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Un conto aperto con la morte
 
Un conto aperto con la morte 2015-06-29 03:27:45 Bruno Elpis
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    29 Giugno, 2015
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Lo scafandro del detective

“Un conto aperto con la morte” di Bruno Morchio è la prosecuzione della storia narrata nel precedente romanzo “Lo spaventapasseri”.

Bacci Pagano, il detective bello e dannato che opera nella città della Lanterna, ha subito un attentato nel quale ha riportato un grave danno alla colonna vertebrale. In attesa del rischioso intervento chirurgico dall’incerto esito, vive con impazienza e tormento la propria inabilità temporanea (“Imbragato com’era nello scafandro ortopedico”), costretto all’inerzia forzata nel suo appartamento. Gli amici, il senatore Cesare Almansi (“Figlio di una borghesia interclassista educata alla scuola di don Sturzo e Primo Mazzolari”) e Gina Aliprandi, pensano bene di distrarlo da preoccupazione e dolore affiancandogli un noto scrittore, che ha l’incarico di imbastire un romanzo nel quale narrare un caso poliziesco di Bacci (“Insomma, vuole scrivere a tutti i costi un romanzo-verità”). Detto, fatto: perché il caso da narrare è quello che Pagano sta vivendo e consiste nell’individuare ragioni e responsabili dell’attentato che l’ha colpito così duramente (“Perché tu… resti convinto che l’attentato contro di te sia collegato all’omicidio (di Adele) Semeria”).

L’idea di fondo è quella di sovrapporre realtà e finzione, vita vera e racconto della stessa per esplorarne le connessioni. Perché sia il Bacci investigatore, sia il romanziere Gian Claudio Vasco (“Il mio ruolo è quello di un alter ego”) sono, in fondo, gli alter ego dello scrittore.
Per condurre questa operazione, Bruno Morchio si avvale della ricerca psicologica: così nella casa di Bacci Pagano sfilano la figlia, la ex moglie, amici e amanti, che riportano a galla passato, trascorsi e sottofondi ideologici (“Con Clara… una relazione intermittente, come si usava allora, quando si sperimentava su tutto e anche i sentimenti venivano influenzati da una razionalità che all’ipocrisia aveva sostituito l’autoinganno della verità a tutti i costi, fra coppie aperte e improbabili comuni dove il sesso libero era insieme premio e condanna, sollievo e maledizione”).
Ma l’autore utilizza anche una tecnica interessante: il ricorso a riferimenti letterari che agiscono non soltanto da raffinato substrato (“Il pensiero d’essere tirato in ballo per distrarlo dall’idea della morte mi ricordò la storia di Sheherazade; peccato che nel nostro caso chi doveva raccontare era lui”), perché sono elementi costitutivi della trama, decisivi per la soluzione del caso. Così è per “I fratelli Karamazov” di Dostoevskj (“Del resto, quella verità appariva troppo letteraria per essere ammessa nell’aula di un tribunale”), così vengono citati “A sangue freddo” di Truman Capote e la pulsione gregaria di “Psicologia delle masse e analisi dell’io” di Freud.
Anche per questo il romanzo, finalista al Premio Nebbia Gialla 2015, può costituire spunto per interessanti riflessioni che vanno al di là del mero intrattenimento, nella splendida cornice di una Genova viva, che non è soltanto panorama suggestivo dalle finestre dell’appartamento di Bacci Pagano.

Bruno Elpis

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