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Se questo è l'uomo
“Rick rimase a fissare per parecchio tempo la civetta che sonnecchiava sul trespolo. Gli vennero in mente mille pensieri, pensieri sulla guerra, sui giorni in cui le civette erano come piovute dal cielo; si ricordò di quando durante la sua infanzia si era scoperto che una specie dopo l’altra era scomparsa e di come i giornali ne parlassero ogni giorno – le volpi un mattino, i tassi il seguente, finché la gente aveva smesso di leggere questi perpetui annunci mortuari degli animali.”
In un mondo dove la sete della terra è placata da continue piogge di polveri radioattive, gli animali sono stati i primi ad “andarsene”, una specie dopo l’altra.
Quelli che rimangono sono quasi tutte copie, più o meno credibili, più o meno in grado di simulare il comportamento dell’animale corrispondente: copie commissionate dai proprietari e pagate secondo il prezzario del listino Sydney. Perché un animale elettrico in casa è lo status-symbol per eccellenza. Ma anche l’illusione di tornare a tempi andati, in cui la vita non era ancora ridotta a mera sopravvivenza, temperata dai modulatori d’umore Penfield e dal Mercerianesimo, il credo religioso di molti.
I lavori più duri sono stati delegati ad androidi, i replicanti creati dalle industrie Rosen e perfezionati sino al modello Nexus 6, praticamente indistinguibile da un normale essere umano se non per l’assenza di empatia. Per questo, la loro circolazione è permessa soltanto sulle colonie. I “cacciatori di taglie” hanno l’incarico di procedere al “ritiro” (un eufemismo che sta per eliminazione) nel momento in cui un androide viola la regola.
Rick Deckard entra in gioco quando un gruppo di otto replicanti scappa sulla Terra. Tre sono stati già ritirati dal collega Dave Holden, ma uno dei restanti cinque lo ha ridotto in condizioni critiche. Del resto, che altro modo hanno gli umanoidi di rivendicare il proprio diritto ad una “vita”? E, d’altra parte, che scelta ha Deckard se vuole mantenere il menage familiare con sua moglie Iran (e magari sostituire la loro pecora elettrica con una vera capra nubiana)?
La caccia ai replicanti ha inizio.
“Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” è scritto da Philip K. Dick nel 1968, e – pur nutrendosi dell’inconfondibile visionarietà dell’autore – manifesta un rigore e una conseguenzialità di eventi non sempre presente nei suoi romanzi. Una “robustezza” necessaria alle tematiche trattate, che viene percepita in pieno dal regista statunitense Ridley Scott. Quando, nel 1982, egli trasforma il romanzo in film e porta sullo schermo “Blade runner”, non immagina che la visione sua e di Dick diverrà quella maggiormente rappresentativa del futuro dell’umanità nell’immaginario collettivo occidentale.
Sfrondato dagli aspetti religiosi e da eccessivi riferimenti all’ “androidismo” degli animali, recupera forza il tema della sopravvivenza umana, del rispetto della vita in ogni sua forma, esplodendo, oltre ogni esplicita intenzione di Dick, nella volontà di ribellione a Dio e alle sue leggi (impersonata dall’androide Roy Batty). La resa dei conti dell’uomo con se stesso, con la propria natura, si compie sotto la pioggia sporca che bagna il tetto di un anonimo edificio, sublimandosi nelle celeberrime “lacrime nella pioggia” e nel volo improvviso di una colomba (vera o elettrica?) verso il cielo. Diverso dal finale descritto nel libro, che per il resto è ritenuto più distante dal film di quanto lo sia realmente.
Ergendosi sulle spalle di un “talento divergente” come quello di Philip K. Dick (“un visionario tra i ciarlatani” lo definiva il collega Stanislaw Lem), Ridley Scott riesce in qualcosa di pressoché irraggiungibile: fondere filosofia, disperazione e poesia in un’unica visione, materializzando uno dei pochi capolavori universali sulla condizione umana. Qualcosa che è, insieme, bellezza e monito.