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L’America latina che c’è alle porte di Milano.
Carlo Monterossi - autore televisivo ricco ed osannato dal pubblico, ma schifato da quanto è costretto a scrivere - incautamente ha deciso di dare una festa per il suo compleanno. Il giorno dopo, quando tutti i conoscenti degli amici degli amici degli amici (etc.) che gli hanno invaso casa se ne sono andati via, restano da eliminare solo i residui del festino. Compito della bravissima Katrina, la colf moldava. Ma anche l’efficientissima donna non sa cosa fare del cinese (giapponese, coreano? Boh?) che dorme sul divano e mostra un ematoma sulla tempia sinistra grosso come un’albicocca. Solo con l’aiuto dell’amico Oscar, l’uomo dalle mille risorse, Carlo scopre che l’ospite, piccolo architetto nipponico (ah, ecco!), è stato aggredito la sera prima in una pensione poco discosta da lì, da due sconosciuti, ma ora non ricorda più nulla, nemmeno chi è. Tuttavia, probabilmente, è nei guai più di quanto si immagini. Puntualmente questi si materializzano poco dopo, mentre Carlo è ad una riunione di lavoro. Gli stessi due sconosciuti irrompono in casa sua. Legano Katrina a mani e piedi. Rivoltano l’appartamento come un calzino alla ricerca di un misterioso oggetto di piccole dimensioni e, utilizzando una tattica di “dialogo” troppo brusca, spezzano il collo al giapponese che scaricano, cadavere, nell'auto di Carlo.
Per timore di essere lui la prossima vittima, Monterossi , su consiglio di Oscar, si allontana rapidamente da casa. Comincia così, una incredibile latitanza in un quartiere periferico di Milano, il Corvetto, per lui, prima, solo un’uscita della tangenziale, ospite di "El Papa", uno strambo “tupamaro” che dedica il suo tempo ad aiutare i compatrioti latinos nei guai.
Nel frattempo la polizia, nella persona del disilluso, ma abilissimo vicesovrintendente Ghezzi, indaga su questo omicidio e su di un altro apparentemente collegato, mentre tutte le restanti forze dell’ordine paiono assorbite solo dai convulsi giorni inaugurali dell’Expo 2015. In questa strana situazione, confinato in un ambiente dove gli italiani sono una minoranza, neppure molto ben vista, Carlo scoprirà una realtà prima neppure sospettata, ma troverà pure l’amore della bellissima Marìa, ragazza ecuadoriana con guai più grandi della sua stessa bellezza.
“Dove sei stanotte” - il titolo è tratto da una canzone di Dylan di cui Carlo Monterossi è fan sfegatato - è il secondo romanzo in cui compare il personaggio dello scrittore televisivo deluso, già protagonista di “ Questa non è una canzone d'amore”.
Il romanzo è un poliziesco insolito, dai ritmi rapidi ed abbastanza intrigante.
Non conoscevo Robecchi e sono rimasto piuttosto colpito dal suo stile. L’autore usa un linguaggio slegato, anarchico. Spezzettato in frasi telegrafiche, sparate fulminee come proiettili di mitragliatrice. Metà di esse non rispetta neppure la canonica regola dell’unione di soggetto, predicato e complemento, ma sono solo sostantivi aggettivati, verbi orfani, proposizioni monche. Tutto ciò introduce perfettamente l’ambientazione: una Milano convulsa che sembra debba andare sempre e comunque di fretta, così tanto che non c’è neppure il tempo di completare le locuzioni, per chiudere i pensieri. È uno stile che ben si adatta anche alle vicende affannate ed intricate narrate nel libro.
I personaggi che mette in scena sul suo palcoscenico sono tangibilmente concreti. È gente che effettivamente potremmo incontrare nel mondo reale dove non c’è bianco e non c’è nero, ma solo una infinita sfumatura di grigi. Ognuno ha le sue inevitabili luci ed ombre. Nessuno è simpaticissimo (se escludiamo, forse, Marìa, ma la ragazza è mostrata solo attraverso le lenti deformanti dell’amore di Carlo) e nessuno è realmente odioso se non (forse) i cattivissimi di turno.
La trama è avvincente. Si snoda ed accelera via via, col suo affastellare vicende intrecciate una nell'altra e con qualche colpo di scena (questi ultimi, per vero, non tantissimi). Il lettore, così, viene avvinto e condotto, anzi trascinato, quasi di corsa, verso l’inevitabile happy end, condito con una puntina di amaro, perché la vita, in fondo, è proprio così.
Concludendo, un buon libro per passare qualche ora di svago distensivo. Un unico appunto finale: ho trovato abbastanza banali e trite certe invenzioni, un po’ populiste, un po’ qualunquiste e un po’ radical chic amareggiato, con cui, soprattutto nel finale, Robecchi, guarnisce la sua storia, quasi a voler ricordare che non ha rinnegato il suo passato di editorialista di Manifesto e Cuore. Ma è un piccolo difetto in un’opera tutto considerato piacevole e scorrevole che si fa leggere con piacere.