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Sette bastardi per un commissariato
Ricordate il film di Robert Aldrich “Quella sporca dozzina”? Alla vigilia dello sbarco in Normandia dodici galeotti dell’esercito americano sono scelti e addestrati per compiere una pericolosa missione in territorio nemico. Se questa riuscirà, torneranno liberi.
Non è improbabile che Maurizio de Giovanni avesse in mente questa pellicola quando ha scritto I bastardi di Pizzofalcone, il secondo libro con protagonista l’ispettore Lojacono. Certo qui non siamo in guerra, ma quasi, vista la delinquenza imperante. E poi non sono dodici i bastardi, ma sette, tutti poliziotti che, per un motivo o per l’altro, non sono graditi nei commissariati di Napoli e che perciò vengono inviati a presidiare quello di Pizzofalcone, decimato per una questione di una partita di droga sequestrata e poi rivenduta da alcuni agenti. Se riusciranno nell’impresa di essere efficienti, il Commissariato non verrà soppresso.
Ecco queste sono le analogie fra il film e il libro, mentre il resto, ovviamente, è del tutto diverso.
Si nota in particolare il tentativo di de Giovanni di dare vita a una serie di personaggi fissi che siano in grado di attirare l’attenzione del lettore per diversi episodi, così come ha già fatto per i romanzi con protagonista principale il commissario Ricciardi.
Tuttavia, a mio parere, la necessità di narrare dell’epoca presente, fatta di magari inutile dinamicità, e di conquistare subito il pubblico, ha impedito di delineare le caratteristiche progressivamente, evidenziandole invece negli intermezzi che, in questo romanzo, sono francamente un po’ troppi, tolgono il ritmo e finiscono con l’affaticare.
Del resto anche per la figura di Giuseppe Lojacono si insiste un po’ troppo sulle sue caratteristiche somatiche, che lo fanno assomigliare – e questo è ben poco probabile – a un cinese, così come il personaggio del procuratore Laura Piras, bellissima donna, è più definito per le caratteristiche estetiche che per la sua intima natura.
De Giovanni, quindi, in un’epoca in cui ciò che conta è l’apparenza, si è adeguato, ma il risultato letterario ne risente.
Se poi si considera il difetto, mutuato probabilmente dalla serie televisiva La nuova squadra, di narrare di due diverse indagini, togliendo continuità in tal modo a una blanda tensione iniziale, è facile comprendere come l’opera finisca col mancare, non solo di caratteristiche di originalità, ma del pathos che è proprio dei thriller.
Del resto la fragilità della trama gialla è sempre stata una caratteristica dell’autore napoletano e qui, inoltre, per quanto concerne la soluzione dell’omicidio, presenta anche poca credibilità.
Insomma, ci sarebbe il caso di dire che l’autore dei romanzi con Ricciardi e di quelli con Lojacono non sono la stessa persona: nel primo caso si segue anche un fine letterario, nel secondo invece l’obiettivo è puramente commerciale, con una sensazione di deja vu che, per un appassionato di gialli come me, stona non poco.
Da leggere, comunque, anche se il successo di vendite non ne testimonia la qualità, bensì é il frutto della notorietà dell’autore ottenuta grazie alla riuscitissima serie con protagonista il commissario Ricciardi.
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