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Laia, Elias, Helene: il confronto finale
Laia di Serra e Helene Aquilla (l’Averla Sanguinaria) fuggite da Antium con l’imperatore neonato, si trovano inaspettatamente alleate contro Keris Veturia, la Comandante. Questa, dopo aver tradito la sua gente e favorito la caduta della capitale, ora s’è autoproclamata Imperator Invictus e sta imperversando nei territori Tribali seminando un uragano di morte e distruzione in combutta con il Signore della Notte che vuole vendetta sui Dotti e su tutti gli umani che hanno imprigionato il suo popolo per mille anni.
Elias Veturius, ormai. s’è immedesimato nel suo ruolo di Traghettatore di Anime, ha dimenticato la sua vita precedente, l’amore per Laia, l’amicizia per Helene. Però qualcosa lo richiama alle armi. Nel Luogo dell’Attesa, dove dovrebbero affluire i fantasmi delle persone decedute, non giunge quasi più nessuno, nonostante che le stragi continue creino un flusso ininterrotto di morti. Sembra che il Signore della Notte rapisca le anime dei defunti per qualche losco suo fine. Inoltre l’Augure Caino gli ha fatto un’ultima profezia: «Non è mai stato uno. Sono sempre stati tre. L’Averla Sanguinaria è stata la prima. Laia di Serra, la seconda. E il Traghettatore di Anime il terzo e ultimo. La Madre veglia su tutti quanti. Se uno fallisce, tutti falliscono. Se uno muore, tutti muoiono. Tornate al principio e lì troverete la verità. Combattete fino alla morte, altrimenti tutto è perduto». Qual è il significato di quelle arcane, tenebrose parole? Soprattutto, c’è rimasta ancora qualche speranza che il loro mondo sopravviva o tutto dovrà essere travolto dalla follia omicida di Keris e dalla furia devastatrice che sta per essere liberata dal Signore dei ginn?
Questo è il quarto e ultimo romanzo della serie iniziata con “Il dominio del fuoco”. La plumbea cappa d’angoscia e morte continua a gravare su tutti i personaggi e su tutti gli scenari, senza un attimo di tregua, senza che un momento di quiete scenda a rasserenare gli animi, anzi, se possibile, i lutti si aggravano e vengono falciati anche personaggi a cui si era ormai affezionati. Le vicende ci trascinano sino all’acme finale che chiuderà la tragedia con un olocausto globale. Anche nelle rare scene in cui i personaggi si lasciano trasportare dall’amore per le persone care, non c’è gioia, non c’è sollievo dello spirito. Al contrario tutto si svolge nella più cupa disperazione di chi si aggrappa a quei momenti di intimità solo per cercare di sfuggire all’orrore che lo circonda, come naufraghi che avvinghiano una rara tavola sapendo che non li terrà a galla, ma affonderà con loro.
Anni fa lessi un ciclo simile nel quale l’A., al posto della classica dedica iniziale, aveva scritto una breve frase nella quale chiedeva perdono ai suoi personaggi per le sofferenze a cui erano stati sottoposti nel tentativo di dilettare i lettori. La Tahir, nella fattispecie, non potrebbe cavarsela con poche parole di scusa: in questo ciclo, ha infierito con ben maggior pervicacia, sadismo e crudeltà sui protagonisti della sua storia. Purtroppo questo accanimento, certamente finalizzato a raggiungere lo scopo finale della narrazione, non accresce la piacevolezza della lettura, ma sicuramente ne aumenta la tetraggine.
Proprio per questi motivi, pur ritenendo pregevole il lavoro dell’A., continuo a non trovare particolarmente gradevole il suo ciclo. A ciò si aggiunga che la crudeltà immaginata nella finzione letteraria è sin troppo verisimile e, invece di distrarre e svagare, richiama alla mente cupi scenari tristemente familiari alla cronaca, soprattutto a quella di questi giorni.
Indubbiamente la storia è ben scritta, il mondo ben progettato, gli attori di questa tragedia ben caratterizzati e delineati in tutte le loro poliedriche sfaccettature. Ma questo oceano di dolore che ammanta chi legge rischia di divenire intollerabile e, quindi, di stancare, addirittura annoiare, ammesso che sia possibile provare tedio per il rinnovarsi del male sempre uguale a sé stesso. Come ho già avuto modo di osservare in precedenza, non si può esercitare troppa tensione e troppo a lungo su una corda: prima o poi si spezzerà. Anche l’epilogo, che, per ovvie ragioni non anticipo, non porta a una vera catarsi, semmai solo a un cataplasma che tenta di alleviare le piaghe prodotte in precedenza. Neppure la soluzione finale adottata, per uscire dalla spirale d’odio e violenza che s’è avvitata su sé stessa, ha incontrato totalmente il mio gusto: l’ho trovata troppo piena di involuti contorcimenti cerebrali e, contestualmente, passionale in modo devastante.
Tuttavia, nonostante queste caratteristiche che io trovo decisamente negative, non posso negare che si tratti di una lettura interessante che ci mostra l’altra faccia del fantasy, dove, nonostante la presenza pervasiva dell’aspetto magico e fantastico, ciò che risulta predominante è l’analisi e l’esternazione dell’animo umano, in tutte le sue espressioni e pulsioni. Dove, inoltre, non c’è una cesura netta e manichea tra il suo lato buono e quello oscuro. Dove non ci sono eroi totalmente positivi, né mostri incarnazione del male fine a sé stesso. Ognuno può portare a giustificazione dei propri atti, per quanto efferati essi siano, ragioni altrettanto valide, per essere stato, a propria volta, oggetto di torti indicibili. Anche coloro per i quali dovremmo tifare, gli eroi positivi, hanno più di una macchia a offuscarne il fulgore della loro attuale virtù. Insomma, abbiamo un mondo che è un’eccellente specchio (anche se deformante) della nostra realtà.
La storia, poi, è intrisa di un profondo spiritualismo e animismo tipicamente orientale, con l’utilizzo di tutta la mitologia islamica fatta di ginn, ifrit e creature soprannaturali, dove la sapienza viene tramandata per via orale dalle storie morali delle kehanni, dalla spirituale pietà dei fakir, dalla saggezza degli zaldar e nell’incarnarsi nella natura stessa di spiriti immortali quintessenza dei sentimenti stessi. Insomma un mondo davvero interessante e affascinante, anche nella sua cieca brutalità, dove pure la magia e il soprannaturale non sono fini a sé stessi, ma costituiscono la struttura portante attorno alla quale sono intessute e giustificate le vicende: quintessenza stessa di quel mondo senza la quale esso sarebbe inconcepibile.
Molto interessante, infine, il messaggio finale e la morale del libro, magari difficili da digerire così come presentati, ma sicuramente veri, non solo per Elias, Lara e Helene, ma, soprattutto, per noi: qualunque sia stato il torto che si è subito, solo nella vera clemenza e nel perdono può essere trovata la soluzione per gli umani conflitti, l’unica via per impedire il perpetuarsi in eterno dell’orrore e dell’odio.
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Mi concedo un rilievo per l’angolo del pignolo: non sempre l’A. mostra una ferrea coerenza nella sua storia, lasciandosi trasportare dagli eventi che narra. Ad esempio com’è possibile che il barbaro Grimarr afferri la gamba di Helene “tra le mani” (al plurale!), quando gli è stato amputato il braccio sinistro? In questo modo si rischia la comicità involontaria, quando il contesto è di ben altra natura.
Indicazioni utili
Chi ama il fantasy potrà apprezzarlo sia per l'inventiva delle situazioni che per l'abilità con cui viene costruito questo mondo. Sicuramente non è una lettura distensiva, ma ha un valore letterario non disprezzabile.