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LA PARANOIA E LA RESISTENZA
Arrivare alla fine delle mille pagine de “L’arcobaleno della gravità” è un’impresa estenuante, quasi epica. Tra i vari “libri-mondo” che hanno segnato la storia della letteratura moderna (“Ulisse”, “Alla ricerca del tempo perduto”, “L’uomo senza qualità”, “Infinite jest”, ecc.) quello di Pynchon è il più ostico, indecifrabile, quello che richiederebbe una continua consultazione di Wikipedia per riuscire a capire tutti i riferimenti storici, artistici, scientifici profusi dall’autore a piene mani. La narrazione di Pynchon è divagante, dispersiva, labirintica: dietro a ogni pagina-porta si aprono innumerevoli ramificazioni che portano lontano dal punto di partenza, costringendo a sovrumani tour-de-force per ritornare mentalmente al dunque. E’ molto difficile trovare un senso compiuto al romanzo, anche perché Pynchon indugia volutamente su un modello di letteratura “bassa”, con una struttura da musical sgangherato (le canzoncine di cui è disseminato il libro, vero e proprio leit motiv pynchoniano), un sottofondo triviale (l’ossessione dei personaggi per il sesso sado-masochistico) e un ritmo da fumetto (Slothrop che fugge in mongolfiera o travestito da maiale), facendo accadere le cose in maniera meccanica e anti-realistica (i provvidenziali e assurdi deus ex-machina che ogni volta tolgono il protagonista dai pasticci). Leggendo però, quasi alla fine del libro, la fantastica storia della lampadina Byron (una lampadina indistruttibile che si mette in testa di organizzare una ribellione di tutte le lampadine del mondo contro il cartello di industrie che ha la pretesa di farle durare non più di 1.000 ore) mi si è (perdonate il brutto gioco di parole) fatta luce su tutto: “L’arcobaleno della gravità” parla infatti dalla prima all’ultima pagina di una cosa molto attuale, e cioè della necessità della resistenza. Resistenza al conformismo, resistenza all’omologazione, al lavaggio del cervello da parte del potere, alla alienazione contemporanea, al falso mito del progresso. Slothrop, e con lui Roger Mexico, Pirata Prentice, Pig Bodine, e tanti altri personaggi ancora, rappresentano, consapevolmente o meno, i granelli di sabbia che mandano in tilt gli oppressivi ingranaggi della Storia. Perché qui non si parla solo di Seconda Guerra Mondiale (peraltro in un’ottica molto originale, quella dell’immediato dopoguerra nel caos assoluto della Zona, ossia la Germania spartita tra le potenze vincitrici), ma anche di Guerra Fredda, di imperialismo, e più in generale di una condizione storica in cui la guerra è sotterraneamente presente nella vita di tutti i giorni anche senza bombe e battaglie. E’ la guerra delle multinazionali, dei cartelli, della globalizzazione, e Pynchon (anziché ricorrere, come l’Orwell di “1984” e il Gilliam di “Brazil”, alla fantascienza per parlare di lotta dell’individuo contro il sistema) la racconta partendo dalle sue origini storiche, come un eroe no-global ante litteram, preveggente come solo un genio può esserlo. Non solo, ma racconta questa guerra senza pedanteria e senza seriosità, anzi con un umorismo anarchico e travolgente memore della lezione dei fratelli Marx, come quando Mexico e Bodine mandano all’aria un pranzo di gala elencando un fantomatico menù fatto di pietanze vomitevoli.
Il romanzo parla ovviamente di tante altre cose ancora: della paranoia, soprattutto, e del razzo, il fantomatico razzo 00000 che tutti i personaggi inseguono ossessivamente come in una rinnovata versione della ricerca del Santo Graal e che riveste una carica simbolica incredibile. L’impressione che si ricava dalla lettura de “L’arcobaleno della gravità” è tuttavia, paradossalmente, una impressione di spreco, di un resto enorme che avanza una volta terminato il ponderosissimo romanzo. Perché dietro ognuna delle centinaia di personaggi che lo affollano c’è una storia a cui Pynchon accenna solo fuggevolmente, ma che potrebbe essere facilmente il centro di un romanzo a sé stante, tanto è grande il potenziale narrativo di ciascuno di essi. Qualcuno (Bodine, Weissman) era già presente in “V.”, qualcun altro ritornerà in altri romanzi, ma l’impressione è che quello di Pynchon sia un universo vergine, inesplorato, a cui si potrebbe attingere nei secoli a venire ogni qual volta si sentisse il bisogno di abbeverarsi alle fonti della Grande Letteratura.
P.S. Vorrei citare solo due delle strabilianti prove virtuosistiche offerte da Pynchon ne “L’arcobaleno della gravità”. La prima è il sogno/fantasia/allucinazione in cui Slothrop si getta a testa in giù nella tazza del gabinetto per inseguire la sua armonica cadutagli dal taschino: è una sequenza programmaticamente sgradevole, eppure stilisticamente esaltante; un brano dall’immaginazione sfrenata, quasi uno stream of consciousness scatologico e surreale. Il secondo è lo strepitoso capitolo (pagg. 171-182) in cui Roger e Jessica si fermano ad ascoltare in una chiesa i vespri dell’Avvento, e la penna di Pynchon inizia a divagare, ispirata come non mai, in una cavalcata sul tema del Natale e della guerra, e del Natale in tempo di guerra (dal tenore giamaicano del coro al recupero dei tubetti di dentifricio, dagli abiti da sposa abbandonati prima di essere indossati ai prigionieri di guerra italiani che lavorano nelle stazioni, dalle navi da crociera abbandonate sulle spiagge alle ragazze del NAAFI incaricate di conservare nelle celle frigorifere gli organi dei soldati morti): questa volta non è un mero esercizio di stile, in quanto in queste pagine si respira veramente il dramma immenso della guerra e l’acuta nostalgia per il tempo di pace e per un periodo della propria vita che è stato scippato e che non tornerà più.
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Commenti
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Non mi piace molto la definizione di 'libri-mondo' (benché nella categoria abbia inserito opere di grandi autori) . E' che non amo le definizioni che stanno diventando stereotipi letterari. Ma trovo di peggio : l'aggettivo 'distopico' mi pare urticante.
Ovviamente, detto con simpatia ; niente di personale!
Comunque, se la citazione di Gardner aveva acceso la mia attenzione sul libro in questione, la tua ottima recensione mi spinge a prenderne in considerazione la lettura; sebbene la mole e l’evidente complessità richiedano coraggio.
Bene, cioè male. Nei miei progetti per il futuro remoto c'erano Pynchon e Don De Lillo. Mi sa che... Ci penso ancora su.
Bella recensione Giulio, la contemporanea americana mira al COME e non al Cosa si narra , virtuosismi di stile, straniamento, tempeste di informazioni, storie in altre storie... Complimenti a te, una montagna da scalare per me!
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