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Juggernaut. Terminal war
 
Juggernaut. Terminal war 2015-03-11 18:23:58 catcarlo
Voto medio 
 
2.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
1.0
Piacevolezza 
 
2.0
catcarlo Opinione inserita da catcarlo    11 Marzo, 2015
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Così così

Quandoque bonus dormitat Homerus. L’uomo che ha raccontato l’apocalisse nella Germania del Seicento, nelle Highlands scozzesi o ancora sulla disperata isola di Katawan con un’efficacia che ha pochi eguali inciampa proprio sul più bello, cioè quando l’ambientazione fantascientifica dovrebbe consentirgli di sbrigliare la fantasia per scendere ancor più a fondo negli abissi dell’umanità. Chissà, forse erano proprio i limiti dati dalla Guerra dei Trent’anni e dal groviglio spionistico nella seconda metà del Novecento a rendere così potenti le immagini degli altri romanzi: i tratti distintivi sono tutti al loro posto anche qui, ma l’arma – anche se state-of-the-art prodotta dalla Gottschalk-Yutani – fa a sorpresa cilecca. La Terra su cui è ambientato ‘Juggernaut’ fa sembrare quella de ‘La strada’ quasi un paradiso: guerre, contaminazioni e una pestilenza epocale l’hanno ridotta in un postaccio dove piove sempre (come in Turingia) e la società è divisa tra riccastri e miserabili. Nell’eterno monsone si muove una serie di personaggi con una percentuale molto alta di disperazione e/o di follia germinate tanto per cause interiori quanto a causa di agenti chimici esterni: l’avidità (di denaro o di potere) è sempre il motore principale e il destino dei più deboli è quello di finire schiacciati. Altieri affronta queste tematiche, a lui così congeniali, con la consueta lingua stilizzatissima e tagliente, ancor più scarnificata rispetto alle sue opere precedenti: il ritmo è martellante nel suo incedere per frasi brevi che, nella loro semplicità, nascondono spesso mondi oscuri. D’ogni tanto si rifiata con gli estratti enciclopedici che consentono di fissare le coordinate del nuovo mondo (come nell’asimoviano ciclo della Fondazione), ma sono soli brevi momenti in ogni caso assai poco rilassanti: la somma di tutti i fattori crea un ambiente claustrofobico che calza a pennello a quella che pare la madre di ogni distopia. Di quando in quando spunta così la sensazione che ad avere la meglio sia la maniera (il barocco e Altieri sono meno lontani di quanto si possa immaginare), ma non è questo il problema: il guaio vero è che la storia non decolla mai, con gli effetti speciali (anche linguistici) che ricoprono una trama, esile eppur contorta, incapace di guizzi appassionanti. Riassumendo, il romanzo racconta la scelta di chi mandare in missione nello spazio tra due professionisti delle operazioni sporche: l’irregolare, drogato Skinner – una versione futuribile del Tuco protagonista in ‘Il buono, il brutto, il cattivo’ – e l’ascetico Karl Dekker, che riprende molte caratteristiche dal ciclo di Russell Kane e, soprattutto, da quello di Magdeburg (si vedano il nome, l’armamento nonché la tendenza a parlare per frasi allo stesso tempo apodittiche e imperscrutabili). Tra depravati satrapi orientali e fanatici religiosi, a tirare le fila della faccenda è la Gottschalk e un po’ dispiace che la corporation scenda in campo in prima persona invece di rimanere sullo sfondo a metà strada tra Spectre e Acme. Quando, dopo il consueto macello al sangue modello Tarantino incattivito, la scelta è fatta così che la missione Magellan può partire, ci manca poco che compaia la scritta ‘Continua…’ per rimandare il lettore al secondo volume in uscita a giugno 2015: un seguito che si spera torni all’altezza della bravura del suo autore, visti anche gli ultimi capitoli più a fuoco di questo non certo trascendentale romanzo.

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