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L’apoteosi della fantasia
Ricordo che, nel corso di un mio viaggio in Puglia svoltosi alcuni anni fa, ebbi l’occasione di visitare il famoso Castel del Monte. Vi arrivai che il sole iniziava a tramontare, con un cielo carico di nubi plumbee, che di li a poco si sarebbero accumulate in uno strato uniforme, dando inizio a un temporale, con saette che sembravano scaricarsi sulle mura del maniero. L’atmosfera, intrisa di elettricità, l’oscurità quasi improvvisa mi sembrarono più proprie di un vecchio castello inglese o tedesco, abitualmente frequentato da fantasmi.
Per fortuna, a fugare ogni mio timore non ero l’unico visitatore, ma ve n’erano altri, anche se pochi, tutti intenti a rimirare l’interno di una fortezza assai più appagante vista dal di fuori. Mi sorse subito una domanda: che scopo aveva quella costruzione in cima al colle? Aveva una funzione strategica? No, di certo, perché non arroccava su strade di accesso alla Puglia uniche o di vitale importanza. Era forse una dimora gentilizia, base per battute di caccia? No, troppo spoglia e, soprattutto, eccessivamente protetta da possenti mura, anche se non cinta da un fossato. Era eventualmente una prigione? Forse, ma per rinchiudervi ben pochi detenuti, vista la limitata e inadeguata superficie coperta. E poi perché quella ricorrenza del numero otto? La pianta ottagonale e le otto torrette, pure loro ottagonali, sono insomma un richiamo continuo a quella figura geometrica intermedia fra il quadrato e il cerchio, vale a dire fra la terra e il cielo.
Ho pensato allora, da profano, che l’edificio potesse avere una funzione religiosa, insomma potesse considerarsi una sorta di tempio ibrido fra paganesimo e cristianesimo. Del resto il castello fu costruito dietro preciso ordine di Federico II Hohenstaufen, una figura quasi leggendaria, già mitizzato nella sua epoca (XIII secolo), al punto che, vox populi, si divulgava la profezia che dopo la sua morte sarebbe ritornato nelle sue terre trascorsi mille anni.
Le stranezze del castello, quest’alone mitologico che ha sempre avvolto Federico II devono avere interessato e affascinato in modo particolare Donato Altomare, tanto da indurlo a scrivere un romanzo di genere fantastico, con la vicenda che appunto si svolge in due epoche distinte, il XIII e il XXI secolo.
Premetto che la realtà storica costituisce solo la base di partenza, sulla quale l’autore pugliese costruisce pure lui un castello, in un intreccio di passato e futuro, con ammiccamenti al presente attuale, che, anziché stancare, come spesso accade quando si alternano epoche diverse, è una delle chiavi di valore di quest’opera, una vera e propria apoteosi della fantasia.
Per rispetto nei confronti del lettore e anche perché un pur sintetico sunto risulterebbe estremamente difficile mi limito pertanto a evidenziare i tanti meriti di questo romanzo, fra i quali di sicuro rilievo vi è la capacità di avvincere con invenzioni creative che non capitano a caso, ma si inseriscono perfettamente nella struttura narrativa. Le pagine scorrono veloci, grazie all’italiano fluente e di uso corrente, tranne forse nelle digressioni di carattere architettonico e musicale, comunque sempre comprensibili pur nella loro complessità. Né mancano riflessioni pertinenti, ma di logica corrente, su tematiche come la religione e le guerre per la religione (vedasi il colloquio fra Federico II e l’emiro Fakhr al-din ibn ash-Shaikh), oppure osservazioni sul potere temporale della chiesa, che non potevano non essere presenti, dato il carattere dell’Imperatore, non certo ateo, ma comunque anticlericale.
Ho parlato prima di apoteosi della fantasia e questo termine mi sembra particolarmente appropriato, perché Donato Altomare, nello scrivere Sinfonia per l’imperatore, ha anche composto una sinfonia della fantasia, con idee e intuizioni che arrivano continuamente, tanto da farmi pensare che di materiale a disposizione ce n’era per scrivere certamente più di un romanzo.
Ma quel che più conta è che l’abbuffata non satura, non sazia l’appetito del lettore, che anzi si trova naturalmente disposto a chiedere ancora di più, senza che per questo si corra il rischio di essere infastiditi, perché appunto tutto rientra in un equilibrio armonico che, in alcuni passi, mostra pure accenni poetici.
Duecentoottantotto pagine non sono poche, ma se non si legge tutto d’un fiato poco ci manca ed è i con sensi tesi al massimo che si arriva alla fine, a una naturale e positiva conclusione che, forse, lascia aperto lo spiraglio per un auspicato seguito.
Da leggere, non ve ne pentirete, perché questo romanzo, altamente avvincente, è veramente splendido.