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Meritocrazia di parvenza
«Non mi piace usare la parola “odio”, perché di questi tempi anche una briciola di odio può trasformarsi in una valanga di odio. Ma io odio questo Q.»
Torna in libreria Christina Dalcher, autrice di “Vox”, classe 2018, opera incentrata sul tema dell’emancipazione femminile portata ai massimi estremi, con un romanzo nuovamente distopico ma questa volta ispirato alla gioventù hitleriana. Lo scenario che si apre innanzi ai nostri occhi è quello di una verità all’interno della quale la società è suddivisa per specifici gradi e ordini che vengono identificati già dal percorso di studi che ne scandisce le dinamiche. Elena Fairchild, insegnante di origine tedesca, vive e insegna scienze negli Stati Uniti. È sposata con uno dei fondatori del “sistema” e ha avuto da questo due figlie; una maggiore emblema e perfezione del meccanismo instauratosi, una minore, al contrario, vittima delle angosce e delle imperfezioni che questo stesso meccanismo ha provocato in lei. Tutto ruota attorno a un presunto sistema meritocratico che permette di suddividere la popolazione e gli studenti a seconda delle loro qualità capacità. Abbiamo per questo una scuola Argento ove confluiscono i migliori, una scuola Verde per le persone normali, senza troppi pregi e senza troppi demeriti, una scuola Gialla per chi al contrario non raggiunge il target statuito. A identificare le categorie vi sono gli stessi mezzi, distinti per colore e con mete predestinate in funzione a essi. Tutti, indistintamente tra grandi e piccini, vengono sottoposti al test Q, un esame le cui prove sono di volta in volta sempre più difficili e che viene a essere ripetuto con cadenza mensile. Basta totalizzare un punteggio anche leggermente inferiore a quello prestabilito per essere cambiati di destinazione. E questo, il caso vuole che sia, proprio quello che succede alla figlia minore della protagonista che a causa dello stress, a causa della sottoposizione a una competizione senza fine, a causa di tanti fattori, viene destituita a una scuola gialla. Il problema è che per ragioni di stampo organizzativo e numerico, o ad ogni modo “superiori”, è stato deciso di spostare queste strutture fuori dal centro della città, o meglio, fuori proprio dai confini dello Stato. Si badi bene che l’impronta scolastica si ripropone anche su quella lavorativa tanto che essere appartenuti all’uno o all’altro colore, per effetto, determina anche quello che sarà il futuro dell’essere umano. Da ciò si desume che non vi è prospettiva alcuna per chi è il reietto, categoria sostituita altresì dalle macchine e dunque inutile. L’obiettivo finale sembra essere quello di precostituire un individuo perfetto, la razza pura per eccellenza eviscerata da ogni non puro. Può una madre tollerare di essere separata così dalla figlia soprattutto quando il marito sembra quasi essere felice di essersi levato il peso di quell’insuccesso per tenere al proprio fianco soltanto la figlia migliore e prediletta? E perché nell’ultimo periodo sono sempre più gli studenti ex migliori a essere ricollocati in scuole di grado inferiore? Cosa sta succedendo?
«Mi chiedo cosa faremo delle persone che non sono più necessarie.»
Il sistema che viene a delinearsi è caratterizzato da assenza di libertà personale e di pensiero che vengono sostituite da un meccanismo di propaganda e indottrinamento dal quale è impossibile uscire. Per certi versi, questo carattere rimanda al celebre “1984” di George Orwell. Ciò si evince da quegli stessi comunicati che si susseguono con cadenza regolare per aggiornare la popolazione degli sviluppi e delle decisioni prese.
Il tema trattato dalla scrittrice è molto interessante, forte e attuale. Suscita la riflessione e porta il pubblico di lettori a interrogarsi su quelle che sono le problematiche sottese.
L’opera per certi versi ricorda l’impostazione di “Vox”, soprattutto nella prima parte, ed è caratterizzata da personaggi eterogenei che ben snodano le vicende seppur talvolta possano risultare essere troppo macchinosi. La curiosità è destata nel lettore all’inizio per un naturale interesse che viene a nascere, successivamente perché questo si chiede ove la romanziera voglia arrivare. Quel che onestamente rende un poco faticosa la lettura è impronta stilistica che tende a spiegare troppo, a essere troppo descrittiva tanto da risultare talvolta superflua e in più. Ciò influisce sul ritmo che rallenta e subisce a più riprese una battuta d’arresto. L’interesse verso il narrato perde per questo di forza e se non fosse per la curiosità di giungere sino alla conclusione probabilmente verrebbe completamente meno. Cosa questa che con qualche taglio in più non sarebbe accaduta.
Ad ogni modo “La classe” resta un romanzo superiore a “Vox”, piacevole nello scorrimento e capace di suscitare alla riflessione. Non da gridare al capolavoro ma da leggere per meditare e porsi domande.
«Mi chiedo se non continueremo a giocare finché le pedine non cominceranno ad avvicinarsi e si sposteranno dalle Loro scacchiere alle Nostre.»
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