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Il posto che tutti conoscevano come Villa del Gufo
Gli specchi, da Biancaneve in poi, sono un sortilegio variamente utilizzato in letteratura. “Lo specchio nero” di Gianluca Morozzi è una metafora dell’enigma della camera chiusa, uno stilema che Agatha Christie ha utilizzato – ad esempio - nei “Tre topolini ciechi” e nei “Dieci piccoli indiani”, così come Poe l’ha interpretato con “I delitti della Rue Morgue”. Ma la camera chiusa è anche un ambiente letterario: come non ricordare Shelley, Byron e Polidori che in un ambiente chiuso sulle rive del lago di Ginevra si trastullavano leggendo i loro racconti orrifici?
Di tutte queste suggestioni Gianluca Morozzi è ben consapevole: le cita a piene mani, le elabora, e così costruisce il suo personale enigma della camera chiusa: “C’era una ragazza morta con la gola tagliata dentro una stanza con la porta chiusa dall’interno, e un uomo morto in un bagno cieco con la porta chiusa dall’esterno. L’unica persona viva tra quelle due porte era lui…”
Com’è finito in questo incubo il frastornato e psicanalizzato Walter Pioggia, autore dell’autobiografico “L’uovo del mondo” e editor alla Bandini, la casa fondata dal mecenate Ruggero?
È stato drogato durante un concerto (“Il concerto era gratuito… i Despero”) o è stato ipnotizzato? È il responsabile di un duplice delitto o è soltanto il capro espiatorio di una terribile vendetta?
Tutti i personaggi, naturalmente, sono guardati con sospetto. Compresa Isabel (“Io… ti ho inviato una cosa in lettura… Lo specchio nero”), autrice che riproduce la sua vita negli Oltrenauti…
L’incubo di Walter procede insieme alla storia di due adolescenti, Erik e Darko, che frequentano i sotterranei di una Bologna recondita e sotterranea nella quale dominano personaggi come Il Duca.
Giudizio finale: subliminale, stratificato, convergente
Bruno Elpis