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"Per mano mia" di Maurizio De Giovanni - Commento
“Per mano mia” è l’espressione che riecheggia nelle pagine del romanzo di Maurizio De Giovanni, ambientato in epoca fascista, in bocca a diversi personaggi.
Questa frase, la pronuncia il pescatore Boccia Aristide, vittima dei soprusi dell’assassinato. E la recita Lomunno, graduato della milizia portuale, ingiustamente destituito. La ripete il brigadiere Raffaele Maione, collaboratore del commissario Ricciardi e padre di un ragazzo ucciso da un delinquente, contro il quale il brigadiere cova un sentimento di vendetta, nutrendo un insano desiderio di giustizia sommaria.
Ma procediamo con ordine.
Nella settimana che precede il Natale, nel loro bell’appartamento a Mergellina, vengono ritrovati – orribilmente assassinati - un funzionario della milizia portuaria, Emanuele Garofalo, ucciso con efferatezza da decine di coltellate, e sua moglie Costanza, sgozzata. I due coniugi lasciano una bambina, che viene temporaneamente affidata alla zia: Suor Veronica delle Riparatrici del Dolore della Beata Vergine.
L’omicidio sembra compiuto da due persone: l’esame autoptico delle vittime suggerisce che le ferite siano state inferte da un individuo più forte e da un secondo colpevole più debole, verosimilmente un uomo e una donna, una persona mancina e una destra.
Il delitto inizialmente ha tutta l’aria di essere “un atto contro la divisa, questa divisa, e contro lo stesso regime che essa rappresenta.”
Nel corso delle indagini emerge l’ambiguità della figura di Garofalo: “si occupava del controllo della pesca al minuto sul litorale cittadino, un’area che va dal porto all’isola di Nisida” ed era “un carrierista senza scrupoli che non aveva esitato a rovinare la vita di un superiore per prenderne il posto … in un’epoca di delazioni premiate …” Si fa dunque largo l’ipotesi del delitto consumato per vendetta da una delle vittime degli abusi e delle prepotenze del milite.
Il commissario Ricciardi, per risolvere il caso, si concentra sulla simbologia insita nella scena del delitto: da un lato l’omicidio evoca la morte di San Sebastiano, santo patrono della milizia volontaria nazionale. San Sebastiano era “il capo delle guardie di Diocleziano, un imperatore romano terribile persecutore dei cristiani. Si convertì, e quando l’imperatore lo scoprì, lo fece legare a un palo e trafiggere da un plotone di arcieri.” Su un altro versante, l’attenzione delle indagini si concentra sul particolare della statua del presepe ritrovata in frantumi in prossimità dei cadaveri: quel San Giuseppe che sembra rimandare a “tutto l’amore e tutta la sofferenza che si porta un padre addosso.”
Se questo è l’appassionante intreccio della vicenda, veniamo agli aspetti narrativi che hanno catturato il mio interesse.
In primo luogo le descrizioni del Natale, che pervadono l’intera storia. Napoli viene affrescata come un presepe reale e costituisce la dimensione vitale delle rappresentazioni che, nella città partenopea forse meglio che in ogni altra città italiana, sono parte integrante di una tradizione radicata. La scena è ricca di personaggi del popolo, innanzitutto i pescatori. O gli zampognari: “cappelli a punta, giacche di pecora, stivali con legacci incrociati lungo le gambe. Il ragazzo teneva in braccio la zampogna, un sacco di pelle dal quale spuntavano tre canne di diversa lunghezza, mentre l’uomo aveva riposto a terra la sua ciaramella, una specie di doppia tromba.” Oltre a tutti gli altri protagonisti che si affollano nell’atmosfera magica della festa: “mendicanti, riffaiuoli, rigattieri, acquaioli, lustrascarpe …”
“Così … era tutta la città … migliaia di piccole finestre illuminate, apparentemente uguali tra loro e invece ognuna con una sua storia, una sua famiglia, un suo dramma.”
Su questo sfondo si staglia la figura del commissario Ricciardi, della squadra mobile della questura di Napoli, “ingovernabile, indipendente, indisciplinato”, “non … interessato alla carriera”, “dagli occhi verdi, così disperati”. Il commissario “che porta male”. Perché possiede il dono soprannaturale della premonizione: “Il fatto, come Ricciardi chiamava la sua condanna a percepire l’ultimo dolore, non aiutava quasi mai a scoprire come era avvenuta la morte.” In questo caso, la premonizione si manifesta in due frasi: “Cappello e guanti?” ripete il fantasma di Costanza nella mente del fascinoso inquirente. “Io non devo niente, proprio niente”, ribadisce lo spettro di Emanuele Garofalo alla sensibilità visionaria del tormentato commissario. “Io vedo i morti. A ogni angolo di strada, a ogni finestra, io vedo i morti …” Davvero una condanna, ma – al tempo stesso – una caratteristica che eleva Ricciardi al di sopra del sentire comune.
E morti e presepi, sullo spettacolo di una Napoli viva e umana, è sembrato di vederli anche a …
… Bruno Elpis