Dettagli Recensione
I testi sacri delle Terre di Mezzo
Il Silmarillion, per dirla con una espressione ormai d’uso comune, è il prequel di tutte le successive saghe tolkeniane. E’ la Genesi, nel vero senso sacro del termine, cioè la Bibbia, il testo sacro delle terre di Arda (di cui le Terre di Mezzo della Trilogia sono solo il misero residuo dopo il cataclisma). Impossibile farne un riassunto che non sia una crudele mutilazione. Basti solo dire che l’opera, monumentale, pur nella sua relativa brevità, è divisa in cinque parti che narrano, rispettivamente, della creazione dell’Universo (Eä) ad opera di Eru Ilúvatar e degli spiriti da lui emanati (gli Ainur); delle gesta di questi ultimi, distinti in dei (i Valar) e semidei (Maiar), nello splendido continente di Valinor, le “Terre immortali” in cui gli dei coabitano con il popolo eletto (i quendi/gli elfi) ; della successiva terribile lotta millenaria che gli elfi trasferitisi nelle Terre di Mezzo porteranno assieme agli umani contro Melkor/Morgoth (il più potente degli Ainur, divenuto incarnazione del male) per il possesso dei Silmarill (i tre splendidi gioielli che racchiudono in sé la luce dei due alberi della luce di Valinor, questi ultimi miseramente distrutti nelle lotte tra dei); dell’ascesa e caduta di Nùmenor, l’isola che aveva il privilegio di essere in vista delle coste di Valinor e di emularne lo splendore. Infine si chiude con un breve resoconto dei fatti della Terza Era nella quale, su quanto resta delle Terre di Mezzo, elfi ed umani si opporranno a Sauron, il più potente dei Maiar, il creatore degli anelli del potere.
Premesso ciò c’è da porsi una domanda: si può parlar male di Tolkien o delle sue opere? È il mostro sacro della letteratura fantasy. Sarebbe come osare attaccare Dante o Shakespeare o Proust. Il Silmarillion, poi, è la summa di tutti i suoi sforzi per dar vita ad un’epica nella letteratura britannica: per un amante del fantasy sarebbe quasi commettere blasfemia. Quindi non voglio giungere a tanto e, neppure, fare il “pierino” di turno o quello che scarabocchia i baffi alla Gioconda per puro sfregio. Tuttavia il Silmarillion proprio non mi è piaciuto.
Ho conosciuto la letteratura tolkieniana la bellezza di trent’anni fa, leggendo prima l’Hobbit e, dopo, la Trilogia e ne sono stato conquistato. Poi per decenni ho abbandonato quel mondo. Solo qualche mese fa ho deciso di affrontare, e con un bel po’ di timore reverenziale, il Silmarillion ben sapendo che era un testo decisamente più ostico. Un’opera che soffre anche del fatto di essere restata incompiuta: Tolkien non ne fu mai soddisfatto e continuò a rimaneggiarla per tutta la vita.
L’impatto non è stato indolore. Il Silmarillion, nella sua incompletezza, porta all’ennesima potenza tutti i difetti che, già in nuce, possono ritrovarsi nelle altre opere: l’idea stessa di dar vita non solo ad un opera letteraria raffinata (ma pur sempre d’evasione), ma ad una saga dai toni solenni che coniughi alla costruzione fantastica di un mondo immaginario, un epos, una mitologia, la ricerca stilistica di un linguaggio, di un etica e di un modo stesso di sentire ed interpretare la “realtà”, l’ha caricata di troppi contenuti, intenzioni ed oneri. Sarebbe stata perfetta spogliata di almeno parte di questi ambiziosi obiettivi. Nel Silmarillion, tra l’altro, si individuano anche intenti etici se non proprio teologici, trasformando il romanzo in una pietanza piuttosto indigesta.
In pratica Tolkien si è preso troppo dannatamente sul serio.
Ma forse il difetto maggiore, a mio modestissimo avviso, è proprio la ridondanza delle storie che sono raccolte nel libro. Tutte, in particolare quelle contenute nella terza parte (il “Quenta Silmarillion”), sono tanto ampie ed articolate da essere ognuna meritevole non di un libro a parte, ma spesso di una intera trilogia per sé sola. Jackson, che è riuscito a girare tre film con le 400 pagine dell’Hobbit, qui potrebbe mettere in scena una telenovela ventennale! All’interno del libro, così come consegnato alle stampe, queste storie risultano inevitabilmente compresse e snaturate.
Mi rendo conto che questo fatto può trovare la sua logica giustificazione nell’idea di fondo, in base alla quale il Silmarillion dovrebbe rappresentare la raccolta e ricostruzione, a posteriori (cioè nella Quarta Era), dei miti delle prime due Ere, sulla base di frammenti di una ipotetica tradizione orale. Quindi, ad un’opera di “archeologia mitologica” è concesso soffrire di lacune e inevitabili semplificazioni, tuttavia ciò reca un gravissimo nocumento alla leggibilità della storia che diviene intricata e, nello stesso tempo, affrettata e convulsa.
L’affastellarsi, poi, di un numero impressionante di personaggi che, di volta in volta, vengono citati con il loro nome in ovestron, quenya, sintarin, o in una delle altre lingue immaginarie, costringe il lettore ad un continuo uso di glossari e note in calce, per evitare di smarrirsi.
Alla fine il piacere della lettura viene stemperato proprio dalla fatica con cui la stessa viene portata avanti.
Probabilmente uno scrittore moderno, più mercantile, avrebbe trovato modo di vivere “di rendita” sull'idea di base con la pubblicazione di un volume l’anno. L’ambizione, molto più elevata e letteraria di Tolkien, fa del Silmarillion un’opera decisamente più intellettuale e raffinata, ma nel contempo di assai meno gradevole e facile lettura.