Dettagli Recensione
L'anima immacolata della Calabria
“Anime nere”, da cui è stato tratto l’omonimo film, è il romanzo d’esordio di Gioacchino Criaco.
Criaco è uno scrittore calabrese; anzi, di più, è originario dall’essenza stessa della Calabria, poiché è nato alle pendici dell’Aspromonte, che della Calabria è il simbolo, questa montagna è la personificazione eccellente della Calabria, il suo emblema di fierezza e impenetrabilità insieme.
I giovani protagonisti del romanzo, la voce narrante in particolare, sono anch’essi nativi della montagna, sono letteralmente forgiati dalla dura roccia aspro montana.
L’Aspromonte è quindi la vera protagonista assoluta del romanzo; è un massiccio montuoso dell’Italia meridionale ricoperta di foreste intricatissime, percorsa da sentieri nascosti inaccessibili ai più, intrisa da una rete di rivoli provenienti da letterarie sorgenti di chiare e fresche e dolci acque.
Per lo più, è pascolo esclusivo di greggi di capre, unico insediamento produttivo del luogo.
“Anime nere” non è, come si è facilmente indotti a credere, lasciandosi fuorviare dal titolo, un banale racconto di vita e malavita, di bisogni e disperazione, di n’ndrangheta e delinquenza, non è la descrizione dell’escalation criminale di giovani dalle vite perdute, costretti al delinquere e alla violenza dalla necessità e dal bisogno.
Questi temi entrano nel romanzo di straforo, ma sono per lo più un pretesto, un input narrativo, qui si parla essenzialmente di una sola anima, di un’”anima bianca” e immacolata, la Calabria appunto.
Si discetta della sua intima essenza, la montagna, come detto quell’aspra montana in particolare, s’indugia sulle sue pendici che sono pascoli, certosinamente distribuiti tra i pastori locali, che sono i veri autentici “calabresi” sensu strictu, uomini bronzei che non a caso oggi, come letteralmente emerso dalle acque di Riace, sono l’icona della Calabria.
L’Aspromonte, la Locride, Africo, San Luca, Polsi, la piana di Gioia Tauro, questi più che le città e più dello stesso capoluogo, sono i centri maggiormente rappresentativi della “vera e autentica” Calabria, terra arcaica e fantastica, di selve e di rocce.
E lo ripetiamo, di pura roccia, inaccessibili, intransigenti, fieri e leali custodi di valori arcaici di elevata levatura morale, forgiati dalla fedeltà e dall’osservazione maniacale di antiche leggi e infrangibili codici d’onore, ne sono di conseguenza i nativi.
Una stirpe di uomini duri e temprati conseguenti proprio alla durezza dell’esistenza, e alla necessità vitale di trasformarsi, all’occorrenza, da pacifici pastori a bravi guerrieri, possibilmente vincenti, poiché diversa scelta al soccombere miseramente non esiste.
I nativi, intrisi di etica e della nobiltà a questa connessa, sono in genere pastori da tempo immemorabile.
I pastori dell’Aspromonte sono gli unici, veri, nobili padroni del loro territorio.
Essi soli entrano in simbiosi con la natura fiera e selvaggia di questo territorio, vi s’immergono diventando elemento essenziale della montagna, e lei li accoglie, da sempre normalmente ostile con tutti, benevolmente accoglie coloro che unici riconosce intrinseci alla sua essenza. E li elegge i suoi figli prediletti: i figli dei boschi, i figli di una terra che nella notte dei tempi fu detta Ausonia, per la fertilità straordinaria del suo suolo, e successivamente avrebbe preso il nuovo nome di "Italia", passato poi per estensione alla penisola intera.
Sono pastori di capre; poiché solo le capre, animali intelligenti di per sé, possiedono non solamente l’agilità richiesta dall’asprezza dei sentieri, ma la nobiltà necessaria per averne l’onore di accudirle.
Si disprezzano invece le pecore, bestie docili ma ottuse, si evitano le mucche, dotate di estrema sensibilità, e pertanto vagamente inquietanti.
Le pendici sono ricoperte fittamente di boschi, ma anche qui la montagna seleziona naturalmente gli alberi più adatti, generando foreste fittissime di pini e larici e castagni, assai di meno le querce, alberi possenti ma che assorbono troppe risorse desertificando il territorio; non solo, ma fruttificano ghiande di cui sono ghiotti i cinghiali che rovinano le colture sottratte ai pascoli e faticosamente lavorate. Negli ovili si alleva oltre le capre un unico e solo maiale, quello necessario con le sue carni ad aiutare a superare il rigore dell’inverno.
Per quanto splendida e meravigliosa, questa non è, però, una terra facile, a stento si sopravvive.
Questo sarebbe il meno. Il problema è un altro, e viene dall’esterno.
La Calabria è, e resta, una terra mirabile, stupenda, nobile, meraviglioso il territorio e splendidi di umanità i suoi abitanti, insigni e eleganti discendenti diretti dai primitivi Osci, che fin dai tempi più remoti vivevano tranquillamente in questi luoghi, godendosi in pace un autentico paradiso di latte e di miele.
Crearono una città del sole, una comunità reale e non utopica, dove tutti si rispettavano e si aiutavano vicendevolmente, seguendo poche e infrangibili regole etiche impresse a fuoco non nei libri o nei codici imposti dai propri simili, ma nel proprio codice genetico.
Ognuno aveva il proprio territorio, ognuno il proprio ovile, ciascuno viveva in pace nei valori della famiglia e del rispetto reciproco, e chi sconfinava, chi prevaricava, chi s’impossessava con la forza o con la frode di altro e di altri, sapeva a cosa andava infallibilmente incontro, al temuto biasimo e alla giusta punizione da parte dell’intera comunità, a cominciare da quelli a lui più vicini, i suoi stessi familiari. Non c’era pena peggiore e maggiormente temuta.
Poi…
Poi vennero i Greci, distrussero questo paradiso, costringendo i nativi, per sopravvivere, a isolarsi e a ridurre al minimo gli scambi con l’esterno, accogliendo solo i pii religiosi e i monaci devoti letteralmente alla regola.
Non bastò. A loro seguirono i Borboni; e i viceré e chi per loro, con furbizia, capirono che l’asservimento di un popolo così fiero e unito poteva ottenersi solo con le defezioni, con i tradimenti, con le calunnie, con le faide, rompendo l’unità e favorendo la divisione.
Applicarono perciò l’antico detto di Cesare, “divide et impera”, creando una sorta di società segreta strettamente intrecciata nel tessuto sociale, che in apparenza contrastasse il regime, ma in realtà era a esso sottoposto, e con esso collaborava e collabora tutt’ora ai nostri giorni, a distanza di secoli, immutato, preservato e conservato senza differenza alcuna rispetto al passato, per il mantenimento dello status quo, consistente essenzialmente nello sfruttamento di terre e persone.
Risale a quell’epoca la genesi della’ndrangheta, il cui termine, usato pubblicamente per la prima volta nel 1950 da Corrado Alvaro, fa riferimento alla parola “‘ndrina”, che sta a indicare la famiglia di appartenenza, e significa grosso modo “uomo valoroso”, in senso però negativo, come il corrispettivo termine napoletano guappo.
Con metodi violenti, brutali, con omicidi, assassini, faide decennali, gli “uomini valorosi” della ‘ndrangheta svergognano e disonorano questa terra e questi pastori agli occhi del mondo che non sa, non capisce, non si accorge che le anime nere sono ben altre, vengono da altrove, sono nate ben lontano dai territori che infettano.
La società dei “pungiuti”, così sono detti gli appartenenti a tale delittuosa confraternita, a causa del rituale di affiliazione che comporta la puntura di un dito per siglare un patto di sangue, è quindi un sotterfugio creato ad arte dal potere dominante, e tuttora sussiste a esserlo.
Perciò non esiste la legge, non il lavoro, non la giustizia, per queste terre lo Stato è presente e rappresentato solo dalle impronte degli scarponi della Benemerita sulle porte delle abitazioni, alla ricerca di quelli ora definiti latitanti, un tempo definiti briganti.
“Anime nere” sic et simpliciter, ha una trama diremmo banale, è solo all’apparenza la descrizione di una escalation criminale: esso è in realtà un preciso atto di accusa verso le vere anime nere responsabili di tale sfascio, che grida vendetta agli dei dell’Olimpo.
Parla di tre giovani liceali, figli di pastori, e perciò “Figli dei boschi”.
Fosse solo per questo, si intende che si tratta di giovani mirabili, nobili e fieri ma colpevoli di essere nati in Calabria.
E che proprio a causa di quello che la loro regione è stata volutamente fatta diventare, gli studi devono pagarseli da soli, o in alternativa finire sottopagati come apprendisti, o pastori, o emigranti.
Affrontano allora gli studi, e la maturità, con impegno, come tutto quello che fa parte della loro vita: e perciò provvedono, sentono di dover provvedere, anche ai bisogni delle madri, delle sorelle, delle famiglie proprie e degli amici dove manca il capofamiglia, così come deve fare chi ha la cultura e l’intelligenza necessaria a capire la vera essenza delle cose vissute.
Tutto il resto allora è una conseguenza; entrano per forza di cose nel tragitto di una vite senza fine, che gira indefinitamente sempre in un verso, un verso negativo per definizione.
Un vortice progressivo di violenze, omicidi, vendette, creano perfette organizzazioni a delinquere.
Cominciano aiutando i loro padri a custodire, dietro compenso, un “porco”, la vittima di un rapimento a scopo di estorsione, approfittando dell’intima conoscenza del loro impenetrabile territorio; s’impratichiscono dell’uso delle armi, rapinano banche ed uffici postali, gradualmente, come chiunque, da ragazzi che sono crescono e diventano uomini, ma la loro è una maturazione particolare, diversa dalla maggioranza dei giovani coetanei.
Scelgono una vita che comprende momenti di gioie e dolori familiari insieme a un’escalation progressiva e ingravescente che li porta nell’Italia settentrionale, ai vertici della criminalità organizzata; tornano come tanti in vacanza nei luoghi natii a riassaporare gli odori e i sapori delle loro radici, e intanto primeggiano nel traffico internazionale delle droghe; restano fedeli agli amici di una vita e ai valori intrisi nel loro tessuto esistenziale, e contemporaneamente sono intenti a impegolarsi in pieno negli intrighi del terrorismo internazionale e degli inganni politici.
E muoiono, e morendo chissà forse tornano, riescono solo morendo a tornare ai loro monti, ai loro boschi, alle loro floride capre brucanti su pascoli verdeggianti, tornano al loro paradiso.
Tornano immacolati al loro immacolato paradiso, così com’era prima che altri lo rendessero un inferno. Altri, e non loro. Altri, loro sì, anime nere.
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Ferruccio