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Credersi Dio
Credersi Dio
Nella concezione monoteistica ebraico-cattolica – ammesso che si possa stabilire una gerarchia nella gravità dei peccati – da sempre il peccato di superbia, ritenersi Dio, è considerato il peggiore: nella cosmogonia dantesca costituisce l’insubordinazione di Lucifero che viene precipitato all’inferno, nella Genesi rappresenta il peccato originale e la causa della cacciata dell’uomo dall’Eden, nel decalogo delle tavole “Non avrai altro Dio all’infuori di me” è il primissimo dei comandamenti.
Anche pensando a questa tradizione, il titolo del romanzo di Faletti, se non blasfemo, è almeno da brivido. L’eresia pervade un romanzo ove il lettore ha la chiara percezione che qualcosa di tremendo stia accadendo in una New York devastata dalle esplosioni.
Mentre il killer recita la sua vaneggiante litania: “Io sono Dio”, proclama nel confessionale l’assassino stragista dinnanzi a uno sbalordito sacerdote.
Il “terribile reale” si concretizza negli attentati catastrofici che evocano sinistramente la tragedia delle torri gemelle.
Il “terribile reale” affonda le sue radici nella storia di un uomo sopravvissuto alla guerra del Vietnam (“L'argomento era sempre e ancora la guerra, che tutti volevano nascondere come sporcizia immobile sotto il tappeto e che strisciando da serpente riusciva sempre a sporgere la testa oltre i bordi”), ma orribilmente sfigurato dalle ustioni causate dal napalm (“Di solito la gente abbinava alla deturpazione fisica una propensione alla malvagità direttamente proporzionale. Senza riflettere che il male per nutrirsi deve essere seducente, accattivante. Deve attirare a sé il mondo che ha intorno con la promessa della bellezza e la premessa del sorriso. E lui ora si sentiva come l'ultima figurina mancante per completare l'album dei mostri”). Tornato in patria, il reduce si dedica all'edilizia e medita la sua vendetta contro il mondo, piazzando cariche esplosive negli edifici che costruisce e collegando le cariche per farle esplodere a suo piacimento. Quando il reduce muore, qualcuno si sostituisce a lui per proseguire l’insana vendetta.
Si occupano del caso l'investigatrice Vivien Light del 13º distretto di Manhattan e un reporter dal passato discutibile, Russel Wade.
Ancora una volta – e secondo me, in quest’opera, ai livelli della prima, “Io uccido” – Faletti combina la devastazione psicologica ("Io non esisto più. Sono un fantasma") a quella fisica, il peso del passato (“Il tempo è un naufragio e solo quello che vale davvero torna a galla... Il suo si era rivelato solo un beffardo appiglio a una zattera, un faticoso approdo alla realtà dopo essere colato a picco nella sua piccola privata utopia”) alla deriva del presente, il senso del pericolo incombente (“Accanto alla strada correvano i fili della luce e del telefono. Portavano energia e parole sopra la sua testa. C'erano case e persone come marionette nel loro teatrino che quei fili aiutavano a muoversi e illudersi di vivere”) all’esplosione dell’odio (“L'odio non è più un sentimento. Ormai sta diventando un virus. Quando arriva a infettare l'animo, la mente si perde. E le difese delle persone sono sempre più deboli”).
Questa volta, il tutto è arricchito da una sfida sacrilega, che combina sacro e profano in un senso religioso oltraggiato e bestemmiato (“Il perdono è per chi si pente. Il perdono è per chi cerca di riparare al male che ha fatto”), in una visione pessimistica nella quale il passato è penalizzante (“Andare a caccia di ricordi non è mai un bell'affare... Quelli belli non li puoi più catturare e quelli brutti non li puoi uccidere”), il presente belligerante (“L'uomo guerriero in tempo di pace combatte sé stesso”), il futuro compromesso (“Le certezze non sono di questo mondo. E quelle poche sono quasi sempre negative”).
Il finale, che a molti non è piaciuto, io l’ho trovato istrionico, granguignolesco. Sarà il passato del Faletti cabarettista che torna in una pantomima questa volta letteraria?
Bruno Elpis
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Commenti
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Ordina
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Ora ? APPUNTI DI UN VENDITORE DI DONNE ?
Cristina, anche a me piace...
CUB, mi manca!
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