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Genio e "regolatezza"
Stoicismo è la prima parola che viene in mente pensando a La Svastica sul Sole, tuttavia questa parola non è legata al romanzo in sè; anche se a ben vedere la popolazione americana che nel mondo di Dick ha perso la seconda guerra mondiale e deve vedersela quotidianamente con le leggi dei nazisti e la mentalità dei giapponesi potrebbe essere a ben ragione definita stoica; tuttavia no, la parola non è strettamente legata ai contenuti del romanzo, ma ai lettori: "stoicismo" definisce quale dev'essere la principale qualità delle persone che vogliono affrontare questa lettura.
La Svastica sul Sole (titolo italiano per altro fuorviante, la cui scelta è difficilmente spiegabile se non per banali ragioni commerciali) non è il "solito" romanzo alla Dick dalle crepuscolari e futuristiche prospettive che si intrecciano a creare una storia in cui il malessere di un' uomo è il malessere della società, al contrario è un libro impegnato, difficile da seguire per i continui cambi di inquadratura, e che fa dell'elemento fantastico solo un pretesto per elaborare una complessa disamina degli eventi storico - politici immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale.
Ed è talmente complessa (per non dire confusa e cervellotica) questa disamina che i rimandi, i paralleli, i riferimenti con la situazione politica internazionale dell'epoca, non si colgono (salvo i più ovvi e grossolani) e il lettore comune, il lettore che è dotato sì di cultura e conoscienze storiche ma per ovvi motivi non ha le competenze di uno che ha fatto della storia la sua professione, rimane obnubilato dalla baraonda di informazioni, dettagli e curiosità gettate qua e la dall'autore lungo tutta la narrazione.
Lo stratagemma utilizzato in verità e' brillante: creare una realtà parallela, specchio della nostra, in cui la vita e tutto ciò che la contorna è simile a come noi già la conosciamo ma con il piccolo particolare che è all'esatto opposto e, grazie a questo paradosso speculare, raccontarci cosa è successo nell'immediato dopo guerra, o per meglio dire: denunciare i tanti vizi e le pochè virtù di cui si è resa capace l'umanità in quel periodo. L'idea dunque è assolutamente ingegnosa, ma se il suo potere, l'iniziale effetto sorpresa, viene speso subito e in malo modo (troppi personaggi in così poche pagine e neanche un vero protagonista) dopo poco ci si rende conto che senza una trama adeguatamente profonda la sorpresa di per sé non è sufficiente a supportare l'interesse del lettore fino alla fine. Lettore che tra l'altro, è bene sottolinearlo ancora una volta, trovandosi di fronte ad un costante spostamento delle luci di scena, non riesce mai ad entrare nella trama, a sentire suoi i problemi dei personaggi e a condividere le emozioni e i pensieri dei tanti protagonisti.
Certo la scelta di Dick di non darci un punto fisso e' più che spiegabile, infatti il suo intento non era certamente quello di raccontarci una storia qualunque, il suo intento era quello di farci comprendere che non sempre tutto ciò che "noi vincitori" abbiamo fatto, facciamo e faremo (vuoi in quella guerra, vuoi nelle future) è corretto ed equo agli occhi della giustizia universale, che non sempre quel "bene comune" per il quale noi crediamo di agire è realmente tale, poichè molte volte non è nient'altro che un diritto acquisito con le armi; questo era il suo intento, e dunque la sua scelta è più che spiegabile ma, come è vero che il fine non sempre giustifica i mezzi, così talvolta è vero anche che i mezzi non sempre giustificano il fine. E in questo caso i mezzi utilizzati dall'autore per buona parte della narrazione non sono per nulla adeguati allo scopo, anzi: il romanzo, senza una trama solida e dei personaggi ben delineati ottiene quasi l'effetto opposto, tanto che leggendolo si rischia di iniziare a non sopportare più questa assurda realtà parallela fatta di tedeschi boriosi e giapponesi incomprensibili e a cadere nuovamente nell'errore la cui correzione era appunto il fine ultimo di Dick, nel tornare cioè per esasperazione a ritenere la società da noi creata quella giusta, quella migliore e dunque quella superiore.
E per evitare ciò si è costretti tenere sempre a mente che il romanzo è solo un' allegoria, una sorta di dimostrazione per assurdo di un concetto, si è costretti a stringere i denti e a ragionare costantemente senza mai riuscire a perdersi nella trama, ad accettare, digerire ed assimilare quell'assurdo mondo ribaltato di Dick.
"Stoicismo" dunque e' ciò che viene da pensare ricordando le sensazioni durante la lettura. Stoicismo. Almeno fino ai capitoli conclusivi, almeno fino alle ultime venti/trenta pagine del romanzo, venti/trenta pagine in cui finalmente si riaccende la luce della viva genialità dell'autore e in un rutilante crescendo si tirano le somme di tutta la vicenda. Venti trenta pagine di grandissima letteratura che si chiudono con lo stupendo discorso - presa di coscienza dell' "Uomo nell' alto castello" (da cui il titolo originale dell' opera), di colui ovvero che, parallelamente a Dick, in una realtà agli opposti, è riuscito a concepire una dimensione differente, a riconoscersi in essa e a negare la sua attuale; tale uomo (scusate se non aggiungo altro e vi sembro poco chiaro ma non voglio rischiare di rovinare il finale) è l'incarnazione della speranza, della via d'uscita, e se ciò che dice è verò è anche il mezzo di redenzione dell'umanità, e nel gran finale fa questo discorso, autentico, disincantato, toccante, un discorso che ribalta nuovamente la prospettiva delle cose, un discorso talmente potente che sembra animarsi di vita propria e sfuggire di mano tanto al suo autore fittizio che al suo autore reale, un discorso dove Dick stesso, travolto dalle sue idee, dal suo mondo, smette di essere il narratore e diventa un oratore e per mano dell'autore fittizio (suo alter ego all'opposto) buca la quarta dimensione, come solo Chaplin nel Grande Dittatore era riuscito a fare, e ci parla fissandoci direttamente negli occhi.
E se le parole di Chaplin, sono un dura accusa della società ma al contempo anche un’ esortazione al bene che denota un'incrollabile e commovente fiducia nel genere umano, le parole di Philip K. Dick sono quanto di più pessimistico, sconfitto e triste vi possa essere. Sono la definitiva condanna del genere umano, che nella sua visione è la causa di ogni male e dal male, come si sa, non può generare altro che ulteriore male. E se Chaplin con impeto lascia spazio alla speranza, nobilitando l’uomo per il fatto stesso di aver potuto dare alla luce qualcuno in grado di pensare, scrivere e dire quelle parole, Dick con disincanto sfonda quello spazio marcandolo come l'assurda illusione di una razza, quella dell'uomo, che non potrà mai trovare la pace, neppure nell’illusione di una coscienza generata dagli psicofarmaci, dall’alcool e dalle droghe.
Due discorsi all'opposto, dunque, come le realtà del romanzo, il primo, quello del Grande Dittatore, puro, ingenuo, magnifico, il secondo, quello della Svastica sul Sole, sporco, disincantato, terribile. Forse non a caso entrambe le opere, il film e il romanzo, sono strettamente legate alla seconda guerra mondiale, il punto più basso che ha raggiunto l'umanità' nella sua storia...
Entrambe vertono su quella, ma è la chiave di lettura ad essere differente: nel film la guerra rappresenta l’opportunità della ripartenza, la base della montagna dalla quale l'umanità deve incominciare la sua risalita per raggiungere la vetta e riscattarsi; nel libro invece rappresenta la causa, la logica conseguenza di quello che siamo, l’arrivo, la vetta da cui l'umanità' può soltanto precipitare.
Sta ad ognuno scegliere come vederla, quale di queste due visioni all'opposto fare propria, è bene però notare che se il discorso della scena finale del Grande Dittatore è considerato da chiunque come ispirato, magnifico e genuinamente meraviglioso, quello di Dick essendo all'esatto opposto non può essere considerato in altro modo se non altrettanto ispirato, tremendo e genuinamente orrendo.
Dunque uno magnifico e meraviglioso e l'altro tremendo e orrendo, ma entrambi ispirati e genuini. Entrambi a loro modo geniali, come geniali le menti di coloro che li hanno creati, la prima quella del grande attore/regista, la seconda quella del grande scrittore, che qui ancora una volta, malgrado l'effetto sorpresa sprecato fin da subito, malgrado l'eccessiva cerebralità di molti dei passaggi lungo la narrazione, nel finale si riscatta e ci consegna quelle che probabilmente sono le più belle pagine di tutta la produzione letteraria degli ultimi cinquant’anni.
Ad avere una visione poetica delle cose verrebbe da pensare che gli alti e bassi di questo libro siano nient'altro che gli alti e bassi della società moderna, degli istinti dell'uomo in eterno conflitto tra bene e male, tra vizi e virtù e che il riscatto finale dell' autore non sia altro che il riscatto finale dell'umanità' ...ma questa sarebbe la visione poetica di Chaplin, non quella disincantata di Philip K. Dick.
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Commenti
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Labirinto di morte non l'ho letto, colmerò la lacuna! Di quelli che ho letto ti consiglio sicuramente Illusione di potere, geniale come sempre e lo stile ( che forse è l'unico punto debole di dick) è molto valido. Mi dicono anche Ubik, però è un altro che non ho letto.
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Commento molto, molto interessante...come sempre...
Un saluto, Daniela