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Vieni su Marte
"E gli uomini della Terra vennero su Marte. Vennero perché avevano paura, o perché non l'avevano, perché felici, o infelici, perché erano come i Padri Pellegrini che avevano fondato le colonie americane, o perché non erano come i Padri Pellegrini. Ognuno aveva avuto le sue buone ragioni per venire su Marte. Cattive mogli da abbandonare, lavori ingrati, città inospiti; ed essi venivano su Marte per trovare qualcosa, o lasciare qualcosa, o ottenere qualcosa, per scavare qualcosa, o seppellire qualcosa, o lasciare una volta per tutte in pace qualcosa. Venivano con piccoli sogni, o sogni immensi, o niente sogni del tutto. Ma un dito governativo vi si appuntava contro, in molte città, da un cartellone stampato a quattro colori: C'È LAVORO PER TE NEL COSMO: VIENI SU MARTE!" Da sempre è insita nella natura umana l'ambizione a superare qualsiasi tipo di confine, a raggiungere vette inesplorate, ad ampliare sempre più il campo della conoscenza. Un sentimento certamente positivo, che tanto è servito, nel corso della storia, a portare progresso dal punto di vista scientifico e tecnologico, ad allargare gli orizzonti geografici, a migliorare la vita di ognuno di noi. L'animo umano, tuttavia, ha dimostrato di non riuscire ad evolversi di pari passo al progresso che lo circonda. Guerre, sopraffazione, differenze sociali, inquinamento, dimostrano che, dalla preistoria ad oggi, l'uomo non ha ancora imparato come comportarsi nei confronti dei suoi simili e del pianeta su cui vive. Cosa potrebbe succedere, un domani, se l'uomo riuscisse a raggiungere un pianeta inesplorato, abitato da una civiltà sconosciuta? Ray Bradbury si è posto la domanda nel non troppo lontano 1950, a pochi anni dall'orrore dei due conflitti mondiali, immaginando la conquista di Marte da parte dei terrestri. La risposta, prevedibilmente, non lascia tanto spazio all'ottimismo. L'autore non può fare a meno di ipotizzare una colonizzazione selvaggia, uno sterminio della razza marziana, un maltrattamento dell'ecosistema vigente, una lotta tra gli stessi terrestri per la conquista dei terreni, per la gestione delle risorse, per la detenzione del potere che appare tutt'altro che fantascientifica, tanto è avvalorata dal comportamento umano nella storia. Il disfattismo di fondo dell'opera, il pessimismo nei confronti di un progresso prettamente materiale, è stemperato dal brioso incedere del racconto, da una massiccia dose di caustica ironia che spesso sfiora la comicità, da una prosa curata che dà il meglio di sé nelle fantasiose e piacevoli descrizioni. Si parte dalla prima spedizione americana verso il pianeta rosso, nel 1999, finendo nel 2026 in un desolante scenario post bellico, in un susseguirsi di più o meno brevi racconti, ognuno dei quali sembra fare storia a sé, tanto poche risultano le interconnessioni tra un episodio e l'altro. Tuttavia il risultato non appare frammentato, il filo storico e quello logico sono legati insieme da un contesto che va al di là del singolo racconto. Non sono i personaggi ad essere protagonisti, ma è la società umana nel suo insieme. Non è la storia di una singola persona o di un ristretto gruppo di uomini, ma di una intera civiltà che, come un cane che si morde la coda, gira e rigira in un vorticoso circolo di errori e di orrori che non sembra avere fine. "La vita sulla Terra non s'è mai composta in qualcosa di veramente onesto e nobile. La scienza è corsa troppo innanzi agli uomini, e troppo presto, e gli uomini si sono smarriti in un deserto meccanizzato, come bambini che si passino di mano in mano congegni preziosi, che si balocchino con elicotteri e astronavi a razzo; dando rilievo agli aspetti meno degni, dando valore alle macchine anzi che al modo di servirsi delle macchine. Le guerre, sempre più gigantesche, hanno finito per assassinare la Terra. Ecco che cosa significa il silenzio della radio. Ecco perché noi siamo fuggiti."