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Vicequestore: i commissari non esistono più.
“La costola di Adamo” ha per protagonista un personaggio che tanto ha colpito l’immaginario dei lettori già nel romanzo d’esordio della serie, “La pista nera”.
Si tratta del vicequestore della Polizia di Stato Rocco Schiavone, vicequestore come si affanna ripetutamente a ripetere ai tanti che si ostinano a chiamarlo ancora Commissario, malgrado si danni a spiegare a tutti che, a seguito di apposita riforma, i commissari non esistono più.
Antonio Manzini è il creatore di Schiavone, un personaggio che già conta fan affezionati in virtù delle caratteristiche sue originali e particolari insieme.
È un poliziotto, e quindi un buono per definizione, sta dalla parte giusta, e in verità per lo più agisce retto da un sentimento di giustizia, tuttavia è un uomo estremamente pratico, cinico, disincantato. Un uomo che sa come si campa la vita, sa come vanno le cose, quasi mai nel senso giusto, sa che il confine tra malavitoso dichiarato dedito a piccoli traffici e il farabutto di alta classe colpevole dei più nefandi delitti è più spesso labile ed indefinito, e solo e costantemente i primi finiscono sotto la mannaia della legge.
La sua storia, il suo vissuto personale, con tratti tragici e drammatici, ha fatto sì che egli amministri la giustizia, svolge il proprio ruolo con un agire adattato, plasmato sul suo modo di essere e di vedere. Nato in un quartiere verace di Roma, popoloso e popolare insieme, cresciuto come si dice per strada, come dire cresciuto in fretta scafato e indurito, ha intrapreso la carriera in polizia mentre magari i suoi più intimi amici hanno preso strade diametralmente opposte. E tuttavia non li ha persi di vista, non li rinnega, l’amicizia, ma un sentimento di vera amicizia, un legame fortissimo di romanità, di unione, di condivisione di nascita, di intenti e di ideali, li lega per sempre.
Perciò Rocco Schiavone rispetta la legge e la applica, con intelligenza e determinazione, almeno per i reati più gravi, ma egli stesso la infrange quella legge, per esempio si concede uno spinello fumato quotidianamente nell’ufficio stesso della questura, oppure partecipa occasionalmente, e come capobanda, a qualche piccolo, lucroso e categoricamente incruento affaruccio con i suoi fedeli compagni di crescita, balordi solo presunti tali, ma in realtà anche loro solo costretti dalle umane vicende a sbarcare il lunario in maniera non proprio perbenista.
Antonio Manzini scrive bene, e attraverso il suo personaggio ci offre uno spaccato dell’Italia di oggi, un ritratto veritiero dello stato d’animo del nostro paese e di noi stessi.
Stanchi, insofferenti, logorati da un ritmo di vita asfissiante e angosciante insieme, che sempre più spesso ci spinge alla sfiducia nei confronti delle istituzioni e ci induce al venir meno alle regole per un minimo di vivibilità, di sostenibilità dell’esistenza.
Intendiamoci, Schiavone non è un corrotto, non è un Monnezza di cinematografica memoria, non un delinquente sensu strictu; diciamo che ogni tanto fa ciò che non dovrebbe fare.
Ma con i veri delinquenti, con i reati veri perché abietti, è inflessibile.
Non è un giustiziere; è solo un po’ duro, e parecchio cinico, ma non è un uomo privo di sensibilità e di sentimento, tutt’altro. È una persona ben capace di amare; tuttavia il destino gli ha sottratto in circostanze tragiche il suo amore, l’adorata moglie Marina, e da allora Rocco Schiavone continua la sua esistenza, non sempre in grado di mantenersi nei limiti, e di mitigare la rabbia, la furia innescata in lui dalle più spregevoli abiezioni umane.
Rocco Schiavone è un poliziotto, non può e non deve farsi prendere la mano, specie considerando il suo carattere impulsivo, le sue origini e i suoi trascorsi difficili, ma questo gli riesce spesso difficile, ora che gli è venuta a mancare colei che meglio di chiunque riusciva a umanizzare il suo carattere spigoloso e arcigno.
Così Rocco Schiavone si mette spesso e volentieri nei guai, prende iniziative poco ortodosse, al punto che, da romano purosangue com’è, amante perdutamente preso dalla città eterna, dal suo clima, dai suoi sapori, odori, dalle persone a lui intime dall’infanzia, si trova trasferito, per punizione, tra le nevi di Aosta, dove esercita comunque bene il suo ruolo di investigatore, anche se con insofferenza, con un lieve livore in realtà rivelatore di una tristezza, di una malinconia d’animo caratteristica del personaggio.
Che cosa ha fatto di tanto grave Schiavone a Roma, al punto da essere trasferito in una città agli antipodi della capitale, nonostante i suoi trascorsi di valente investigatore?
Niente di che; c’è un giovanotto che si diverte a violentare le ragazzine minorenni, magari massacrandole pure di botte. Rocco Schiavone interviene, e un qualsiasi poliziotto assicurerebbe il colpevole alla giustizia, rinchiudendolo nelle patrie galere. Non Rocco, che si accerta personalmente che il colpevole necessiti di sei mesi di ospedale, dal quale uscirà pure zoppo e semicieco da un occhio, insomma giusto per fargli provare lo stesso trattamento riservato alle vittime, e per rammentargli per il futuro che certe cose non si fanno.
Solo che certe cose nemmeno un poliziotto deve e può farle, in più, e certamente non guasta, il giovanotto è pure figlio di un politico, di un sottosegretario, che a Rocco gliela fa pagare con il trasferimento.
Così Manzini descrive l’Italia di questi tempi, il paese in crisi, logoro, marcio, corrotto dall’Alpe alle piramidi e da Roma alla valle d’Aosta, e che però si salva con i suoi figli migliori, i Rocco Schiavone che, pur fuori di ogni regola, riportano le cose sui binari di una accettabile moralità.
Ed ecco Schiavone arrancare tra le nevi di Aosta, ostinatamente legato alle sue amatissime Clarcks che si ostina a indossare anche se si tramutano in breve in due sacchi fradici d’acqua e di neve, il camoscio non è propriamente adatto al clima né impermeabile alla neve e all’acqua.
In “La costola di Adamo”, tra uno scazzo e l’altro con i superiori, tra un evitare grane con i colleghi e gestire il commissariato, sistemando gli agenti più inetti perché non facciano danno, Schiavone indaga su un presunto suicidio, poi rivelatosi come un omicidio a seguito di rapina.
Schiavone ha una fissa, paragona i suoi interlocutori ad animali a loro somiglianti, nelle fattezze fisiche e nei tratti caratteriali. Egli stesso si paragona a un segugio, giacché indaga e fiuta le piste; in realtà è più un plantigrado, ha l’indolenza, la pigrizia e l’incedere di un orso che, se provocato, si trasforma però in un feroce grizzly. O anche un elefante, di cui ha la delicatezza nella cristalleria, quanto si tratta di rapporti interpersonali, ma anche la prodigiosa memoria del pachiderma, che gli consente di svelare gli intrighi su cui indaga.
E l’intrigo questa volta riguarda l’altra metà del cielo, riguarda una donna, riguarda le donne che tanti, per esempio il violentatore di minorenni di cui dicevamo più sopra, ancora si ostinano a considerare un’appendice dell’uomo, come si dice, la donna fu creata da una costola di Adamo.
Tanti la pensano ancora così, tanti anche insospettabili, troppi pensa Schiavone.
Rocco Schiavone allora rimette le cose a posto, nel giusto ordine: con crudezza, con cinismo, con realismo. E con giustizia.
Dopotutto, è un poliziotto. Non un commissario, un vicequestore; i commissari non esistono più.