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Stereotipi, cliché e deus ex machina
Premetto che non ho mai amato lo stile della Troisi. C’è stato un periodo in cui letteralmente qualsiasi cosa che contenesse il vago accenno di magia per me meritava di essere letto a prescindere, ma non penso a 13 anni si abbia una grande competenza per poter scrivere una recensione degna di questo nome.
Dieci anni più tardi, dopo aver provato a stare anche dall’altra parte, ho provato a riprendere in mano questa autrice, giusto per vedere se tutte le recensioni negative lette fossero davvero fondate o se il mio infantile e iniziale giudizio fosse da tenere in considerazione.
Oh me del passato, come ha fatto a piacerti un simile scritto che ora faccio anche fatica a definire romanzo?
Partiamo dallo stile, che è la parte facile.
Lo stile della Troisi è brutto.
Nemmeno da definire “semplice e scorrevole” o “amatoriale” è proprio brutto. Si fa fatica a leggere o almeno io faccio fatica a leggerlo perché mi trovo di fronte a delle frasi che mi fanno rabbrividire, scuotere la testa e costringono a fermare la lettura. Un esempio lo abbiamo subito all’inizio del libro, poco dopo un prologo che descrive il mondo fantasy più generico del mondo
“ Scelse uno dei lavandini e iniziò a lavarsi la faccia. Si contemplò allo specchio e, com'era prevedibile, i suoi capelli rossi e ricci erano un unico cespuglio aggrovigliato. Ecco perché tutti lì dentro la chiamavano Zucca “
Il cliché dello specchio per descrivere un personaggio è uno dei più banali che si possono trovare in letteratura, ed ormai lo associo ad uno scrittore che non sa come scrivere. Una descrizione statica è ugualmente noiosa da leggere e sembra… forzata, semplicemente forzata. Provate voi a mettervi la mattina di fronte allo specchio appena svegliati mentre vi lavate la faccia. Alzando lo sguardo cominciate a soffermarvi su tutti i particolari del vostro viso? Su come i vostri capelli vi abbiano dato un soprannome che odiate? La risposta è no.
Non migliora lo stile nei dialoghi, particolarmente piatti e privi di caratterizzazione.
Stesso problema che si trova nei personaggi. Tutti stereotipati, chiusi in un cliché che non evolve e che lo rende esasperanti. Sofia è sempre impacciata, sempre paurosa ed è descritta in modo che susciti empatia ma riesce solo a scatenare un minimo di pena e tanta irritazione per la sua totale incapacità di reagire agli eventi. Non c’è nulla di male ad avere personaggi più remissivi, ma avere dei piagnoni inutili è… noioso.
Lydia è sempre perfetta, al limite del Mary Sue (anzi sono sicuro che se compilassi il test verrebbe sicuramente Mary Sue), fascinosa, coraggiosa, potente.
Il professore è… vuoto. Il suo ruolo di custode a malapena spiegatp. Sembra essere messo lì giusto per mandare avanti la trama.
E i nemici non migliorano, così come sono banali gli espedienti di trama. Ogni volta che qualcosa va male, puf, cilindro metaforico del professore salterà fuori un artefatto pronto a risolvere la situazione.
Potrei dire che è quasi un peccato che un’idea quantomeno “interessante” quella di creare un fantasy nell’Italia moderna sia stata così sprecata ma a pensarci bene, dopo aver riflettuto sulle altre opere dell’autrice, non mi aspettavo molto altro.
Per concludere il primo libro della saga ha tutti i difetti di una moderna YA novel: personaggi stereotipati in un mondo inverosimile dove cliché e deus ex machina portano avanti una trama che fa evolvere a malapena i personaggi.