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Le anime mute della Vicarìa
La ruota degli esposti di Piazzetta dell'Annunziata, a Napoli. Il posto dove “vengono alla luce” (anche se è notte... specie se è notte) i neonati illegittimi. I figli di nessuno.
Da lì è “partito” Antimo. Ed è ritornato nessuno, ora che le sue “quattro ossa gracili con poca carne malnutrita attorno” giacciono nella cassa. Il biglietto che vi è provvisoriamente attaccato riporta la dicitura “Vegliardo ricoverato al Serraglio”. Ma quella mano venuta fuori dalla bara – nel corso dei precari movimenti dei becchini del Camposantiello – dice d'improvviso un'altra cosa.
D'ordine della legge, il lenzuolo viene scoperto: un bambino che non è più tale, un nudo corpicino da seppellire dentro una bara destinata ad altri (o no?), e con la gola coperta da una fasciatura eseguita con estrema perizia. E' lo stesso tutore della legge a suggellare: “Bello 'sto fatto? E' partito vecchio e se n'è arrivato creaturo?”
Responsabile di quella fasciatura è il dottor De Consoli: il medico che esegue con scrupolo e senza troppe domande le sue incombenze al “Serraglio”, purché gli sia consentito di adescare qualcuno dei giovani orfani che vi abitano (e lì “carne fresca” se ne trova eccome!).
Responsabile del buco sotto il bendaggio è Giovanni Florino: l'implacabile comandante del “Serraglio” che ivi dispensa giustizia e ordine (entrambi in modo sbrigativo), ancor più incattivito dal suo sangue malato, una corsia spianata verso l'aldilà.
Responsabile della risoluzione di quella brutta faccenda è Gioacchino Fiorilli, il commissario nominato alla Vicarìa, quartiere centrale e malfamato: un uomo razionale ma determinato, incapace di passare sopra all'uccisione di un bambino di dieci anni, quand'anche sia un “serragliuolo” come Antimo era.
Vladimiro Bottone costruisce una storia cruda, dura (come accade quasi sempre quando si racconta della miseria), condita di speranze pidocchiose e malasorte. In tale cornice, la figura del commissario Fiorilli si erge per dirittura morale e pietà umana; ma forze e correnti avverse, nella Napoli del 1841, sono troppe per qualunque uomo solo.
Il vocabolario del volume è contornato di espressioni napoletane (non così tante da mettere in difficoltà il lettore a cui tale dialetto non è familiare, ma alcune sottigliezze linguistiche andranno per costui senz'altro perse). Lo stile vi si adegua, nel suo essere di livello ma sincopato (permeato da una ricercatezza che, visto il tema, appare in certi punti eccessiva).
Il vero capolavoro di questo libro, tuttavia, risiede nella sua principale ambientazione: il mastodontico “Albergo dei poveri”. Il nome ne fa intuire tutte le intenzioni caritatevoli a beneficio di orfani, di malati e mutilati, di esseri sfortunati o miserabili. Ma restano appunto intenzioni, se si pensa che l'edificio è conosciuto dai napoletani come “il Reclusorio” o “il Serraglio”: una di quelle strutture inventate per garantire l'isolamento tra un “dentro” e un “fuori” quando non le si vuole far credere prigioni (ciò che in realtà sono).
Un altro punto a favore del romanzo è nello spessore dei personaggi: oltre a quelli già menzionati, restano impressi Emma Darshwood – l'insegnante di musica dell'Albergo, un lampo di misericordia nel buio della generale strafottenza per ogni sentimento di umanità – Antonio Pennariello – l' “altra metà” del commissario Fiorilli, destinato a bilanciarne il rigore con la praticità di chi si è fatto uomo in strada – e Federico Dominianni – l'alto funzionario che assicura al commissario il massimo appoggio, come se attraverso di lui la città abbia deciso improvvisamente di smentire la noncuranza per le sorti dei suoi figli più deboli. Personaggio si manifesta la stessa Napoli: caritatevole quanto impotente, adagiata sulla sua povertà, acclamatrice di una Fortuna che si fa divinità benefattrice nei numeri delle estrazioni del lotto, pullulante di zone come la Vicarìa...
In tutto ciò, l'unico vero neo del romanzo diventano i due ultimi capitoli, che introducono dal nulla un nuovo personaggio, e tuttavia non paiono aggiungere alcunché ad una storia già completa.
Una doverosa aggiunta storica: l' “Albergo dei Poveri” esiste davvero, e a Napoli ancora domina incontrastato l'intera area di piazza “Carlo III” (il sovrano spagnolo che lo fece costruire). L'essere una delle più grandi costruzioni del '700 europeo, e l'aver smesso (fortunatamente) di garantire le “funzioni” raccontate nel libro, lo fa sembrare un gigantesco dinosauro imbalsamato... che tuttavia, con la sua spettacolare maestosità, riesce ancora ad incutere timore.
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Commenti
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Bravo
Saluti
Riccardo
P.s. Errore perdonato :-D
Ciao,
b
Per Cristina e Bruno:
immaginavo che i paragoni con Hugo, Verga e Dostoevskij avrebbero fatto storcere il naso - seppure con eleganza :) - ai puristi. In realtà - fermo restando che Bottone merita, a mio parere, attenzione - il paragone è con una certa descrizione della vita del popolino (bassa criminalità e prostituzione comprese), che tutti i libri citati in qualche modo contengono. La scena dell'estrazione del lotto di Vicarìa, ad esempio, mi ha molto ricordato la festa di popolo per la rappresentazione pubblica fatta da Gringoire in "Notre-Dame de Paris" (sebbene Hugo vi dedichi molte più pagine). Ma anche "White Chapel" trova qualche eco in questo libro di Bottone. Sotto questo aspetto, vi invito a leggerlo, sicuro che vi troverete simili assonanze.
Per Annamaria: si, dà veramente una sensazione assurda :) Sotto certi aspetti sembra una costruzione surreale.
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