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Eragon: pene d’amor deluso e lezioni d'entomologia
Continuano le avventure del giovane cavaliere Eragon e della sua dragonessa Saphira in questo secondo volume del ciclo dell’Eredità. A differenza del primo libro, qui la storia si dirama su tre filoni paralleli per poterci mostrare, oltre alle vicende del protagonista, quelle del cugino Roran, rimasto nella valle del Palancar, e quelle dei ribelli Varden, rifugiatisi nel Surda per proseguire la lotta contro il corrotto imperatore Galbatorix.
Eragon, che sente ancora i postumi della terribile ferita inflittagli dallo spettro Durza, assieme a Saphira raggiunge Ellesméra, nel cuore della selva del Du Weldenvarden. Qui entrambi debbono completare la loro istruzione di Cavaliere e di Drago presso il popolo degli elfi, sotto la guida dell’anziano Oromis e del suo drago Glaedr.
A Carvahall, invece, Roran, tornato al paese dopo la brutale uccisione del padre Garrow ad opera dei crudeli Ra’zac, scopre d'essere braccato dall'imperatore che gli ha sguinzagliato contro i due mostruosi esseri semi-umani. Supportato dai suoi compaesani, in parte per convinzione ed in parte pura necessità contingente, affronterà i “profanatori” scoprendo di essere anche lui un valente combattente e capopopolo. Poi - vista l’impossibilità di tener testa ad un intero esercito e ansioso di salvare la sua fidanzata Katrina, rapita dai Ra’zac - sarà costretto a fuggire, lui con tutti i suoi, oltre la Grande Dorsale, per trovare un imbarco verso il Surda.
In questo staterello che si oppone all'Impero, la giovane Nasuada, divenuta comandante dei Varden, è ospitata da re Orrin. La ragazza deve lottare strenuamente per tenere assieme il suo popolo che rischia di andare allo sbando, e, contemporaneamente, deve prepararsi allo scontro decisivo con le truppe di Galbatorix. A complicare la faccenda, una neonata, benedetta in modo maldestro da Eragon, si rivelerà essere una potente, ma incontrollabile veggente.
Il giovane Paolini in questa sua seconda fatica prosegue nella scia del precedente volume, ma senza particolari tensioni emotive o trovate inventive eclatanti, al punto che i pochissimi colpi di scena che ravvivano il racconto sono così poco imprevedibili che, in alcuni casi, potevano già essere presagiti sin dal primo libro.
In particolare le avventure di Eragon tra gli elfi procedono stancamente, tra lezioni sulla vita delle formiche, vampate affettive adolescenziali (sia sue che della dragonessa) e addestramenti sul campo sullo stile Karate Kid (“dai la cera, togli la cera”). Par quasi che l’A. abbia più a cuore il mostrare i propri personali progressi negli studi o l’accresciuta sua cognizione delle pene d’amore, piuttosto che curare l’esposizione della saga epico-fantasy.
Prima della battaglia con cui si conclude il romanzo si vede un po’ d’azione solo nelle vicende che riguardano Roran: quando affronta i mostruosi sicari dell’Imperatore o quando guida l’esodo dei suoi compaesani. Ma anche in questo filone narrativo, spesso, il racconto si annacqua e diviene cronaca diligente degli eventi quotidiani.
Complessivamente questo romanzo ci mostra una conseguita migliore padronanza stilistica nella narrazione. Nel contempo, però, evidenzia, in modo ancor più manifesto e sconfortante, quali siano le sue fonti ispiratrici. Fonti nei confronti delle quali Paolini resta pesantemente debitore: da Star Wars al Ciclo tolkieniano, dai romanzi del Ciclo di Shannara a quelli del Dune di Frank Herbert (al quale ultimo, l’a. ha scippato sfacciatamente l’idea della neonata che diviene un abominio per i suoi poteri di veggente). Ma molti altri sono i “prestiti” a cui assistiamo, purtroppo. Ciò rende la storia vagamente stucchevole e stantia, come una minestra riscaldata, fatta di troppi ingredienti eterogenei mescolati assieme. Questo gusto acre si accentua ogni volta che l’A., scimmiottando Tolkien, e spezzando il filo della narrazione, inserisce lunghe frasi, incomprensibili al lettore, nella fantasiosa “antica lingua” o in quella dei nani, dimenticando che Tolkien era un finissimo linguista ed il suo ovestron, il quenya, il sintarin furono frutto di un lunghissimo studio letterario e non il gioco di un ragazzo che vuol dar pepe alla sua storia.
Personalmente, infine, ho trovato particolarmente sgradevole la caratterizzazione degli elfi. Dalla grandiosa tragicità della “nazione eletta” in Tolkien o alla disincantata, maliziosa e un po’ luciferina versione datane da T. Pratchett, si è passati ad immaginarli come un popolo di crepuscolari spiriti silvani, dediti al “canto alle piante” o a comporre melanconiche liriche in contemplazione della bellezza della Natura. In questo contesto l’A. riesce addirittura ad infilare una sorta di fervorino in stile vegano sul rispetto di tutte le forme viventi anche nell'alimentazione. Il tutto è abbastanza insopportabile.
In conclusione il romanzo si dimostra decisamente inferiore al precedente (che era buono, pur se non eccezionale) e si fa davvero fatica a giungere al termine, anche per la sua ponderosità intrinseca. Invero, in rapporto ai suoi contenuti, è troppo lungo, troppo prolisso soprattutto quando si attarda in minuzie descrittive.
Tuttavia, nonostante tutti questi difetti, " Eldest" conserva una certa gradevolezza a patto di considerarlo solo una lettura di puro svago o, ancor più più precisamente, un romanzo scritto da un ventenne per un pubblico di adolescenti.