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La fantascienza che fa riflettere
Novembre 1909. In questo breve racconto Forster si cimenta in un genere, quello fantascientifico, che è quanto di più lontano dalle atmosfere ovattate dell'Inghilterra coloniale e post vittoriana che spontaneamente associamo ai suoi ben più noti romanzi (Camera con vista, Passaggio in India, Casa Howard, Maurice ..) resi celebri dalle trasposizioni cinematografiche di James Ivory e David Lean. Ebbene, questa sua "science fiction" sconcerta per il carattere profetico se soltanto se ne considera l'anno di pubblicazione: 1909 appunto.
In un tempo in cui la seconda rivoluzione industriale, quella elettrica, si affermava lentamente mentre la terza, quella informatica-elettronica, era ben lontana a venire, Forster immagina una società in cui "la Macchina", simbolo totemico di una civiltà iper-tecnologica, soddisfa ogni bisogno dell'essere umano assolvendo da ogni sua necessità pratica: lo nutre, lo cura, lo educa, lo istruisce, lo assiste in ogni minimo spostamento. L'appagamento e l'assuefazione dell'uomo alle comodità offerte dalla tecnologia è totale. I singoli individui vivono rintanati e solitari nelle loro abitazioni sotterranee, tristemente impersonali e standardizzate, ma perfettamente climatizzate e dotate di ogni comfort. Nessun desiderio di uscire per esplorare il mondo esterno pare tentarli. La Macchina governa ogni fase delle loro vite fino a deciderne la dignitosa buona morte regolata da istituzionalizzate pratiche eutanasiche.
E' una umanità flaccida e pallida, cui è persino risparmiato lo sforzo di trascinarsi dalla poltrona al letto e la cui unica comunicazione col mondo esterno e' filtrata da schermi e strumenti audio-visivi.
Eppure, quella stessa umanità si è ormai convinta di vivere nel migliore dei mondi possibili quasi che la totale soddisfazione dei bisogni, magnanimamente garantita dalla "Macchina", sia automaticamente da associarsi al concetto di felicità. Da strumento creato dall'uomo per l'uomo, la "Macchina" diventa entità indipendente, onnisciente ed onnipotente, cosi' da assurgere a vero e proprio oggetto di culto ed adorazione.
Basterebbero questi aspetti a sottolineare la modernità del racconto ed è con un briciolo di disagio che osservo gli innumerevoli gadget tecnologici, telecomandi ed accessori vari coi quali, a distanza di un secolo ed in piena era internet, ci siamo riempiti le case.
Ma nel racconto c'è di più. A renderlo infatti incredibilmente attuale sono i risvolti psicologici e sociologici. L'iper sviluppo tecnologico ha infatti condotto la razza umana ad un progressivo isolamento riducendo le relazioni interpersonali ad asettiche video conferenze. Ogni contatto fisico, persino quello tra madre e figlio, è evitato in quanto considerato sconveniente, deplorevole e rischioso. Non posso fare a meno di pensare senza avvertire freddi brividi di inquietudine. al dilagante fenomeno degli hikikomori oppure, storia recente, alle estremizzazioni di distanziamento sociale in questi tristi tempi di Coronavirus.
La trama del racconto è funzionale alla visionaria meditazione dell'autore e può essere sinteticamente riassunta. Il giovane protagonista Kuno, ha tentato invano di fuggire, sottraendosi al controllo della Macchina, dal sotterraneo mondo artificiale verso un mondo reale di superficie. Forzatamente ricondotto alla propria abitazione, Kuno contatta la madre e le chiede di andarlo a trovare. Lei si mette malvolentieri in viaggio ed una volta raggiuntolo, Kuno le racconta del suo tentativo di fuga. All'istinto ribelle del figlio ed al suo desiderio di libertà, la madre oppone soltanto una sbalordita incredulità e l'incontro ha termine in un clima di totale incomprensione. La storia poi evolve rapidamente verso un finale eccessivamente apocalittico che già il titolo preannuncia.
Ciò che però resterà indelebile nella memoria del lettore è quella cupa atmosfera di tecnologica alienazione e progressivo annientamento della natura umana. Più che un racconto di fantascienza, Forster ci lascia un accorato monito per la nostra e per le future società a venire.