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Profondo ma...
Allucinato viaggio di denuncia nei (e dei) disturbi della mente umana quali diretta conseguenza dell'emarginazione sociale. La psicosi, la schizofrenia e perfino l'autismo nel libro di Dick vengono trattati alla stregua di un naturale decorso della separazione dell'individuo dalla normalità istituzionale. E' la società stessa del futuro, in cui vivono i protagonisti malati, che compie questo processo distintivo tra ciò che aprioristicamente viene definito normale e ciò che viene schedato come anormale; un processo, questo, crudele e discriminante ma indispensabile per garantire la funzionalità e con essa la sopravvivenza di quell'organismo collettivo e quasi vitale che si riunisce sotto la sigla dell'ONU. Onu o società globale alla ricerca essa stessa di un identità solida e al contempo di una via di fuga dove emarginare gli "anormali" così da contemplarli da debita distanza per non sentire il peso e la forza della loro autenticità. Contemplarli distaccatamente e in questo modo racchiuderli e ri-catalogarli nuovamente dentro le fila di un tessuto che comprende sì la diversità, ma esclusivamente come malattia epidemica da debellare.
Questa è la premessa, poi l'autore si addentra nei disturbi del singolo e pian piano ci fa conoscere la loro realtà e finalmente si compie la svolta: ma saranno loro gli anormali o è il resto della società? Di sicuro gli individui nella società sembrano più solidi, con valori più definiti, puri se si vuole… ma saranno ancora così umani nella loro pura perfezione? Dunque ben vengano gli psicotici, gli autistici e i malati poiché nella loro debolezza forse è la vera natura dell'uomo, nella loro allucinazione l'autentica realtà.
E' il singolo contro il complessivo e Marte non rappresenta la soluzione a questa dicotomia, anzi ne è l'estremizzazione: in condizioni estreme spesso si è portati all'estremo e così, lì, accade con pericolose spedizioni di conquista, il mercato nero per beni alimentari, le lobby spregiudicate per accaparrarsi la fornitura dei servizi di prima necessità, le istituzioni robotizzate insegnanti e disumanizzanti, le dittature sindacali ecc. ecc.
In una simile società l’individuo ha paura del contatto umano, si auto emargina nella propria solitudine facendosi addirittura scudo con le figure degli psicologi che Dick immagina come veri e propri sciacalli che, invece di guarire i disturbi dei malati, trovano molto più semplice e remunerativo farsi carico delle loro incombenze sostituendoli fisicamente ad ogni occasione.
È questo quello a cui andiamo incontro? È questo misero destino da auto-ghettizzati che ci riserva il futuro se non cambiamo il nostro modo di vivere? Il futuro della società umana è l’auto distruzione? Sono queste le domande che infondo si pone Philip K. Dick.
C’è una qualche soluzione per evitare tutto ciò? Per prevenire questo problema?
Sì, e la risposta è un bambino autistico, un essere debole, antiteticamente contrapposto all’ingombrante solidità di tutti gli altri. Un bambino piccolo che, solo, ha la precognizione, la visione del futuro, o forse nella sua immacolata ingenuità la conoscenza e l’esperienza per capire le conseguenze della corruzione di quel mondo. Come ogni moderno profeta di sventura però quel bambino non viene ascoltato, anzi viene classificato come malato, matto, indesiderato e per questo emarginato. Fino all’ultimo, fino a quando qualcuno comprende il suo potere, ma ancora una volta quel qualcuno non sfrutta la sua verità per salvare Marte, ma per fare i propri interessi riallineandosi perfettamente a quelli che sono i principi sociali, tanto che alla fine il bambino profeta compie l’atto estremo: si auto emargina volontariamente da tutto ciò che lo circonda ritrovando una nuova identità in un gruppo di individui separati, primitivi, per questo estranei a quella irrefrenabile corsa verso l’autodistruzione e per questo umanamente autentici.
E gli altri? Quelli che assistono a tutto ciò? Non possono farci nulla: pur facendone parte è un processo molto più grande di loro, pur avendo la consapevolezza di quel che gli riserva il futuro non hanno via di scampo e non ci tengono ad averla, continuano a vivere normalmente, trovandosi molto più a loro agio nel loro preconfezionato loculo globale.
Letto in questo modo poco importa dove sia temporalmente e geograficamente ambientato il romanzo. Nel futuro su Marte, ma per la linearità della trama poteva anche essere l’ ‘800 nel Far West, anzi per certi aspetti si capisce che l’autore ha risentito del filone narrativo – cinematografico in voga all’epoca: la conquista delle nuove terre, la società violenta, fino all’immancabile duello finale a colpi di rivoltella. In fondo è naturale che sia così: il Far West per la società dell’ '800 rappresentava una terra di conquista, l’ultima frontiera; per la società moderna l’ultima frontiera è lo spazio, Marte. Ma come si diceva poco importa, poiché tutto in realtà è una metafora di quelle che sono le preoccupazioni dell’uomo, di quelli che sono i problemi verso cui, secondo l’autore, stiamo andando incontro di nostra spontanea (e stupida) volontà.
Dunque un Philip K. Dick come sempre illuminato e quanto mai “piacevolmente” pessimistico e catastrofista?
No, inutile girarci attorno, questo romanzo per quanto affascinante è inferiore agli altri e il problema sta nello stile di Dick, nel suo metodo di scrittura, che qui più del solito è troppo asciutto, troppo conciso e piatto. Se per certe opere la concisione quasi schematica può essere un pregio (vedasi per esempio le recensioni… ehm!), quando si parla di romanzi è quasi sempre un difetto: il lettore non riesce a farsi prendere dalla trama, rimane freddo e distaccato e la storia stessa perde la sua potenza.
Ma e i contenuti, le metafore, la visione del mondo crepuscolare e disincantata?
Ci sono tutti, sono intuibili e piacevoli, ma ancora una volta, come la rotella allentata di un ingranaggio altrimenti perfetto rischia di compromettere l’intero macchinario, lo stile troppo distaccato dell’autore fa rimettere in discussione tutto quanto e fa riflettere sul fatto che quando si legge su questo piano un libro (o meglio quando lo si vuole leggere per forza su questo piano) al momento di commentarlo c’è sempre il rischio di mettere in bocca all’autore parole che in realtà non sono le sue, di interpretare e quindi riportare pensieri che magari non avevano minimamente sfiorato colui che ha scritto l’opera, e in questo modo ingigantirne i pregi e minimizzarne i difetti, cercare infine la profondità la dove in realtà non c’è ne più ne meno che un banale gioco di specchi.
Ma allora la società corrotta, il futuro segnato dagli sbagli dei contemporanei, il male dell’individuo come causa del malessere sociale e viceversa?
Vero, d’accordo, c’è tutto questo e anche altro, ma l’irreparabile distacco che si crea nel lettore per colpa della narrazione troppo affrettata è più potente, più forte, e per quanto la logica (o è il sentimento?) ci ricordi che stiamo parlando di una delle più fervide menti degli ultimi cinquant’anni, il dubbio di trovarsi al cospetto di una ben collaudata accozzaglia di fatti legati da uno stiracchiato nesso sociale, qui purtroppo rimane.
Peccato, veramente peccato.
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