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Gli intrighi alla corte di Faruk
Ofelia, finalmente, è stata presentata alla corte dell’Arca del Polo per ciò che è: la fidanzata dell’intendente, il freddo e determinato Thorn del clan dei Draghi. L’aver smesso i panni del domestico Mime, però, l’ha ancor più esposta agli agguati e alle minacce della selva di cortigiani maliziosi e feroci che si accalcano, servili, attorno allo spirito di famiglia, il Sire Faruk. L’entourage dell’immortale è composto principalmente dal clan dei Miraggi, i creatori delle illusioni che tutto ammantano a Città-cielo, la reggia. Ciò nondimeno le loro minacce sono estremamente reali, quando non mortali. Però, adesso, dopo la strage che ha sterminato il clan dei Draghi, comincino a scomparire pure i Miraggi, uno dopo l’altro.
Ofelia, intanto, ha attirato le attenzioni di Faruk che, sotto l’apparente, perenne imperturbabilità e noia, pare attratto e affascinato dalla ragazza: la nomina vice-narratrice e poi le conferisce altri incarichi di ancor maggiore responsabilità. Forse, proprio per questo, lei comincia a ricevere sempre più minacce di morte, simili a quelle inviate ai Miraggi scomparsi. Ma anche Thorn è aggredito e attaccato. Berenilde, sua zia, ormai è al termine della gravidanza e quello che, dopo trecento anni, sarà il primo erede diretto di Faruk, sta per nascere. Tuttavia ciò è un ulteriore motivo di timori per la loro incolumità. Lentamente e inesorabilmente le vicende cominciano a scivolare verso insospettati esiti.
Questo è il secondo volume della tetralogia dell’Attraversaspecchi, tuttavia quando sono arrivato alla conclusiva pagina 563 (quindi, ad oggi, in totale 1067) non ho ancora deciso se la saga della Dabos soddisfi o no le mie aspettative.
La narrazione procede implacabile come un’indolente via crucis — forse, ancor più lenta di quanto già non lo fosse nel primo volume — nella quale i protagonisti, Ofelia soprattutto, ma pure Thorns, sono sottoposti a ogni genere di angherie, ma come se ciò rappresentasse solo il normale evolversi delle vicende, l’ordine delle cose in quel mondo; senza, cioè, che ciò susciti particolare empatia. Quindi il lettore, quantomeno questo lettore, deve lottare perché la sua attenzione resti collegata alla narrazione e non erri vagando in giro. Se dovessi paragonare questa storia a una partita a scacchi, allora direi che nel primo libro l’A. si è limitata a tirar fuori i pezzi dalla scatola e a illustrarne le caratteristiche e le mosse che ci si aspetta da loro. In questo, dopo essersi presa molto tempo per sistemarli sulla scacchiera, ha cominciato a muoverli sul tavoliere, ma con una iniziale pigrizia e indecisione. Qualcuno di loro è già caduto, è vero, ma ancora non si comprende che tipo di partita ci verrà mostrata, né le evoluzioni che potrà mai prendere.
Solo nelle ultime cento pagine, circa, sembra che la storia ingrani una diversa marcia e divenga qualcosa di più di un resoconto di intrighi tra cortigiani e patemi d’animo di una giovane piuttosto confusa e impacciata. Ma la fine del volume è lì, vicina, che incombe. Ed è proprio giunti alle ultime righe che mi viene spontaneo chiedersi: quanto può permettersi di influire, sul giudizio complessivo di un’opera letteraria, la sua conclusione? In definitiva, per avere un buon romanzo, in particolare un romanzo fantasy, è indispensabile che tutto il libro sia avvincente, appassionante e coinvolgente; oppure è sufficiente che, con l’ultimo (unico?) ben studiato climax, l’autore intrappoli il lettore alla storia, un po’ come un tonno imprigionato nell’angusta camera della morte di una vasta tonnara, di cui non si vedono le lontane paratie? Non mi sono saputo rispondere.
Comunque, se il finale deve ritenersi parte essenziale, trascinante e qualificante di tutta la costruzione letteraria che lo precede, quello che giustifica il narrato pregresso, allora “Gli Scomparsi di Chiardiluna”, dovrebbe rientrare tra i buoni libri, quelli che meritano di essere ricordati e consigliati. Se così non fosse, beh, allora, il giudizio sarebbe decisamente meno positivo.
Lo stile dell’A. è scorrevole, ma non riesce a suscitare soverchie emozioni, in alcuni capitoli è leggermente soporifero, in altri lievemente banale, altrove anche un po’ irritante. La trama è incerta se imboccare decisamente la direzione del feuilleton sentimentale — ove l’ambientazione fantastica fa solo da fondale e giustificativo delle varie situazioni — oppure diventare un romanzo di formazione (della protagonista) o, ancora, suggerire complesse implicazioni cosmologiche, morali e “teologiche” o, infine, trasformarsi in un thriller ove il criminale (che potrebbe pure essere il “Dio” di quel mondo parallelo!) è ancora da scoprire e inchiodare alle sue responsabilità.
Giunti a metà della saga i personaggi secondari sono ancora poco caratterizzati, mentre i principali sono bloccati entro attributi piuttosto schematici e angusti, per i quali il rispettivo aspetto fisico ne è la sintesi e l’epitome apparente: Ofelia, insicura e maldestra, ha sciarpa e occhiali “animati” che ne manifestano gli stati d’animo; Thorn, nella sua asocialità quasi autistica, è magro e dinoccolato come un ragno e con occhi grigi, gelidi come l’inverno; la zia Roseline, formalista e vagamente bacchettona mostra sempre i denti cavallini pronti a emettere risate imbarazzate; Berenilde austera e severa, è ammantata nella sua algida bellezza regale; Faruk, torbidamente apatico, è perennemente avvolto nei suoi lunghissimi capelli argentei che lo chiudono come in un sipario (o sudario?) che ne cela l’animo.
Per gran parte del libro il principale (o unico?) punto di vero interesse è concentrato in quelli che vengono definiti frammenti: i sogni ove Ofelia si immedesima nel giovane Faruk (o Odino?) e ci mostra in confusi e difficilmente decifrabili squarci di storia, chi siano realmente gli spiriti di famiglia, come tutto è iniziato e chi sia il misterioso e dittatoriale “Dio” che li controlla. Poi, quando, con un inaspettato cambio di direzione, la storia diviene una specie di thriller poliziesco, la nostra prospettiva muta, ma senza che ci venga tolto il dubbio che, nel terzo libro, lo scenario sia ancora diverso da quelli ipotizzati.
Insomma il romanzo resta enigmatico, sui contenuti, sui fini e sulle qualità letterarie in generale. Una cosa è certa: chi si è trovato a intraprendere questo cammino di lettura difficilmente potrà fermarsi a metà: nel bene e nel male la curiosità suscitata, ormai, lo costringe a giungere sino al quarto volume. Ma conviene entrare in questa “trappola per topi curiosi”? Non ho una opinione certa al proposito.
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Mi prendo la libertà di chiudere con una nota di pesante biasimo nei confronti dell’editore che si è permesso di scrivere, nella sinossi in quarta di copertina, una brevissima frase che svela il finale del volume, spogliando così il lettore dallo stupore della scoperta. Non si fa!