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Un noir senza speranza
Leggendo qua e là trovo qualcuno che paragona la scrittura di Carlotto a quella di Scerbanenco. È una provocazione! Devo leggerlo.
Allora fra tutti i libri disponibili scelgo questo, perché scopro che è il primo in cui appare un personaggio che Carlotto farà vivere in occasioni successive e, mi dico, se mi dovesse piacere meglio cominciare dall’inizio.
Non sono un’amante del genere “noir”, preferisco semmai il “poliziesco” che consente di seguire la logica investigativa, non tanto per lasciarmi consolare dal pensiero che il bene trionfa, quanto perché mi consente di partecipare razionalmente all’azione ed allo svolgersi degli eventi.
Questo è invece il tipo di racconto in cui la mia partecipazione è pari a zero: non c’è una storia su cui investigare, i personaggi sono tutti negativi, marci, corrotti. Non ce n’è uno che s’accenda di un lampo di umanità. Non si cerca il “cattivo” perché lo sono tutti.
Preso atto del passato di Carlotto, si potrebbe forse leggerlo come un libro denuncia della corruzione e del malaffare a tutti i livelli in cui affonda il nostro paese, ma non credo fosse l’intenzione dell’autore che non affronta con decisione l’argomento da questo punto di vista.
È, alla fine, la cronaca di una vita mal spesa, che si giustifica moralmente mediante l’accostamento ad altre vite ugualmente marce.
Persino Roberta, l’unico personaggio che potrebbe riscattare con la sua “innocenza” una lunga processione di personalità malate ha tratti di “rigidità” e grettezza che finiscono con l’uniformarla a tutti gli altri.
Carlotto ha una buona penna, per gli amanti del genere potrebbe diventare (è diventato?) una nuova realtà interessante.
Personalmente amo una prosa che scavi in profondità piuttosto di una che scivoli liscia sulla superficie degli eventi.
Per concludere da dove ho iniziato: Scerbanenco è stato un grande autore di polizieschi e di romanzi, capace di calarsi con maestria nella psicologia dei personaggi fino a renderli reali, interessanti per se stessi oltre che per il loro ruolo nella vicenda, mentre quelle che ho visto muoversi in “Arrivederci amore, ciao” mi sembrano più figure piane, ad una sola dimensione, che scorrono, ben lubrificate, verso un finale prevedibile.
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Mi si leggeva in faccia che ero un marginale. Cercai lavoro ma mi resi conto che entrare in quell’ottica mi avrebbe fottuto per l’eternità. Sarei rimasto un miserabile. Nei miei piani per il futuro c’era ben altro che osservare la realtà dal retro di un fast food con i capelli puzzolenti di grasso. Soldi. Avevo bisogno di soldi per rialzarmi dal letamaio in cui ero finito.
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La sua domanda però mi fece riflettere. Aveva ragione, ero uno schifoso, o meglio una carogna, come aveva detto il prete. Non provavo vergogna per questo. Ne ero cosciente, ma in realtà esercitare potere su donne deboli mi aiutava a campare. A stare meglio. A sopravvivere.
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