Dettagli Recensione
Silenziare
«Se c’è una cosa che ho imparato da lei è che non puoi protestare contro qualcosa che non ti aspetti» p. 34
Stati Uniti. Da quando il nuovo Presidente si è insediato alla Casa Bianca e ha iniziato a detenere il potere molte cose sono cambiate. Sulla scia dell’estremismo del credo religioso e dell’indottrinamento delle masse si è giunti alla conclusione di una necessità impellente: quella di ripristinare i ruoli e i valori all’interno della famiglia moderna per ridare un ordine a tutte quelle cose che a fronte di una società basata sulle apparenze e frivolezze, non vanno come dovrebbero. E quale miglior modo se non quello di ripristinare la figura del pater familias, di renderlo l’unico soggetto legittimato a prendere decisioni a lavorare, con annessi e connessi poteri trasmessi anche alla prole di sesso maschile, e con la riconduzione della figura femminile solo e soltanto al ruolo di madre e custode della casa? Non stupisce dunque che, mentre un piano di bonificazione ha luogo in tutto il paese, un piano che parte dalla riformulazione del concetto di scuola e di istruzione a cui fa seguito ancora una marcata separazione delle figure femminili e maschili in ogni contesto nonché uno spossessamento di diritti (dal semplice possesso di un conto corrente bancario a un passaporto), contemporaneamente abbia luogo anche una degenerazione del sistema che mira ad un “silenzio assoluto” del possibile dissenso. Un silenzio che non si basa più su un limite di parole che possono essere proferite al giorno da parte della categoria del gentil sesso. Un silenzio che si uniforma a macchia d’olio senza risparmiare alcuno. Eh sì, perché se per controllare le donne è necessario silenziarle imponendo alla categoria il limite di 100 parole giornaliere a cui segue per ogni frazione decimane superata una scossa elettrica irradiata dal contatore, un braccialetto di vari colori e strass al polso (perché la donna è superficiale e guarda soltanto al brillantino e al colore), che si incrementa all’aumentare delle parole in eccesso proferite, adesso che la società ha assunto un nuovo volto, è necessario qualcosa di più forte e efficace. Da qui, il ruolo nuovamente necessario della protagonista, la Dott.ssa Jean McClennal specializzata nello studio delle neuropatie e in particolare massima esperta del progetto Wernicke.
«Puoi portare via molte cose a una persona: soldi, lavoro, stimoli intellettuali. Puoi anche portarle via la voce senza intaccare la sua essenza più profonda. Ma, se le impedisci di sentirsi parte di un gruppo, se le togli lo spirito di squadra, le cose cambiano» p. 47
Da questi brevi assunti ha inizio il romanzo distopico di Christina Dalcher, un testo in cui è chiara la volontà di denuncia all’ultimo governo americano, i cui riferimenti e spunti di riflessione sono molteplici. L’autrice nella sua narrazione cerca di evidenziare le varie contraddizioni di quello che sarebbe un sistema volto ad un ritorno indietro cercando, ancora, di porre l’accento sulla necessità di una concreta parità di diritti tra i due sessi. Il problema è che nello scorrere delle vicende tante sono le incongruenze e imprecisioni che deviano gli intenti e che non consentono al lettore di appassionarsi e riflettere, come dovrebbe, sul contenuto.
Perché se per una prima parte, un centocinquanta pagine circa, lo scopo dell’opera è chiaro e inequivocabile nonché ben strutturato, a partire dalla seconda parte lo sviluppo peggiora, perde quelle che erano le linee essenziali e diventa un mix tra un colpo di Stato alla Casa Bianca con un moto di ribellione verso il dogma religioso in un connubio di sequenze non chiare e sconclusionate. Da notare, infatti, è che tutta la denuncia attuata dalla scrittrice si basa, fonda e sostanzia proprio su quest’ultimo aspetto. La condizione femminile viene analizzata cioè esclusivamente a fronte di un ridondante e perenne estremismo religioso che non lascia spazio e possibilità di appello a tutti gli altri motivi che potrebbero invece fondare questa disparità. A questa prima nota debole si aggiunge una narrazione in prima persona che non caratterizza i personaggi, che nella fase d’azione è caotica e confusionaria e che negli altri passi dello scritto tende a ripetersi nei soliti concetti ripetuti e ripetuti e ripetuti ancora, lasciando tanti altri dettagli al caso e all’intuizione del lettore. Non stupitevi, dunque, se vi sembrerà di aver saltato un pezzo e se quindi vi verrà da tornare indietro per rileggere il periodo: non siete voi che non avete letto qualcosa, è l’autrice che o lo ha dato per scontato o semplicemente ha inserito un dettaglio che non trova fondamento e continuità con quello che stava trattando. Il risultato è che ci si chiede: ma cosa sta succedendo? Che succede?
A tutto ciò si aggiunge un finale poco esaustivo, frettoloso, che non centra il fulcro di quello che poteva essere l’epilogo, che lascia l’amaro in bocca, che non ha un perché logico.
Peccato, perché con uno sviluppo più curato e attento e con una minore fretta nella pubblicazione, “Vox” avrebbe avuto tutte le carte in regola per essere un libro da ricordare e con cui riflettere sulla realtà sociale che ci circonda.