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Più rosa che giallo
Amo Scerbanenco. I suoi personaggi sono sempre così reali che nel chiudere il libro vien voglia di salutare, come fossero amici da incontrare nuovamente al più presto.
Non è un giallo, questo, o forse lo è ma solo a margine; forse è solo una storia d’amore che si svolge in un’Italia che sembra quella di un film in bianco e nero con Sordi o con il primo Manfredi.
È il racconto ricco di sentimenti e di sofferenze, un racconto in cui la capacità di immedesimazione di chi legge è parte integrante della storia.
In fondo una storia semplice, quella di una ragazzina sfortunata che, senza colpa, viene condannata a qualche anno di riformatorio e non riesce ad uniformarsi alle regole di violenza psicologica imposta ai “corrigendi”, fino al punto di cacciarsi in guai sempre più grossi.
Intanto disperatamente pensa al ragazzo che ama che, credendola colpevole, non muove un dito per aiutarla.
Insomma una storia d’amore, ma strana, obliqua, anche un po’ datata.
Come sempre con i classici (ormai Scerbanenco è un classico, o no?) bisogna calarsi in un altro tempo ed accettare che per andare da Milano a Roma ci vogliano otto ore di viaggio o che per telefonare a qualcuno in teleselezione (vi ricordate la teleselezione?) sia necessario recarsi presso strutture ad hoc costituite.
Insomma una piccola immersione negli usi e costumi della metà del secolo scorso, ma anche un viaggio su una prosa scorrevole e godibile che non stanca mai.
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“Ma lei ha dimenticato una cosa molto importante: che tutti soffriamo, non solo lei. E poi ne ha dimenticata un’altra: che la natura ha provveduto un potente rimedio quando si soffre: il pianto. Pianga, pianga tutte le volte che può, in qualunque luogo si trovi, di fronte a chiunque.. il pianto è la più grande medicina che conosciamo, contro il dolore. Se lei si irrigidisce, se lei si chiude nel mutismo, il dolore si gonfia dentro di lei, s’indurisce come pietra, diventa disperazione.”
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Commenti
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Bello :o)
Proprio così ragazzi, è l'effetto che mi fa ogni volta Scerbanenco!
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