Viaggio al termine della notte Viaggio al termine della notte

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    01 Aprile, 2024
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Capolavoro a metà

Non avevo conoscenza di questo romanzo, fin quando ho letto recensioni un po ovunque che ne esaltavano il contenuto e la forza espressiva.
A mio parere la prima metà del libro è effettivamente di una grande potenza ed espressività narrativa.
Si procede a strappi, con momenti di profonda scrittura ad altri astratti e non facilmente comprensibili. Come se lo scrittore volesse portare il lettore nella sua disperazione e poi all'improvviso abbia il desiderio di rendergli difficoltoso saper leggere nel suo pensiero.
La parte relativa alla guerra è cupa e disperata, cinica e tremendamente veritiera.
Non ci sono eroi, ma esseri disperati immersi nel frullatore umano creato dalla sete di potere di potenti e alti in grado.
Il racconto quando si trasferisce in Africa, assomiglia molto al "Cuore di Tenebra" di Conrad, con una terra ostile, spietata e un sole implacabile che porta alla follia.
A NY si evince la denuncia sociale di Celine nei confronti dell'uomo merce umana, fantasma nella immensa città, dove il destino delle persone è completamente insignificante per il prossimo.
Dove si fa un passo sul marciapiedi e si viene travolti dalla moltitudine che cancella le individualità e spietatamente crea un flusso ininterrotto di uomo-merce, buono solo per consumare, produrre e poi crepare (possibilmente con qualche denaro in tasca, poichè sennò il destino sarà atroce).

Nella seconda parte, il nostro eroe, torna in una Parigi completamente indifferente ai suoi eroi che hanno dato vita e ragione nel confitto.
Le classi sociali alte vivono la propria esistenza nel centro scintillante della ville lumiere, mentre una sterminata, puzzolente, pezzente, ignorante, incattivata popolazione trascorre vite torbide, meschine, disperate e sull'orlo della follia in zone periferiche, dove il protagonista, ora medico cerca di tirare avanti sopportando la tirannia di chi sfrutta le sue conoscenze e non vuol pagarlo.
Ecco in questa parte finale che si palesa la debolezza del racconto. Come se l'autore cercasse di allungare un po il brodo, aumentare il volume del romanzo, introducendo personaggi piatti, apatici, che danno la sensazione classica di chi non sappia come portare a termine la propria opera e inserisca pagine su pagine in cerca dell'ispirazione finale.

Comunque è un libro che crea disagio, che toglie speranza, vivo, vero, che contiene verità assolute, che palesa la vita con tutte le sue bassezze, illusioni, meschinità e che non da speranza riguardo un progresso morale, bensì esalta la bruttura umana, farcita dalla miseria, la disperazione e la voglia di primeggiare sul prossimo giusto per appagare la propria meschinità e cattiveria.
Un viaggio alla fine della notte, che sembra non avere termine se no, nella morte.

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archeomari Opinione inserita da archeomari    24 Luglio, 2020
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Spietato cinismo e tanta ironia

La mia modesta recensione non renderà mai merito alla grandiosità di questo intenso libro. Non so neppure da dove cominciare per parlarvene. Ho avuto qualche difficoltà nelle pagine iniziali, poi la lettura è stata più scorrevole.
Il titolo è già evocativo al massimo grado: è veramente un viaggio, un percorso fisico e spirituale attraverso una metaforica notte. Quale notte? Quella del buio morale dentro l’animo delle persone, quella della grande paura della guerra, quella dell’alienazione dell’uomo alla macchina.
La personalità stessa dell’autore ha i suoi chiaroscuri, le sue inquietudini e le sue contraddizioni. Céline era un “medico che sapeva tutto della vita, un uomo di estrema lucidità, disperato, freddo e tuttavia passionale” scrisse di lui l’editore francese Denoël che volle incontrarlo dopo aver letto il voluminoso dattiloscritto, consegnato senza nome.
E il protagonista, l’io narrante dell’opera è uno studente di medicina, Ferdinand Bardamu, che può essere considerato l’alter ego dell’autore stesso, i riferimenti autobiografici sono palesi: la sua partecipazione come volontario alla prima guerra mondiale, l’esperienza in Africa e poi in America, la professione di medico una volta tornato in Francia.

Il libro venne pubblicato nel 1932 e suscitò scandalo ed anche entusiami.
Il “Voyage” è un viaggio reale, nei vari paesaggi umani e fisici e un viaggio simbolico attraverso la degradazione morale dell’uomo, attraverso il buio della morte individuale e sociale. Bardamu conosce la durezza della guerra, si arruola diciottenne come volontario, prova le sofferenze e le privazioni al limite della sopportazione raggiungendo in giovane età un inaudito distacco verso il terribile spettacolo della povertà, della fame, della morte. Fa amicizia con un certo Robinson, che potrebbe essere quasi considerato il suo doppio e che compare sporadicamente nei momenti più difficili della sua vita, miracolosamente.
La prima tappa del viaggio è descritta, per dirla con Giovanni Bogliolo, compianto accademico, come “la grande epopea della paura”, la macchina distruttrice di vite e di civiltà, la prima guerra mondiale

Dalla prigione, ci esci vivo, dalla guerra no. Tutto il resto, sono parole.

Una volta in Africa, al servizio di una modesta società commerciale, Bardamu si scontra contro la crudeltà degli speculatori bianchi verso gli indigeni, che subiscono passivamente sevizie e maltrattamenti. A Tapeta (capoluogo inventato dell’immaginario Stato africano Rio de Rio)Bardamu, agonizzante a causa dei continui malesseri e della febbre che lo tormentano, verrà venduto da un prete come schiavo rematore su un galeone in partenza verso gli Stati Uniti.

“È che non conoscevo ancora gli uomini. Non crederò più a quello che dicono, a quello che pensano. È degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre”.

Giunto nel nuovo continente, Bardamu è alla prese con l’isolamento morale, con una una società ostile inebetita dal fordismo, profeticamente, parla di alienazione dell’uomo alla macchina:

“Nessuno mi parlava. Esistevi solo grazie a una specie di esitazione tra l’inebetimento e il delirio. Importava soltanto la continuità fracassona di mille e mille strumenti che comandavano gli uomini. Quando alle sei tutto si ferma ti porti il rumore nella testa, ne avevo ancora per la notte intera di rumore e odore d’olio proprio come se mi avessero messo un naso nuovo, un cervello nuovo per sempre. Allora a forza di rinunciare, poco a poco, sono diventato quasi un altro... Un nuovo Ferdinand”.

Tornato a Parigi, sceglie di vivere di espedienti, completa gli studi in medicina e lavora come medico. C’è un grosso problema però: Bardamu si vergogna a farsi pagare. È perciò sempre chiamato dai poveracci e vive in povertà. L’opera, tutta l’opera, ha per protagonisti infatti personaggi poveri ed equivoci, donne facili a scaldare i letti, e facili a tradire per mera sopravvivenza. Un caleidoscopio della malvagità, in cui il rigore morale di Bardamu si scontra contro la degradazione e soffre a doversi adeguare. L’ironia, il grottesco, una sorta di umorismo nero spesso però mi hanno strappato qualche sorriso.

La sua prosa nuova, diversa, fatta di espressioni gergali, dure, oscene, si arricchisce col linguaggio dei reietti, perché Céline vuole adottare il punto di vista dei poveri e degli emarginati, quelli sputati fuori dalla società. Uno stile di rottura con la classicità della lingua francese, un vero e proprio jazz linguistico, con dislocazione delle parole, anticipate o posticipate nella frase per il moltiplicarsi di risonanze nuove, mai udite.

Impressionante ciò che Céline dice di se stesso ad un giornalista
“Io devo entrare nel delirio. Come scrittore mi trovo bene solo in un grottesco ai confini della morte. A tutto il resto sono insensibile”. (“Cèline, ovvero lo scandalo di un secolo”, Ernesto Ferrero, interessante scritto del traduttore, nelle ultime pagine dell’edizione Corbaccio).

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    23 Mag, 2018
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L’antieroe del novecento

Bardamu come Roquentin o Ulrich, Bardamu come Mattia Pascal o Zeno, Bardamu in viaggio attraverso la vita come il piccolo insignificante Leopold Bloom, è certamente ancora una volta il simbolo dell’antieroe del novecento, colui che, quale Picaro moderno, è testimone della mediocrità, della corruzione e della perdita di valori della società del suo tempo. Dagli orrori della guerra, al cinismo di una borghesia priva di scrupoli, alla vita alienante delle metropoli industriali, ai desolanti sobborghi della periferia parigina, Bardamu è attore e testimone in una narrazione che ha come scopo la demistificazione d’ogni realtà edulcorata. Siamo ben lontani non solo dai protagonisti ottocenteschi di Walter Scott, ma anche da quelli molto più vicini alla realtà, come i personaggi del ciclo dei Rougon Maquart. Il novecento è il secolo disilluso, è la terra desolata popolata dai Prufrock e dai discendenti di Bartleby, è il secolo dilaniato dalle più terribili guerre e sta all’artista denunciare la condizione umana ormai vicina a una perdita totale di speranza. In Céline la speranza è vanificata da un’unica assoluta certezza che è la certezza della morte. Il viaggio di Bardamu lo porta attraverso la notte della vita, attraverso la sua oscurità, attraverso i suoi luoghi putrescenti e maleolenti. E i personaggi che lo accompagnano mostrano essi stessi i loro limiti, le donne con le quali stabilisce rapporti non riescono a dargli un amore duraturo e stabilizzante, perché questa è l’epoca dell’ incertezza, della insicurezza fisica e psicologica. “La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte.”
L’opera di Céline, rivoluzionaria nel suo contenuto, lo è ancora di più nella forma espressiva che sovverte ogni ordine e regola grammaticale e sintattica, un linguaggio anarchico che riflette quello colloquiale molto vicino all’argot. Forma e contenuto, dunque esprimono con chiarezza l’esigenza di ribellarsi agli schemi precostituiti degli eredi del Parnasse.

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Opinione inserita da Andrea    05 Gennaio, 2015

Ricerca di un nuovo titolo complicata se si mira a

Un viaggio; non esisterebbero altri titoli tali da garantire la completezza della descrizione della vita e delle vicissitudini del protagonista Ferdinand Bardammo.
Sconvolgente sin dalle prime pagine, per l'alternarsi di situazioni contrastanti rese famose non solo dal passaggio dal gergo operaio al gergo elevato, il gergo di un medico, un tecnico con un'evidente passione per la scrittura (pur assicurando Celine stesso che abbia iniziato ad "annerire delle pagine" esclusivamente per lucro e di certo non per "amore" dell'essere umano, in sottile chiave esistenzialista, ma proprio sottile...) ma anche per la puntuale argomentazione di ogni problematica che ha assunto, in epoca industriale, all'inizio del ventesimo secolo, una caratteristica forte, rendendosi tema vitale per un autore del suo calibro, della sua cultura e della sua conoscenza del mondo.
L'impaginazione o suddivisione del romanzo risente, a parer mio, del presentarsi dell'ispirazione all'autore in modalità differenti, come se a volte potesse esistere un qualche ottimismo, pertinente ovviamente alle pagine con minor ispirazione.

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Sartre e Camus
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    27 Giugno, 2014
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Viaggio nelle tenebre dell'anima

Che dire di questo romanzo? Bellissimo e a tratti nauseante ci propone un viaggio sia nello spazio che nell'animo umano, un viaggio nella notte perchè l'uomo invecchiando non può che scendere sempre più in basso negli abissi della notte; e per arrivare ancora più in basso, il più in basso possibile ci vuole cultura, bisogna aver studiato. Il libro è sicuramente, in molte parti, autobiografico.
Alcune parti del libro, l'inizio e la fine soprattutto, sono particolarmente belle. L'inizio ci porta nel cuore della guerra mondiale, guardando comportamenti e situazioni dall'originale e sano punto di vista del codardo che se ne infischia della patria e tiene alla pelle, che contrappone alla follia collettiva e al desiderio di morte un sano istinto di sopravvivenza. La descrizione della perversione della guerra e del carrozzone di stupidità, boria, egoismo vari, meschinità che le tengono dietro è bellissima. Ricorda un po' Comma 22. Di fronte a ufficiali vanesi, idioti, stupidamente obbedienti non c'è ideale che sopravviva. Il linguaggio è spontaneo, a volte apparentemente sgrammaticato, dà l'idea di immediatezza, di essere seduti da qualche parte con l'autore, in un locale malfamato ad ascoltare. All'editore che vuole correggergli la grammatica fa una scenata: "Ho l'aria scalcinata ma so perfettamente quel che voglio.". E effettivamente Celine non vuole scrivere come Francois Mauriac, raggiunge il suo scopo parlando al lettore come a un compagno di sbornie e di battaglia, come a un vecchio amico.
Ma mentre l'inizio del libro è interessante, bello e originale, il cuore del libro stanca. Stanca il cinismo assoluto con cui le cose sono guardate. Ci viene presentato un universo di bassezze cui non c'è mai limite, un'umanità senza umanità, un uomo cui hanno strappato l'anima. La faticosa lettura del romanzo porta a pensare se davvero valga la pena di vivere in questo mondo bidimensionale. La mancanza di speranza, di fede religiosa forse, spinge a strappare a morsi alla vita ogni piacere a costo di qualsiasi prezzo morale. Pochi personaggi non inseguono un interesse personale. Per es. Alcide e lo si vede vergognarsi del suo buon cuore, del desiderio di mantenere con tanta fatica la nipotina orfana. Non ci si deve vergognare dei vizi ma nascondere la bontà. Questo modo di vedere le cose, porta alla fine del libro a un cambio impercettibile di ottica, a una stanchezza morale, a una stanchezza di vivere senza scopo, a una nausea di se stessi e del mondo cui non c'è risposta, nausea che accomuna scrittore e lettore.


"Marcia in modo strano la pietà. Se qualcuno avesse detto al comandante Pincon che lui altro non era che uno sporco assassino vigliacco, gli avrebbe fatto un piacere enorme, quello di farci fucilare seduta stante dal capitano della gerdarmeria che non lo lasciava mai d'un passo e che, lui, pensava esattamente quello. Era mica coi tedeschi che ce l'aveva, il capitano della gerdarmeria.
......
La grande sconfitta in tutto è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne."

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Il giovane Holden
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Acherontia Atropos Opinione inserita da Acherontia Atropos    09 Aprile, 2014
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Quando la forma è (almeno) pari al contenuto

Lo stile in cui è scritto deriva dall'argot francese e il traduttore, Ferrero, fa un lavoro che secondo me, nella versione italiana, ha quasi gli stessi meriti dell'autore (non sapendo il francese non so quanto sia fedele allo stile originale ma l'impressione che se ne ha è comunque travolgente). E' un libro unico nel panorama mondiale di qualunque tempo. Cèline stesso si definisce uno "stilista" dove per un libro di 500 pagine (questo ne ha 570 e spiccioli) ne scrive 80000. Un maniaco della forma, un artista, un cesellatore della parola insomma. Il risultato è un miracolo. Sebbene la trama sia la sua vita vissuta (affatto banale) tutto viene illuminato dal suo stile, la sua poesia antilirica, il suo "buio" canceroso e rancoroso. Un romanzo che se dovesse essere paragonato a un piatto sarebbe senz'altro una bistecca grondante sangue, tanto, tanto, sangue. Ma proprio per questo succulenta. Giusto per dare un'idea è l'unico libro (letto finora) che nelle prime quindici pagine contenga circa tre bestemmie. Dopo avere allontanato i più deboli da questa recensione la continuo dicendo che penso sia un libro fondamentale. Un libro che mostra l'assurdità della guerra e, soprattutto, la miseria. Ecco, se qualcuno volesse sapere cosa sia -veramente- la miseria, dovrebbe leggere questo libro, tenerne in bocca le parole, girarsi nella lingua ogni singola lettera perché -veramente- l'effetto che se ne ha smarrisce e stordisce, certo, ma anche inebria.
Non c'è mai scampo. Mai. C'è sempre un disagio ad andare avanti eppure lo stile trascina e diverte di un humor nero. Un libro che è un continuo contrasto tra il bianco e il nero o meglio, tra il grigio e il nero. Da tutto ciò si evince che non sia affatto un libro da tenere sotto l'ombrellone oppure un libro da leggere "per stare bene", tutto l'opposto, direi però che è un libro da leggere per capire e arricchirsi umanamente.
E' un libro fondamentale anche per un altro aspetto: il suo autore è un autore su cui tutti hanno da dire qualcosa ma quasi nessuno (detrattori o meno) conosce la sua opera.

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Consigliato a chiunque ami scrittori la cui lingua abbia una forte connotazione stilistica (p.e. Gadda)
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Pelizzari Opinione inserita da Pelizzari    16 Luglio, 2012
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Illeggibile

Libro di frammenti. Senza capo né coda. Per me davvero illeggibile. Sicuramente presenta un'originalità espressiva che, a tratti, è anche provocatoria. Il linguaggio è particolare, ha tutta l'immediatezza del parlato quotidiano. Ma fa perdere il filo. e anche se le critiche affermano che questo è il romanzo che ha saputo meglio capire e rappresentare il nostro secolo, è un libro che non ho letto volentieri. E senz'altro non lo consiglio.

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Cristina72 Opinione inserita da Cristina72    08 Mag, 2012
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La strada del nulla

E' un romanzo che rivela fin dalle prime battute l'impronta dello scrittore di razza, capace di passare senza perdere mordente dal vernacolo a frasi magistralmente cesellate.
Quella di Céline è una scrittura che lascia il segno, originale, intensa e ammantata di menefreghismo.
Il protagonista, Ferdinand Bardamu, ricorda un po' l'Huckleberry Finn di Mark Twain, ma è più cupo, più sarcastico, e certamente più infelice.
Al cinismo del libro fa da contrappunto, fortissima, la percezione del dolore peggiore, quello di creature innocenti, bambini e animali, bersagli perfetti dell'abiezione umana.
Per tutti gli altri resta solo una vaga pietà e un po' di disprezzo.
Si parte dalla paura della morte in guerra, con buona pace di impavidi e patrioti, per arrivare, nelle ultime pagine, al desiderio di diventare almeno “un eroe raccogliticcio” e morire per un' idea qualunque che dia un senso all'intera esistenza.
Impresa ardua per un eroe-antieroe che ha viaggiato inquieto per anni collezionando per lo più un meschino campionario di umanità, stanco di una stanchezza morbosa che provoca insonnia: “Ci basta ormai mangiare un po', farsi un po' di caldo e dormire più che si può sulla strada del nulla”.
L'humour del romanzo sta soprattutto negli ambigui rapporti tra i personaggi, uniti dalle circostanze, compagni nella “notte” ma sempre (non a torto) diffidenti gli uni con gli altri.
Per esempio Robinson, figura controversa (probabilmente l'autore stesso nella sua parte peggiore), ricorre continuamente nella narrazione e finisce per diventare amico di Ferdinand, senza peraltro suscitare in lui un briciolo di affetto.
I baracconi di una fiera, tratteggiati in pagine da antologia, con la loro allegria monotona e posticcia sono il malinconico emblema di una vita che si fa presto a rimettere in piedi dopo un disastro, ma che si trascina ormai senza più illusioni.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    14 Aprile, 2012
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Povertà morale e materiale dell’ uomo

Cèline ci guida in un viaggio travolgente ed altamente sarcastico nella precaria condizione morale e materiale dell’ uomo nei primi anni del ventesimo secolo. Protagonista del romanzo è Ferdinand Bardamu, giovane anarchico studente di medicina che si ritrova a vivere diverse esperienze in giro per il mondo. Dagli orrori della prima guerra mondiale vissuta al fronte in prima linea alla dura vita nelle colonie africane dove le nuove leve dell’ imprenditoria cercano di far soldi con i più squallidi e cinici mezzi; dall’ alienante esperienza lavorativa nelle fabbriche americane, simbolo di un capitalismo che in cambio di uno stipendio ti ruba anima e personalità, al ritorno in Francia dove, terminati gli studi e diventato medico, si ritroverà a lavorare nelle zone più povere e degradate, spesso gratis o comunque mal pagato, circondato da gente pronta a compiere le più impensabili bassezze. Bardamu vivrà queste esperienze con un distacco e un’ indifferenza sempre maggiori, restando sempre più disgustato da ciò che l’ uomo riesce a fare o ad essere e perdendo man mano la fiducia e la stima nella razza umana. Cèline usa uno stile che varia a seconda delle esigenze: per rendere più realistico il racconto durante la narrazione delle vicissitudini di Ferdinand e dei vari personaggi che lo accompagnano il linguaggio è gergale e sgrammaticato, scurrile e blasfemo. Ma spesso tra un fatto e l’ altro ci sono dei momenti di riflessione in cui vengono fuori veri e propri virtuosismi letterari. L’ autore inoltre è bravissimo nel riuscire a mischiare l’ ironia alla denuncia e nel condannare la condotta degli uomini senza moralismi né retorica, fornendo la precisa fotografia di un’ intera epoca che, confrontata con quella attuale, dimostra quanti pochi progressi abbia fatto l’ umanità in un intero secolo.

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Giovannino Opinione inserita da Giovannino    07 Febbraio, 2012
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Un Capolavoro.

Un cazzotto nello stomaco. La stessa identica sensazione. Quando arrivi alla fine del libro e ripensi a quello che hai letto, è un vero e proprio cazzotto nello stomaco, ti lascia senza fiato, e senza parole. Ebbene si, se Cèline scrivendo questo romanzo cercava lo scandalo, lo scalpore, beh...c'è riuscito in pieno...È un viaggio che si percorre in due direzioni. La prima è quella del viaggio reale, i viaggi veri e propri che il giovane Ferdinand ( o Bardamu) fa. Prima come giovane studente di medicina che combatte al fronte nella guerra delle Fiandre,non amando la guerra e cercando più volte di disertare. Poi quando parte nelle colonie africane, al servizio del crudele tenete Grappa e del buon Alcide (la contrapposizione dei due personaggi è splendida nell’esprimere la distanza che passa tra “i buoni” e i “cattivi”, come li definisce lui ). Dopo ancora quando va a cercare fortuna in America. Ed infine quando una volta laureato, esercita la professione, inizialmente nei quartieri poveri e poi in una clinica privata. Ed è proprio in quest’ ultima parte, in cui i personaggi danno il meglio del loro repertorio. Con l’onnipresente Robinson che per guadagnare qualche soldo arriva perfino ad uccidere, e con la furba Madelon, donna subdola e senza scrupoli, pronta a tutta pur di non perdere il suo uomo. Poi c'è il secondo viaggio, che è quello che l'autore compie all'interno dell'uomo. Ed è qui che si concretizza il capolavoro di questo libro. È un viaggio nella parte più nera, più cupa, più triste dell'uomo. Un viaggio attraverso la povertà che prima di essere materiale, è spirituale. È la povertà dei valori quella che Cèline racconta in questo romanzo, quella che fa trasparire l'uomo come un animale, guidato dall'istinto nella maggior parte dei casi, e quasi mai dalla ragione. Homo homini lupus come direbbero i latini. E quello che ti manda fuori di testa, quello che ti lascia basito, senza parole è la semplicità con cui riesce a raccontare tanta violenza, fisica e psicologica, senza battere ciglio. Come se tutto ció fosse normale. Perchè poi ti accorgi che anche se in molti casi, da determinati comportamenti era rimasto sconvolto e ne aveva preso le distanze, alla fine, questi comportamenti appartengono anche a lui, così come a tutti gli uomini. Non se ne sottrae Cèline. Un viaggio attraverso il cinismo, l'ipocrisia, la falsità, la bassezza morale, la cattiveria e tutto ció che di negativo c'è nell' "animale uomo". Un romanzo che proprio per queste caratteristiche potrebbe essere anche un saggio. Unico piccolo neo è la scrittura, che essendo di inizio 900 risulta a tratti un pó lenta, ma è veramente una piccolezza. Un romanzo che non puó e non deve mancare in nessuna libreria del mondo.

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floria di tosca Opinione inserita da floria di tosca    24 Dicembre, 2011
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Viaggio al termine della notte

« ...je ne peux m'empêcher de mettre en doute qu'il existe d'autres véritables réalisations de nos profonds tempéraments que la guerre et la maladie, ces deux infinis du cauchemar. »
Louis-Ferdinand Destouches (Celine) nasce a Courbevoie un sobborgo di Parigi il 22 maggio 1894 da Fernand Destouches, un modesto impiegato, e Marguerite Guillou, merciaia.
L’anarchico Céline, che amava definirsi un cronista, aveva vissuto le esperienze più drammatiche, gli orrori e le ferite della Grande Guerra,le trincee delle Fiandre, la vita godereccia delle retrovie e l’ascesa di una piccola borghesia cinica e faccendiera, le durezze dell’Africa coloniale, la New York della «folla solitaria», le catene di montaggio della Ford a Detroit, la Parigi delle periferie più desolate dove lui faceva il medico dei poveri, a contatto con una miseria morale prima ancora che materiale. Totalmente nuovo nel panorama francese ed europeo il suo modo insieme realistico e visionario fu considerato una vergogna per la letteratura francese. Eppure l’intatta freschezza di un «classico» che non finisce di stupire per la sua modernità si offre a noi nell'interezza della sua opera prima...seppure datato 1932...

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Giovanni Baldaccini Opinione inserita da Giovanni Baldaccini    30 Agosto, 2011
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Un'ipotesi interpretativa

Azzardo un’interpretazione. Mi sono sempre chiesto come un essere abietto, quale Céline era, un collaborazionista, un simpatizzante nazi-fascista, e tralascio altre definizioni sgradevoli, abbia potuto scrivere un capolavoro, un’odissea sublime, come Viaggio al termine della notte. Un enigma all’apparenza insolubile.
Pure una soluzione c’era. Per trovarla, occorreva considerare il libro come tale, ma soprattutto come uno specchio dell’uomo che lo ha scritto. Dunque, una complessità, non un semplice libro. Per orizzontarsi in questa complessità occorre uno sforzo: non lasciarsi andare alle parole e a ciò che esprimono attraverso uno stile meraviglioso, ma ricordarsi sempre allo stesso tempo di chi le ha scritte.
Il romanzo racconta la storia di un perfetto imbecille che, per compiere un atto apparentemente privo di qualsiasi senso, si ritrova immerso negli orrori della guerra. Questo imbecille è Céline stesso. Il giovane Céline: guascone, irriflessivo, con la tendenza a disperdersi nell’esteriorità del vino, delle donne, dell’assenza di ogni significato. Un essere totalmente esteriorizzato, privo di qualsiasi contatto con la propria interiorità. Che tuttavia c’era e gli ha dichiarato guerra.
Da qui l’incredibile. Assistiamo infatti, nello svolgersi del romanzo, alla più impensabile delle trasformazioni: da perfetto idiota a santo. Come è possibile? Il personaggio di Céline, dunque Céline stesso, attraverso l’orrore impara a muoversi nel non senso, a prenderlo in considerazione. Si accorge che l’orrore c’è, esiste, e non è soltanto la guerra: è la vita. E in quell’orrore bisogna muoversi, vivere, imparare a sopravvivere. Quell’orrore va curato, e il medico che quell’imbecille era se ne prende infinitamente cura. Di sé si prende cura finalmente, dell’orrore che è, e in quel prendersi cura riscatta la frattura nella quale ha vissuto da sempre.
Un romanzo straordinario: una cura. Peccato che tutto ciò sia avvenuto a un livello non percepito, potrei dire soltanto immaginato. L’uomo Céline è rimasto quello che era: lontano dall’artista.
Fu considerato una vergogna per la letteratura francese: non se ne vergognò mai. Il personaggio del romanzo avrebbe tutte le ragioni di non vergognarsi; Céline no.

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