e ridistribuiva il ‘bottino’. Rubava per il gusto della sfida, della beffa, del pericolo. In quel rubare c’era tutta la scintilla del sempre osare, motto futurista. Rubava e rivendeva il maltolto agli abili ricettatori che smontavano i gioielli, fondevano l’oro e denunciavano nottetempo ai Carabinieri i briganti per avere loro salva la bottega di apparente rigattiere. Barattava un gioiello con la madama che gestiva il bordello e liberare la ragazza, veneta o lucana, di cui s’era invaghito o semplicemente impietosito. Sante Pollastro l’imprendibile, nome e gesta che crescevano di paese in paese, di osteria in osteria, di bocca in bocca. E scontri a fuoco con i Regi Carabinieri. E feriti e morti. Quindici, in tutto. E di qua e di là dal confine, lungo le strade della Francia, di là dagli Appennini sulla via dei contrabbandi, dentro le neve e la pioggia, dentro la notte. Colpi, inseguimenti, mandati di cattura internazionali, manifesti con su la faccia e la taglia per Sante il bandito, travestimenti e sparizioni sino alla grande città, alla capitale del mondo: Parigi.

Una grande passione coltiva l’anarchico Pollastro: la bici. Suo compaesano novese Costante Girardengo che allora, e primo tra tutti, si meritò il titolo di Campionissimo. E così a Parigi, sulle tracce del campione dei campioni, la polizia lo attende. A Parigi, il 10 agosto del 1929 scattano le manette in metropolitana per Sante Pollastro.

Lo arrestano gli agenti comandati dal commissario Guillaume, il commissario della Surete Nationalal, che Georges Simenon conobbe ed intorno al quale ritagliò la figura del commissario Jules Maigret. Mentre Costante Girardengo in quell’anno vinceva gare alla Sei giorni di Parigi il Sante Pollastro rientrava in Italia e veniva condannato a tre ergastoli. Nel 1959 viene graziato dall’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e fa ritorno a Novi Ligure dopo aver trascorso trent’anni di carcere a Porto Santo Stefano. Finirà i suoi giorni come venditore ambulante, senza licenza, nel 1978.





“Il diavolo custode” del Balocchi dr. Luigi già maestro, è un libro scritto in lingua. Cioè in italiano. Ed è un’assoluta novità. Qualcheduno leggendo crederà che il notista di questo pezzullo stia uscendo pazzo. Il che può essere ma mi pare che la lingua della letteratura sia altra cosa dalla lingua della giornata televisiva, lavorativa, giornalistica anche e forse soprattutto. Quando l’attacco delle prime righe del suo romanzo suona così: “In quattro gli eran presto intorno. Quattro amici e in mezzo lui, la bicicletta a canna lunga presa a ùffa per un giro squinternato” possiamo dirlo che siamo dentro ad una prosa che identifica l’autore che vuole lavorare narrando la storia usando la lingua: l’italiano. E’ una narrazione che panzana certo, e ci mancherebbe, e lo fa con fascino, esagerando, condannando e assolvendo. Utilizzando trama e ordito del romanzo per tessere una leggenda ch’è altra cosa dalla Storia ma forse, e proprio per questo, si avvicina più alla verità della vita che alla verità della legge. Già perché capita a tutti che osservando un uomo diciamo che abbiamo visto un uomo. Ma un uomo noi non lo vediamo mai tutto. Ne scorgiamo una piccola porzione e da quella piccola porzione, che vediamo, ci incapsuliamo in un pregiudizio, ci costruiamo una “storia” ed emettiamo un giudizio. Ma alla fine, noi l’uomo, che qui equivale a persona, mica l’abbiamo visto. Il romanzo, l’invenzione intorno all’uomo scritto per l’uomo, ci insegna a comprenderlo. E intanto, mentre ci diverte, ci fa anche soffrire. Ed usa la lingua, cos’altro…

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