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Difred, una delle voci.
«È un avvenimento, una piccola sfida alle regole, così piccola da non poter essere scoperta, ma questi attimi sono le ricompense che mi offro, come le caramelle che, da bambina, accumulavo in fondo a un cassetto. Questi attimi sono possibilità, spiragli.»
Classe 1985, “Il racconto dell’Ancella”, anche a distanza di trentacinque anni, resta uno dei libri d’attualità più rinomati per quanto concerne la tematica del ruolo della donna nella società. Lo scenario che viene delineato è quello di un mondo (Stati Uniti) in cui una crisi ambientale e sociale hanno completamente ribaltato il sistema tanto da consentire l’instaurazione di un regime totalitario all’interno del quale alla figura femminile è destituito il ruolo di custode della famiglia e di mero oggetto. Non ha più alcun diritto fondamentale, ha perso la sua libertà, ha perso la sua identità, è un mero strumento che deve soddisfare il bisogno maschile e assicurare la procreazione. Le donne sono le custodi della famiglia, coloro che devono limitarsi alle faccende domestiche, non pensare, rinunciare all’intelletto. Sono Ancelle e per questo devono garantire la discendenza del futuro. Non sono persone, sono mezzi. Se non sono pertanto funzionali ai loro compiti perché sterili, omosessuali, vecchie, frigide, restie ad eseguire gli ordini, inette, la loro destinazione inevitabile è quella ai lavori forzati, alla morte. Perché non hanno scopo, non hanno ragione di esistere.
«Mi rimetto gli abiti, dietro il paravento. Le mani mi tremano. Perché sono così spaventata? Non ho violato i confini, non ho ceduto alla tentazione, non ho corso rischi, tutto è salvo. È la possibilità di scelta che mi terrorizza. La possibilità di una via d’uscita, della salvezza.»
Difred è l’ancella alla quale è incaricata la narrazione attraverso frammenti, pensieri, ricordi che si susseguono in un ordine disordinato e sbrandellato che mira a ricostruire quel passato fatto di una realtà che ha concesso l’instaurazione di un regime inquietante e crudele, famelico. Di cosa sono proprietarie queste donne? Di niente. Soltanto un nome resta di loro proprietà, nulla più.
«Mi dico che non è importante, un nome è come un numero di telefono, utile solo per altri; ma mi sbaglio, è importante. Tengo la coscienza di questo nome come qualcosa di nascosto, un tesoro che tornerò a scavare un giorno. È un nome sepolto, circondato di mistero come un amuleto, un amuleto sopravvissuto a un passato incredibilmente distante. La notte sto sdraiata sul letto, con gli occhi chiusi, e il mio nome è lì, sospeso dietro gli occhi, non del tutto a portata di mano, che brilla nel buio.»
Ma, ci invita a domandarci la Atwood, come siamo arrivati a ciò? Siamo arrivati a questa conseguenza nefasta perché l’umanità ha smesso di dare valore e significato ai sentimenti, ai principi, agli ideali. Il genere umano ha perso la voglia di dedicarsi ad ogni impegno, di responsabilizzarsi, di muoversi per raggiungere obiettivi perché a regnare sovrano è il disinteresse generale. Ci racconta, ancora, il Comandante Fred, di come una soluzione proposta e apparentemente risolutiva possa in realtà mutare completamente il mondo conosciuto. Capovolgerlo totalmente, renderlo un luogo per effetto paradossale sconosciuto e ignoto.
Ad accompagnare le vicende uno stile fluido, preciso, chiaro che si contrappone ad una narrazione un po’ troppo frammentata che lascia molteplici domande irrisolte nel testo e che al contempo non consente al lettore di farsi completamente rapire. L’effetto finale di questo stile asciutto, asettico, crudo, tagliante in cui nulla viene risparmiato e niente viene celato è quello di delineare un quadro perfettamente conforme alle intenzioni della scrittrice, un quadro all’interno del quale viene sacrificata completamente l’emozione, l’empatia. La lama affilata trafigge il conoscitore proprio per questa assenza di anfratto emotivo.
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