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Blackout - Il commento di Bruno Elpis
Un “blackout” fulmina la corsa di un ascensore, che rimane bloccato tra il decimo e l’undicesimo piano di una torre nella squallida periferia di Bologna: “un mostro bianco di venti piani dalle linee curiosamente arrotondate. Che sorge di fronte a un identico mostro bianco arrotondato …”
In questa cabina, ove ben presto manca l’aria, anche per via del caldo torrido ferragostano che ha spopolato la città, sono costretti a misurarsi – gomito a gomito e loro malgrado – tre personaggi profondamente diversi.
Aldo Ferro, professione dichiarata: gestore di tre locali “à la page”; vizio privato: confeziona “snuff movie” sacrificando vittime umane con protocolli atroci e sadici. Nel condominio ha un appartamento segreto ove conserva l’archivio delle sue scelleratezze e ‘i ferri del mestiere’. Deve prelevare da questo ‘laboratorio’ di orrori alcuni strumenti che gli consentiranno di concludere un delitto in corso.
Tomas, sedicenne, sta per attuare una fuga verso le capitali europee con la sua ragazza, Francesca: entrambi vogliono fuggire dalle soffocanti famiglie, che non comprendono i loro drammi adolescenziali ed esistenziali (“Parlavano spesso dell’incubo nevrotico che era la famiglia di Francesca, delle dorate sabbie mobili che erano i genitori di Tomas”). Tomas, nell’occasione, è tornato a prelevare il bagaglio, per unirsi nella stazione di Parma alla sua complice fuggiasca.
Claudia, dietro a un aspetto apparentemente trasgressivo, ha una personalità determinata e misantropica. Sta tornando dal bar, ove lavora e che mal sopporta. Ha una relazione con un’altra ragazza, Bea, che è in trasferta in Marocco per girare un film.
Gianluca Morozzi utilizza una tecnica narrativa sperimentale, ricca di riferimenti alla musica (Ferro è un sosia di Elvis, che idolatra: “gli enormi basettoni che gli coprono mezza faccia, gli stivali di serpente, la camicia con gli intarsi country”; Tomas è un fan di Bruce Springsteen), per raccontare tre storie che si intersecano per uno scherzo del caso (“e tre persone razionali, di colpo, diventano nient’altro che vespe in un bicchiere rovesciato”), determinando un’esplosione di insofferenze e violenze in un crescendo inarrestabile.
La claustrofobia è rappresentata in modo da soffocare il lettore, rendendolo interprete di una paura tentacolare e ramificata, che si scompone nei molti elementi costitutivi: “La paura degli spazi chiusi. La paura degli sconosciuti. La paura di non respirare. E poi, in conclusione, l’ultima paura. Il buio.”
Una fobia che, nella parte finale, si trasforma in modo grottesco e viene proiettata sullo schermo mediatico delle paure e dei deliri collettivi. Demistificando e irridendo i fenomeni di massa che imbrigliano la nostra vita relegandola a una dimensione esteriore, ai limiti della rappresentazione circense. Quella alla quale ha assistito con sgomento …
… Bruno Elpis