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Zero history
 
Zero history 2012-10-24 11:12:28 Amarilli73
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
Amarilli73 Opinione inserita da Amarilli73    24 Ottobre, 2012
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Alla ricerca delle architetture nascoste del mondo

Anche se si inserisce nel cosiddetto Ciclo di Bigend, a mio parere questo romanzo può essere tranquillamente letto come opera autonoma. Ambientato nel futuro prossimo (cioè appena qualche anno più avanti rispetto al nostro decennio), riprende uno dei temi più cari di Gibson, ovvero la rappresentazione di una realtà straniata/straniante, dove la tecnologia che anche noi possediamo (in primis, l’i-phone, che tutti i personaggi possiedono ed usano in modo continuo ed ossessivo, o la dipendenza da Twitter, o ancora l’onnipresenza delle telecamere e dei rilevatori GPS) si è fatta padrona e predomina, finendo per ammorbare e annichilire i rapporti sociali, i gusti della collettività, lo sviluppo dell’economia, persino il singolo sentimento, un tempo prerogativa dell’essere umano.

Rispetto ad altre opere precedenti (come Neuromante o Luce Virtuale ), direi che qui Gibson si è fatto un po’ prendere la mano dalla sua analisi socio-tecnologica e dal desiderio di preconizzare e portare all’estremo le tendenze del nostro tempo, a discapito della trama generale (tanto che, come thriller distopico, risulta invero assai deboluccio, sia in termini di suspense, sia per un finale buonista che non è assolutamente alla sua altezza).
Hollis Henry, ex-cantante che ha perso gran parte dei propri risparmi nella crisi dei mercati finanziari, e Milgrim, crittologo e reduce da una clinica dove lo hanno disintossicato e resettato (per cui non ricorda più nulla dei suoi ultimi dieci anni di vita), vengono assoldati dal miliardario belga Hubertus Bigen (uno dei personaggi più inquietanti e più riusciti di Gibson: “uno troppo ricco, uno che flirtava pericolosamente con le architetture nascoste del mondo”), per aiutarlo nel recupero e nella conquista di un marchio “nascosto”, ovvero di una moda capace di condizionare e modificare i gusti della società, senza che la società neppure se ne accorga.
In questa missione i due verranno aiutati da Heidi, un’altra ex-rockstar, da Garreth, l’ex-ragazzo di Holly, artista che si esprime attraverso performance di base-jumping (ovvero lanciandosi dai grattacieli più altri del mondo, travestito da scoiattolo), nonché da una girandola di personaggi più che improbabili (tra tutti Fiona, la ragazza-corriere che riprende un altro tema caro a Gibson, e già apparso in Luce Virtuale).

Tra “Coolhunter” (i segugi dei nostri gusti collettivi) e “Ghostbrander” (i ricercatori che scovano i marchi inattivi, che sono però talmente parte del nostro passato da essere capaci di avere ancora una visibilità iconica o una narratività vitale), i nostri dovranno vedersela con il mondo della pubblicità e della moda, dove nulla viene lasciato al caso.

E qui viene fuori l’aspetto migliore di Gibson, la sua acutezza nell’analizzare criticamente gli aspetti più oscuri delle strategie di mercato (ad esempio, nel lancio di un nuovo marchio, basato non più sulla visibilità estrema, ma piuttosto sulla segretezza estrema, tramite la diffusione “limited editon” di pochi capi, in luoghi esclusivi, e per un target di clienti a sua volta rigidamente selezionato).

Lo stile visionario e confuso di Gibson, all’inizio può risultare lievemente urticante, ma poi ti avvolge, ti conquista. Certe descrizioni minuziose dei materiali, dei suoni, degli odori, scomposti in uno straordinario elogio del particolare (come l’arredamento di una singola stanza d’albergo, le suppellettili conservate in una teca, la forma e i colori delle cromature dei sanitari di un bagno, o ancora i graffi sul casco di un motocilista che sfreccia nel traffico di Londra, o ancora l’architettura degli edifici: “un caseggiato del XVIII secolo, la cui facciata ricordava l’espressione di qualcuno sul punto di addormentarsi in metropolitana”) mi hanno lasciato estasiata, a volte ricordandomi certe descrizioni puntigliose dei vasi di fiori di proustiana memoria.

Una sorta di Proust del XXI secolo, dunque? In realtà, questo paragone non è poi così azzardato, ed anche Gibson deve esserne consapevole, perché non si lascia sfuggire l’occasione per mettere in bocca a Milgrim proprio una citazione divertita sulla “petite madeleine” inzuppata nel thè…

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La tecnologia è bella finchè è utile, ma quando non lo è il legame morboso che crea con l'utente è qualcosa di simile ad una tossicodipendenza.... Spero in un futuro diverso!!
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