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Distopia si, distopia no.
Inizierò dal giudizio conclusivo. Non mi è piaciuto. E cercherò di spiegarne i motivi, quanto più dettagliatamente possibile.
Se il cinquecento e il seicento videro la pubblicazione di opere quali Utopia (1518) di Thomas More, La città del Sole (1602) di Tommaso Campanella, o ancora New Atlantis (1623) di Francis Bacon, come risposta a quelle istanze e aspirazioni al cambiamento generate dalla crisi profonda della società medievale e dal declino del sistema feudale, opere che hanno rappresentato il sogno utopico della realizzazione di una società ideale, dove regni la pace e domini la cultura, il ventesimo e il ventunesimo secolo, al contrario, hanno visto e vedono tuttora la pubblicazione di romanzi che sono stati definiti distopici. Già questo dovrebbe farci riflettere. Ciò fa supporre, infatti, che nell’epoca in cui viviamo stiamo perdendo gradualmente la capacità di sognare o di prospettare un futuro migliore per le generazioni a venire. Tralasciando le opere di Huxley (Brave New World, 1932) e di Bradbury (Fahrenheit 451, 1953), il romanzo distopico più celebre è certamente quello che iniziò George Orwell nel 1948 e che fu poi pubblicato l’anno successivo con il titolo 1984, un’opera che nacque dalla consapevolezza di quella crisi dei valori del socialismo, tradito nella sua realizzazione nei paesi comunisti e fascisti. Scritto ardito per l’epoca ma scaturito dall’osservazione della realtà contemporanea. Una distopia, infatti, per quanto preconizzi un assetto politico e sociale immaginario, non prescinde dalla realtà da cui trae spunto.
È del 2015 il romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione, che ha fatto molto discutere, per il quadro allarmante che prospetta per la nostra società e per la cultura occidentale in declino, dominata ormai dal Partito della Fratellanza Musulmana. La lettura di questo romanzo, all’indomani degli attacchi a Parigi al giornale Charlie Hebdo e al Bataclan risulta di grande impatto emotivo. Dunque anche in questo caso la distopia fantapolitica trova le sue radici nella realtà della nostra epoca.
Veniamo ora al romanzo di Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella, riedito da Ponte alle grazie, dopo il successo della serie televisiva proposta da Hulu. Esaminiamo ciò che non convince in questa creazione distopica.
La storia è ambientata nella Repubblica di Galaad, che altro non è se non la trasformazione e la degenerazione degli Stati Uniti in una repubblica a regime totalitario, in cui le donne fertili sono diventate schiave allo scopo di procreare figli per coppie sterili, una sorta di contenitori da riempire per incrementare le nascite. La donna perde così ogni diritto fin qui acquisito, diviene uno strumento, tutto il suo passato e i suoi legami affettivi azzerati. Tutto ciò per rispondere alle esigenze di questo stato totalitario e oltretutto teocratico.
Il paradosso, che pure è alla base di tutte le opere fin qui citate, non ha in questo caso un fondamento giustificato. Se nel caso di Orwell e di Houellebecq la distopia trae origine da una situazione politica e sociale che ha un fondamento nella storia recente, come si può preconizzare una riduzione a tale schiavitù del genere femminile in un paese in cui esso ha lottato per raggiungere un livello di emancipazione avanzato seppure non perfetto? Siamo consapevoli del fatto che un deprecabile sessismo strisciante si sia impadronito di alcuni ambienti e sia dilagato trasversalmente nella stessa società americana, eppure una situazione quale quella immaginata nel romanzo della Atwood sarebbe impensabile in qualsiasi paese occidentale, che ha combattuto per i diritti civili, per la parità di genere, per il testamento biologico o le unioni civili, un paese in cui si può liberamente parlare di fecondazione assistita e utero in affitto. Che in molti paesi la donna viva in una realtà che la rende schiava e la priva di ogni diritto civile, una realtà che la usa e ne abusa, che la condanna persino alla lapidazione in caso di adulterio, è cosa tristemente nota, ma ipotizzare uno scenario simile in un futuro prossimo in un qualsiasi paese occidentale, priva, a mio avviso, la distopia di quella caratteristica indispensabile alla sua “credibilità” e cioè del riferimento ad una situazione sociale e politica davvero profondamente allarmante.
In quarta di copertina del libro della Atwood si legge una nota tratta da Vanity Fair: “Molti sostengono che sia una lettura di vitale importanza nell’era di Trump, forse anche più preveggente e forte di 1984.” Ora se è pur vero che abbiamo ascoltato inorriditi gli apprezzamenti dell’attuale Presidente americano riguardanti il genere femminile, ricordiamoci però che la ribellione e la protesta si è fatta sentire poco dopo con la denuncia dello scandalo Weinstein.
Ecco perché giudico l’opera della Atwood una distopia totalmente avulsa dal contesto sociale e politico attuale. Perché la distopia deve avere radici nella realtà, a meno che non se ne faccia una satira politica come nel caso della Modesta Proposta di Swift, anche se pure in quel caso non si può ignorare il retroterra politico e sociale dal quale l’autore aveva tratto spunto.
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Commenti
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Elena
Il genere della fantascienza è, proprio per quello che dicevamo, secondo me, molto bello ma difficile; non riesco a trovare un romanzo che mi convinca del tutto.
Se ne conoscete, segnalatemeli!
A presto, amici lettori
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grazie Anna Maria