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Odissea 2.0
È impossibile recensire questo libro senza fare alcun riferimento al film di Kubrick, soprattutto perché nasce proprio da una richiesta del regista a Clarke e, infatti, venne sviluppato contemporaneamente come romanzo e come sceneggiatura.
Il romanzo fa parte del sottogenere della fantascienza definita “hard” o “tecnologica”, caratterizzata dall’enfasi posta per il dettaglio scientifico. La prosa di Clarke è molto descrittiva, abbondante di termini tecnici, ma è comunque capace di intrattenere anche il lettore non ferrato nel genere. Alcune di queste minuziose descrizioni ricordano quelle dei romanzi ottocenteschi, tuttavia non vi è rappresentata la ridente Verrières stendhaliana o il lago di Como manzoniano, ma il pianeta Saturno con i suoi “anelli”, composti da un numero pressoché infinito di cristalli.
“Dagli albori del tempo, grosso modo cento miliardi di esseri umani hanno camminato sul pianeta Terra. Orbene, è questo un numero interessante, in quanto, per una coincidenza bizzarra, esistono approssimativamente cento miliardi di stelle nel nostro universo locale, la Via Lattea. Così, per ogni uomo che abbia vissuto, in questo universo splende una stella.”
Così Clarke nella premessa vuole sottolineare il fine rapporto presente fra l’uomo e l’universo, tuttavia la storia narrata avrà inizio moltissimi anni prima della sua comparsa nel pianeta, in un’epoca difficile da immaginare anche solo nella linea del tempo, con un incipit piuttosto inusuale per un romanzo di fantascienza. Il primo capitolo si apre infatti 300 milioni di anni fa, nel continente Africano, dove era in corsa una lotta famelica e spietata per la sopravvivenza (leggi: evoluzione della specie). Tra le miriadi di animali è presente anche l’uomo-scimmia, prossimo all’estinzione per via delle sue debolezze che lo rendono succube delle leggi Darwiniane.
A cambiare il corso della storia (prima ancora che la Storia potesse esistere in quanto tale), come un primordiale e archetipico deus ex machina, compare un gigantesco monolito cristallino che, accortosi delle potenzialità delle scimmie, le aiuta a sfruttare le loro peculiarità e a compiere il primo passo per l’evoluzione che giungerà poi fino all’uomo.
Il racconto si sposta poi in un vicino futuro fantascientifico in cui l’uomo, stabilitosi anche sulla Luna, riscopre questo monolite dissotterrato nel satellite e, analizzatolo, ne scopre l’antichità e anche l’origine, legata probabilmente ad una forma di vita intelligente situata nei pressi di Saturno.
Per questo motivo viene spedita l’astronave Discovery, capitanata dal comandante David Bowman, e qui l’Odissea dell’intera umanità diventerà una vera e propria Odissea galattica: l’equipaggio sarà messo a dura prova non dalle divinità greche, capaci di alterare i venti e il mare, ma dallo spazio siderale, freddo e indifferente delle sorti umane, e anche dal super-computer HAL 9000, l’intelligenza artificiale capace di ribellarsi ai suoi programmatori e a sterminare l’equipaggio.
Grande merito di Clarke è anche quello di essersi immaginato i possibili pensieri di un uomo distante milioni di chilometri dal suo pianeta: ecco che l’umanità viene rimpicciolita ad un minuscolo tassello nell’Universo e con essa anche tutti i suoi numerosi problemi, tantoché persino i drammi di Ibsen e Shakespeare risultano ora “talmente remoti, o risolvibili così facilmente con un po’ di buonsenso”.