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Presunzione di colpevolezza
In tutti gli ordinamenti giuridici moderni vale il principio della presunzione d’innocenza e quindi nel processo penale l’onere della prova della colpevolezza dell’imputato ricade sulla Pubblica Accusa che, sulla scorta solo di prove certe, imposta il suo iter, la sua azione in aula. Quindi non sussiste mai la presunzione di colpevolezza, come anche espressamente evidenziato dal secondo comma dell’art. 27 della nostra Costituzione, che così recita: L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Stupisce quindi quanto accaduto nel lontano 1954 a Salvatore Gallo e a suo figlio Sebastiano, imputati di avere assassinato Paolo Gallo, rispettivamente fratello e zio, e di averne occultato il cadavere. Vero é che era notorio un permanente stato di litigiosità e pure vero é che spesso Paolo veniva aggredito e malmenato da Salvatore, ma da lì a imbastire un processo senza uno straccio di prova, sulla base solo dei precedenti pessimi rapporti, è senz’altro azzardato, anche perché per poter parlare di omicidio necessitava la presenza di un cadavere, che appunto non c’era. E che l’abbaglio venisse dalla Pubblica Accusa ci può anche stare, ma che poi si riconfermasse nel collegio giudicante in tutti e tre i gradi processuali è veramente inconcepibile. E tanta era la sicurezza, viziata dalla presunzione di colpevolezza, che si arrivò addirittura ad accusare di falsa testimonianza chi aveva visto, vivo e vegeto, il cadavere. Fu solo grazie alla tenacia di un avvocato e di un giornalista se finalmente, anche se in notevole riardo, fu fatta giustizia, con la liberazione dal carcere di Ventotene, dove scontava l’ergastolo, di un Salvatore Gallo ormai ridotto a un relitto umano. Tutto bene, quindi? No, perché lo stato è un Moloch mostruoso e si piega di fronte all’evidenza dei fatti, ma non si spezza e si prende la sua rivincita. Non aggiungo altro della trama, che ripercorre puntualmente un fatto realmente accaduto e che non solo in Italia ebbe vasta risonanza.
Il merito di Paolo Di Stefano è stato di riproporcelo, fedele alle carte processuali, ma anche con la capacità di trasmettere al lettore il pathos di una vicenda che si snoda in una Sicilia arcaica, fra povera gente, ricca solo di miseria, e per lo più anche ignorante. Il dramma dell’individuo ingiustamente condannato viene delineato non per sollecitare la commozione del lettore, ma per dimostrare come i preconcetti siano sempre frutto di una illogicità che nasconde un’altra ignoranza, quella di chi crede di sapere perché può giudicare, un enorme potere che in mani sbagliate sancisce, inequivocabilmente, il trionfo dell’ingiustizia.
Giallo d’Avola è un legal thriller per nulla simile ai tanti, per lo più di autori americani, che ogni tanto tornano ad affollare le librerie; qui si rievoca e si fa tornare in vita un’epoca che molti non conoscono o hanno dimenticato, in un’Italia che allora cominciava a beneficiare del boom economico, che tuttavia appariva così lontano dai terreni aridi e sassosi in cui contadini analfabeti si rompevano la schiena solo per sopravvivere, senza speranza, un mondo statico e spesso feroce, teatro di delitti anche familiari e in cui è potuto perfino accadere il dramma psicologico del “morto-vivo” di Avola.
Paolo Di Stefano sa scrivere bene, sa coinvolgere il lettore con attenta gradualità e il suo “Giallo d’Avola” è uno di quei romanzi che non si scordano facilmente.
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