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Un alieno un po' Icaro, un po' Tremotino
Vi sono alcuni scrittori talmente votati alla storia che raccontano da sparirvi completamente. Il lettore penserà alla storia e a questa soltanto. Lo scrittore per lui sarà l'autore, ma non l'uomo.
Altri scrittori, in uno slancio profondo di altruismo verso il lettore, si lasciano percepire parola dopo parola, pagina dopo pagina. Questi sono gli scrittori "empatici", quelli che non riescono a lasciare il lettore solo con la storia che raccontano, quelli che stabiliscono il contatto, la magica alchimia dell'affezione che lega il lettore allo scrittore, oltre che alla storia.
Walter Tevis è uno scrittore "empatico", entra nei libri che scrive, mostra attraverso le parole, senza ingombranti velature, ciò che è.
Userò pochissime righe per riportarvi una storia che può dare l'idea della personalità di Tevis. L'episodio è notissimo, viene citato migliaia di volte: Walter Stone Tevis se ne sta seduto, col capo inclinato, il sorriso gentile e grandi occhiali dalle lenti spesse - così, almeno, lo immagino guardando le raffigurazioni del suo volto -, come uno studente qualsiasi, in una classe di un corso universitario per aspiranti scrittori, l'Iowa Writers' Workshop.
L'oratore, il poeta americano Donald Justice, lo riconosce tra gli uditori e strabuzza gli occhi: grande probabilmente è la sua meraviglia nel constatare che il grande e già noto Tevis è lì, umile, in silenzio, ad ascoltare la sua lezione.
Tevis, che per gran parte della sua vita ebbe poca fiducia nel proprio talento, con "L'uomo che cadde sulla Terra" crea un capolavoro in cui si leggono solitudine, frustrazione, gracilità e incertezza di illusioni perdute.
"The Man Who Fell to Earth" è considerato un libro cult della letteratura di fantascienza, una mosca bianca che imperturbabilmente ha resistito alle ingiurie del tempo. Non è ridicolo, non è banale, non è obsoleto, è anzi straordinariamente irresistibile.
Non è però, stricto sensu, un libro di fantascienza, o meglio lo è se ci si ferma ad un'osservazione meramente superficiale. Squarciato l'involucro costituito da pianeti, navicelle e vitree comunicazioni aliene, si rinvengono i tratti di un romanzo anche psicologico, per alcuni versi politico, per altri dolorosamente esistenziale. Saranno difatti così fragili, disperate e a volte contorte le interiorità dei personaggi che, ad ogni loro incespicare nei fatti della vita, il lettore avrà la sensazione di un sordo dolore nel petto.
Thomas Jerome Newton – immediato è il rimando al noto Isaac e alla sua celebre mela - è l'"Uomo" che dopo un'accurata e lunga preparazione lascia, a bordo di una navicella monoposto, il proprio pianeta Anthea e "cade" sulla Terra per compiere, come un novello eroe mitologico, la sua missione.
Newton è un individuo strambo, dall'ossatura fragile, alto e leggero, che soffre tremendamente della gravità terrestre, simile nel corpo ad un delicatissimo uccellino e due volte più intelligente degli umani che spesso definisce simili a scimmie bugiarde, autolesioniste, presuntuose e stupide. Nondimeno, col tempo proverà per alcuni di loro un senso di affezione e sentirà che gli sono tremendamente somiglianti: "E io cosa sono, pensò, se non un pauroso edonista autolesionista?"
La parabola dell'Icaro alieno – umano, troppo umano, per dirla alla Nietzsche - che annega la propria tremenda solitudine di uomo/extraterrestre in una miserabile mistura di gin e angostura, forse ormai rassegnato ad una "vita di quieta disperazione", è struggente, emozionante, empatica.
Un giorno di se stesso Tevis disse: "sono un bravo scrittore americano di secondo livello". Fortunatamente il suo stesso oggettivo, incommensurabile talento e il tempo hanno smentito quest'affermazione, sigillo di una dolorosa, tormentata, straordinaria umiltà.
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Un saluto :-) e grazie ancora...
La voglite e' virale.
Ciao Gracy!!! :-)
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