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La stoffa del buon marito
Può succedere, anche se di rado, che un romanzo rifletta in modo distorto ma illuminante (un po’ come lo “spostamento” onirico di cui scriveva Freud) un periodo significativo della vita di chi l’ha scritto, gettando coni di luce premonitori e imbarazzanti sulle vicende vissute durante la stesura. Capita che il gioco di ritrovare le persone nei personaggi non sia del tutto sterile, soprattutto se oltre alle scelte pratiche e affettive dell’autore, nel gioco di specchi compaiono anche quelle stilistiche e narrative.
Il Nostro ha scritto questo romanzo con la precisa intenzione di abbandonare la fantascienza, genere considerato adeguato soltanto alla frivolezza degli adolescenti e a qualche adulto dai gusti eccentrici. Anche l’obiettivo da raggiungere era chiaro: entrare nel territorio più riconosciuto della narrativa generale. Contemporaneamente, aveva appena lasciato una giovane moglie per una donna più matura, un vedova con due bambine e un carattere tanto volitivo quanto inquietante, che presumibilmente lo aveva puntato, scelto e conquistato perché “aveva la stoffa del buon marito”; esattamente come uno dei protagonisti. Ed era tormentato da sensi di colpa e dubbi e paure; esattamente come uno dei protagonisti.
Nella vita, i dubbi si sono dimostrati profetici. Nella finzione, hanno prodotto una scrittura asciutta, che trascina e coinvolge e sconvolge per la crudezza con cui il Nostro mette in scena, utilizzando più voci narranti e quindi offrendoci una prospettiva molto ampia, i mostri umani e ideologici dell’epoca, i lati tragicomici degli stereotipi sessuali, i demoni che agitavano le coscienze di allora. E quelle di oggi.
Philip K. Dick tornerà presto alla fantascienza, che del resto rimane presente, travestita ma perfettamente riconoscibile, anche in questo splendido romanzo di narrativa generale, che profuma di noir.