L'idiota Hot
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dostoevskij, e la Russia semifolle- ALERT SPOILER!
La matrice civile, umana, del suddetto si evolve, diventa irrespirabile un ambiente laddove l’uomo non si raccapezza dal circondario in cui pesticcia i piedi. L’idiota racconta di un principe tanto buono, Lev Nikolaevi? Myškin, un Cristo moderno del 19esimo secolo. Il quale, s’incappa di già in treno d’arrivo-ritorno verso la Russia, con i due co-protagonisti sul vagone: Rogozin -la metà di Myskin, il doppio-, e Lebedev, un funzionario, dappresso dall’essere irritante, servile e alquanto apocrifo. I personaggi prendono tutti parola, parte, corpo, e azione all’interno della Creatura-libro.
Cos’è la doppiezza, l’essere moltiplicato, decuplicato, bipartito? Non è altro che una diaspora dell’essere, nel mondo. Nell’orditura del telaio-opera-libro; il doppio perde la propria metà, anfanato, prova a riacciuffarla novellamente, ma invano e senza successo. Il primo doppio, beninteso, come il secondo, resterà sempre consentaneo e morboso alla propria ontogenesi; quanto, è probante. Eppure, tutte le prerogative che il primo vuole trafugare al secondo, o viceversa, si avvicendano in incontri-scontri, frasi non dette, e divari sentimentali, se la prima metà rappresenta l’odio, l’amore, il disprezzo, il rifiuto, il secondo non farà altro che conglobare queste lacune mancanti, torchiando il primo per divenirne più riavvicinato, tale da trasmutarsi carnalmente nel primo, e viceversa. Il doppio cerca nell’altro i propri golfi vitali privi di fonte d’acqua. A ben vedere, ciò accade attraverso un desiderio; il desiderio di ottenere l’oggetto trasversalmente dal mediatore. Rogozin viene ingemmato come un essere sulfureo, meschino, un mero assassino; benché sia un essere completamente infelice e solo, ottiene il suo oggetto del desiderio dacché tenta di fare un attentato con il coltello a Myskin, d’improvviso. Il noto omicidio, per esattezza, il noto suicidio (Entrambi sono la stessa persona, in letteratura il doppio di uno equivale a una persona nell’intiera complessione formale) tende a ricongiungere i disgiunti avversari. Myskin desidera Rogozin, come Rogozin desidera Myskin.
Si sfuggono, non si riconoscono, eppure si arraffano avidamente gli indumenti per sfiorarsi.
Da questo giorno innanzi, le peripezie avranno dimora tra due città principali: Mosca e Pietroburgo. La narrazione Dostoevskiana ha una peculiare lacuna verso il tempo: non si ha percezione di esso, non esiste, non è presente. Il lettore si interfaccerà con una catasta di avvenimenti all’interno di UN giorno qualunque; questa è una propria ‘’opera-sogno’’-consiglio ad oltranza di spuntare i nomi, si avrà difficoltà nel ricordarli di passo passo-. Andando a monte, Il principe-profeta, il messianico ‘’straniero’’ giunto in Russia, dalla Svizzera, con il suo timido fagottino, -indice di bontà, quasi di una puerile incertezza, viaggiare con una sorta di mottino, o peluche. Oggetto unico rimastogli- decide di conoscere l’ultima discendente del lignaggio Myskin; Lizaveta Prokofyevna, moglie del Generale Epancin. Sulla strada di ritorno, Myskin è reduce di una battaglia, una sorta di nemesi invisibile: il mal caduco, -l’epilessia, la cui vera analisi clinica non era attendibile all’epoca- caduco, perché era intermittenza fra un accesso di estasi, tremori vari e sconquasso corale, la vittima cadeva a terra come fulminata.
La degenza durerà tutto il suo ultimo periodo trascorsosi in Svizzera. Sussiste poi, l’incontro con il segretario dei due coniugi, Gavrìla Ardaliònovi?. L’incontro fra questi è di straordinario e inaspettato scetticismo; Egli appare di una ambiguità clamorosa, con le ghette ai piedi, di bell’aspetto, e bonaria impressione. L’arco temporale è già delineato da una moltitudine di avvenimenti; La scena femminile staglia la sua bella eroina letteraria, Nastas’ja Filippovna. -D. ha il vezzo di utilizzare gli stessi nomi o patronimici, come se i personaggi fossero delineati da una vera ipseità, dai tratti fisiognomici autentici, una temperanza che brancica il lettore quando ne scorge l’orpello- Ella è una bellezza disarmante, Nastas’ja figura come una donna altèra, dagli occhioni nocciola scuri e fitti, fulgente di abiti ampollosi, la crinolina, i ricci bruni, e le acconciature ridondanti. Nastas’ja, non solo sembra ringuainata di bellezza, fascinazione, di venustà; la personalità ‘’peperina’’ trasfigura quel viso armonioso, in una turpe inquietante di una mente imprevedibile. E’ l’esasperazione della poetica romantica, è l’irriverenza dell’orgoglio, una conflagrazione di doppiezza. Ci si aspetta da lei una tenue misura, un atteggiamento che si confà a quei sembianti scolpiti da Fidia, e invece ne consegue una polarizzazione; -Ex: L’isteria della Generalessa che eredita la terza figlia, Aglaja- Tutti i personaggi femminili, la presenza ‘’rossa purpurea ’’pura di donna, non si roda al contesto, non è aderente, ognuno ha le proprie turpitudini psicologiche, nessuno sembra quel è. E’ questa l’impostura. D. raggira il proprio pubblico, mistifica la realtà, rappresenta la frammentazione dell’io, la doppiezza. Ciascheduno tallona l’Altro, ognuno incarna un paradosso, una vegliarda febbre di misconoscimento. Il doppio è endogeno, si alligna nell’oscurità meandrica dell’Altro. Questo marasma di persone, vorticano attorno il principe, annaspando in apnea nella continua ricerca dell’altro: -Dacché Ippolit, un ragazzino di lì a poco morente, affetto da tisi, nichilista, disquisisce della sua Spiegazione-digressione durante il compleanno del principe, alludendo a Colombo, con la scoperta dell’America.- Sopraggiunge il diletto non tanto della soddisfazione paga della scopritura di una nuova terra, quanto la perpetua, lunga via di ambagi che permette all’uomo di essere utile, di ‘’iscoprire’’ un senso, di essere antesignano di un qualcosa che neanche andrà mai a tastare o imbrigliare con i propri trabiccoli, o qualsiasi altra stramberia industriale; sta lì il senso della vita stessa, continua Ippolit trafelante, fra vari colpi di tosse ed emottisi per giunta, sostenuto dall’amico Kolja, figlio dell’altro casato del Generale Ivolgin, fratello di Gavrila e Varvara Ardalionovna; Kolja è un mero inserviente del principe, è fedele, un mero dedito ascoltatore e compagno. Nella conclusione, dopo la morte del padre -Il generale, decaduto, e ormai divenuto un alcolizzato, persecutore del dolore familiare, reca affanni alla moglie Nina, mentendo e levigando l’infinita commozione di una vita trascorsa all’insegna militare- Myskin lo descrive come un ragazzo compito, che forse diventerà una buona persona. Adelaida, Aleksandra, e Aglaja sono tre bellissime sorelle, cadauna più charmant di un’altra. La maestranza filiale, è spesso oggetto di biasimo da parte della madre, Lizaveta, la quale ha istruito loro nel modo più morigerato assoluto, dinnanzi una società oculata, soffiatrice e conservatrice, ove i matrimoni combinati dispensavano come indulgenze chiesastiche. Aglaja, è un’altra effigie di spicco, forse l’unica ad avvedere la vera natura del principe, si dichiara innamorata come Nastas’ja di questi, ma al contempo ama Ganja (Gavrila); Un trio amoroso, una filza di andirivieni che involverà anche l’oppressione di Rogozin, il quale è follemente -alla lettera- innamorato di Nastas’ja. Se non la otterrà con l’amore, allora differentemente la carpirà con l’impudenza, l’omicidio, l’aggressività, l’umiliazione, l’odio. Nastas’ja si tributa simile a la pece più lutolenta -cadendo nel delirio, nella semifollìa, nel vittimismo- E’ una silfide silvana che è impossibilitata a redimersi dal male-incantesimo, ma anzi il livello di essere truce è paritetico. Ma questa pienezza tronfia, sembra quasi allargare l’ego della donna, questo masochismo pare quasi giocondarla agli occhi di tutti, ritrovandosi colma, mai vuota, piena di sé e del suo doppio-gioco dell’obolo.
Ma se questi personaggi si rincorrono a vicenda, costruiscono dei rapporti pressoché parossistici, perversi, interscambiabili, cos’è che autenticamente scelgono? La risposta ne è una sola, senza altre e troppe filosofie socratiche. Non scelgono nessuno. Nessuno sceglie l’Altro. Sono immersi in questa bufera ininterrotta della ricerca del desiderio, e la sua sospensione, la sua stasi. Nessuno, sembra a ben vedere, interessato all’altro. E questo spasimo che attraversa l’ontogenesi, la ricerca dell’essere attraverso il paradosso, sembra addirittura vana. -sembra quasi una commedia Pirandelliana-
Prevarica il concetto di anacrisi e sincrisi; il primo, l’inganno mediante la parola o la situazione ad intreccio, il secondo, la polifonia dei diversi punti di vista. E gradatamente, ritroviamo uno spettacolo musivo di aporie umane intrapsichiche. D. esperisce una narratio moderna, per contro la narratio vittoriana, è novizia, sfornita di cliché, è propugnatrice di valori e apparenze controintuitive, che scardina l’usuale padrona di vita: La noia. Un’indolenza che viene eraldicata attraverso l’incito del dialogo; la narrazione è dialogica, analitica e polifonica. S’industria con la tecnica del pensiero contraffattuale, il controintuito, s’incammina per la via dell’incertezza, del condizionale, i costrutti fraseologici constano pressoché una frattura dell’ipotetico, i personaggi parlano sempre con quasi illazioni, sovente adoperano il connettivo ‘’come se’’, come se appunto, dietro questa ‘’visione’’ di vita, muta e ermetica sboccia la realtà dell’opposto. Il narratore prosegue oggettivamente, fa strano che neanche lui sappia bene cosa stia per accadere, e questo lo si può render noto quando sembra parlare direttamente al proprio lettore.
Questa dicotomia, Dostoevskij la riassume con l’ossimoro di ‘’Realismo fantastico’’. Egli, dichiara di intravedere molta più realtà nella fantasia stessa, ne ha edificato su un concetto di tutto punto straniato, come se sul boccascena presente nella mente, si fossero brulicate ideologie molto più reificate della realtà altra. L’incongruenza fra ‘’visione-realtà’’ comporta le idiosincrasie fra azione, pensiero, volontà dei personaggi –anche nel sogno vige una attinenza non ordinaria di detenere in egual modo la ragione mentre sonnecchiamo e siamo impetrati, eppure quando un nemico ci sta per attaccare, noi non reagiamo, restiamo solidali al nostro pacifico sonno, succede che a questi possiamo finanche divenirgli innocui o penosi-. Vige una legge oscura, di cui non si conosce bene la genesi misteriosa dell’umano: Dostoevskij è invece veterano nel saperle saggiare, eppure non si dichiara mai psicologo, nemmeno nei taccuini più intimi. Si dichiara come conoscitore di tutti i corruschi infernali dell’umana anima.
Furono molti, coloro che convalidarono la inattendibile e fallace ‘’per sentito dire’’ follìa dell’autore; Non bisogna dar credito ai singoli personaggi, ma alla complessione del circondario dei personaggi. Dostoevskij riversa in loro non proprio dei dati autobiografici, -eppure, sembrerebbe così, non è vero?-
Ma ne attinge macchie pezzate dalla vita, che propinava lui, a prenderne spunto per costruire i suoi ‘’eroi’’, gli bastava la verosimiglianza, un pulviscolo di ontica, per effondere l’impossibilità di discernere un’eventuale realtà. Il suddetto, a onta di tutti, mistifica di diventar pazzo, e a scapicollo si invaghisce di un sentiero il cui nome‘’arte’’, L’arte è l’alibi più usufruito, è la manna salvifica, il nepente degli emarginati, di chi nel mondo non trova romitorio adatto, chi si estromette da un plico di titoli e onoranze, dei reietti, degli scrittori, della sensibilità morale, di chi è stato abbrutito, rintuzzato, offeso e vilipeso. Da questa sofferenza, forse si potrà perfino estimare un finale tragico, quantomeno dignitoso.
Il nostro principe-profeta e/o principe-umile -voglio fruire di tale ossimoro-,è l’apparenza riboccante di umiltà, tale dal prorompere fino all’ultima goccia dell’orlo del vaso. Dostoevskij ci rivela, in una delle lettere a Majkov la difficoltà di rappresentare un uomo di tutto punto buono, soprattutto in vista dei nuovi tempi. Eppure, ci sono molti episodi che saltano all’occhio, sulla vera natura personale del principe; essi avvengono quando s’intrattiene nel parlare con Ippolit, Evgenij Pavlovic e Ganja. Ma altresì con Nastas’ja e Aglaja, egli sembra totalmente disinteressato alle due donne che presume di amare, ne diviene anche distratto, quello che gli balugina in mente è l’effigie demoniaca del pretto e blandito desiderio quale è Rogozin.
Aglaja, sussiegosa confessa al principe che in lui non vi è alcuna parvenza di compassione, ma solo di misera e cruda verità; Sembra più che umile, un agglomero di mitezza, di perspicacia scarno di empatia, anche se dimostra di possedere una falla di compassione nei riguardi della sofferente Nastas’ja, tale da mutuarla nel sentimento di amore. Ma la verità non può essere che un sostrato di crudivore rivelazioni. Il principe, è sicuramente molto schietto, anche quando si esima, si restringe e cerca di divenire ‘’normale’’ tacendo. Ma la legge in questo mondo romanzato dostoevskiano, è di essere buffi, perché solo i buffi, i ridicoli, hanno tutt’al più una vera espressione, al di là dei ‘’normali’’. -come rivela dacché si reca dagli Epancin- ‘’la materia viva’’ .I normali sono impersonali, ed essi per Dostoevskij sono asettici. Il nostro principe-paradosso, viene ‘’smascherato’’ non solo dai suddetti, nel corso della lettura, altresì dal più vanaglorioso uomo-salottiero del libro ossia: Evgenij Pavlovic, il quale fa una rappresaglia al principe ‘’egli non ama ambo le donne. Non le ha mai amate, si era solo convinto di farlo!” ed è attualmente così. Un altro episodio è esplicitato dalla scena in cui Ippolit s’accinge a spararsi davanti ad un drappello di persone, al contrario, succede invece che la pistola non spara, s’incaglia con i colpi, e tutti sembrano ridere, un rabbuffo improvviso sconcerta il pubblico. Persino il principe rimane di stucco, non fiata, non per laconicità di parole, chiaramente. Sottilmente, esprimerà senza filtri il pensiero su Ippolit; nient’altro che un invidioso in procinto di morire, mentre Myskin, scevro dal pensiero della morte, si prepara per i celebrativi ante dal matrimonio previsto. Altri richiami avvengono con i nichilisti Keller – il quale scrive un articolo caustico sul principe, e sulla sua presunta idiozia, il lascito destinatogli dal tutore- Burdovskij -figlio illegittimo del tutore di Myskin, il quale pretenderà da quest’ultimo tutta la sua eredità cedutagli- Keller resta quasi allucinato da quella franchezza disarmante, che rescinde la parola agli altri interlocutori. ‘’l’uscire di senno, per una semplicità tale, un’innocenza tale che… zac! Affonda come una cuspide nella carne, nella tua mente!’’ Il principe, nondimeno l’opinione altrui, non asseconda mai l’altro. E’ profondamente innestato nelle sue idee, che queste prenderanno forma e statura in nome della Religione. L’idiota non è altro che un’esemplificazione di un’opera laica; tutt’altro che religiosa. Lo stuolo dei pensieri rifratti gallati dalla duplice visione che si ha di Cristo; il tutto confluisce con il quadro di Holbein, del ‘’cristo-morto’’ una pittura tutt’altro che paleocristiana, che si avvicina ad un realismo macabro, profano; il corpo di Cristo tumefatto, percosso, esanime, con il viso divelto dalle tribolazioni, gli insulti, sputi, e colpi di frusta.
Ebbene, questa visione ‘’laica’’ di un corpo che apparentemente è morto, non è risorto, ma ha inglobato dentro di sé l’immondezza dello stesso mondo che forse è stato addirittura creato affinché il Salvatore potesse comparire -spiega Ippolit- secondo alcune congetture, potrebbe rivelare il più grande dubbio del nostro autore: L’esistenza effettiva di Cristo. Dostoevskij, è attratto dalla figura di Cristo, lo ama incondizionatamente, crede che sia l’esemplare di perfezione eburnea, ineccepibile fra tutti i personaggi divini. Non metterà tanto mai in dubbio la sua figura, quanto la sua epifania. Un dubbio che ha sfiorato il limbo della consunzione, dell’attrito insoluto. Così si riverbera lo sproloquio sull’inefficienza della teocrazia papale di sfondo cattolica-romana. Myskin evince della vera forma di ateismo, che provenga da quei credenti, quei fanatici, quei belluini fraudolenti chiesastici appartenenti ad una chiesa sconsacrata, dissacrata da Cristo; il papa che brandisce l’elsa di una spada, è fuori dalla simbologia effettiva di ‘’Fede’’, o meglio la fidanza in qualcosa, in qualcuno. La rescrudescenza della questione religiosa inalbera Myskin, l’ignoranza conduce ad un mondo deprivato di valori, onori, gratitudine che conduce all’ateismo; la Chiesa romana è vessillifera di angherie, di delitti, di violenza (allude alla Rivoluzione Francese, -Fratenité ou la mort!) Dunque, l’avversione al cattolicesimo è avvivata dall’ingiustizia, dallo stravolgimento della naturale semantica, dalla pregnanza del vero significato patrociniato, che viene terribilmente vessato. Myskin si reputa credente, ma simultaneamente è reticente nelle sue medesime esperienze vissute. Ma l’eristica dialogica tuttavia, si fa prepotente nel corso di tutta la narrazione; le opere dostoevskiane contengono delle chicche che ridisegnano l’imponenza di un tale autore che, non potrà mai essere soverchiato dal castro della mente. Il ‘’principe-povero’’ (ereditato da Don chisciotte) è un principe serio, triste, non c’è nulla di parodistico, di ridanciano. Egli non è nemmeno un Cristo, ma nemmeno un cavaliere, Egli è la carne, il sangue d’ogni pagina strimpecciata dell’autore gravido di accessi maniacali sui romanzi da concepire. In primo luogo, va assolutamente dispensata una lode al nostro scrittore per lo straordinario taumaturgico potere di concepire più storie, più romanzi e compendiarli in un’univoca trama; era adusto a scrivere a iosa, e a non sapere quale fosse potuta essere la successione, il prosieguo. L’assioma partorito sarebbe stato quello di sternere su carta le più idee possibili e fumide d’attrito, egli commetteva il peccato di affidarsi alla scia d’inchiostro della penna, meditabondo sull’accettazione, il successo, l’avallo da parte dei suoi lettori. ‘’o la va, o la spacca!’’ L’aire decisivo fu anche la coniuge stenografa Anna, alla quale il marito soleva leggerle ad alta voce gli scritti. Questo, gli consentiva di dare la pantomima adatta alle sue figure, di incorniciare nella mente gesti, tenori e atteggiamenti.
Le febbri, la nerezza, le luci dell’opera compongono una controfinestra musiva che contrassegna la firma d’autore. Si può addirittura credere fermamente, che, la sofferenza, l’accorazione fisica, la stanchezza molle che riduce inesorabile in un cencio sporco, limoso, abbia prosciolto i piedi legati dalle catene di ruggine di Dostoevskij. Egli si è liberato, non appena è partito per la Siberia. La possa di un tale trauma, la ferale incursione dalla vita semplice, pastorale e ridondante quanto una poesia barocca e frondosa, si commuta meramente nelle fattezze di una prigione senza alcuna massima, che come un Purgatorio espunge, catalizza il carcerato a mondarsi; sfiduciato dal tempo, dalle sue energie fisiche, dalle sue preghiere e litanie. Come il testo del salterio, dovrà ripercorrere ogni passo, dovrà sembrare invitto alle rimostranze degli altri condannati a morte, o semplicemente condannati alla pazzia, all’oligofrenia.
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Cercando un altro Egitto
Fatico sempre a leggere Dostoevskij, mi trascino quasi caparbia, cercando di superare tutte le mie perplessità fino a quando non giungo, soddisfatta, a ultimare la lettura. Così è stato anche per il suo romanzo più gradito dal pubblico di lettori, quello che, essendo anche il più letto, rischia di essere il più banalizzato. Dalla celebre citazione “La bellezza salverà il mondo”, alla lettura in chiave cristologica o ancora alla più ingenua celebrazione della bontà fatta personaggio, si rischia di semplificare eccessivamente o peggio ancora di limitare il potenziale espressivo di tale scritto. Sarebbe invece utile e opportuno ricondurlo alla biografia dell’autore, ricordare che è il prodotto di una fatica letteraria ispirata ma purtroppo canalizzata nel ritmo forsennato dei contratti capestro che imbrigliavano l’autore a causa delle sue difficoltà finanziarie, da giocatore. Sarebbe ancor più onesto evidenziare che non è nemmeno un romanzo perfetto, stilisticamente parlando. Fatto questo, penso, si potrebbe sgomberare il campo e parlarne apertamente.
Il principe Lev Mikolaevic Myskin è un personaggio complesso al quale neanche il titolo dello stesso romanzo rende giustizia, confinandolo in un’ambiguità lessicale che si diverte a sballottarlo tra la demenza e l’eccessiva bontà, passando attraverso il contrappasso dell’epilessia (piccola nota autobiografica). Un ragazzo senza radici ma con un albero genealogico importante, un piccolo granello di sabbia che nessuno noterebbe in una sterminata distesa di un deserto, andandosi a confondere con tutti gli altri a lui simili, se quello stesso granello non inceppasse il meccanismo del mondo nel quale si è calato. Eppure anche lui è sabbia, come gli altri. Ma è il granello che disturba, quello che separandosi dalla massa a cui apparteneva, è capace da solo di fungere da forza centripeta, da polo di attrazione, anche quando non è presente.
Il treno Varsavia - Pietroburgo scaraventa in scena, in una vera e propria drammatica piece corale, un inconsapevole attore che si ritrova a reggere la scena senza impersonare alcun ruolo, privo in fondo di quel sottile meccanismo che si chiama finzione. Semplicemente mette in scena se stesso interagendo però con attori professionisti i quali seguono tutti, bene o male, il loro copione. Non si intuisce subito questo scollamento, anche perché lo strano personaggio, incapace di calcare la scena, appena entrato nel salotto degli Epancin, subito parla a ragion veduta di ghigliottine, pena di morte come assassinio legale e del supplizio di chi ha vissuto gli attimi precedenti una condanna a morte … e può raccontarlo ( altra interessante nota autobiografica). Il suo interagire con le signorine Epancin e con la generalessa lo porterà alla prima goffaggine di una serie infinita, mentre pian piano entrano in scena, per giustapposizione, tutti gli altri personaggi. È il bel mondo pietroburghese già scardinato dalle sue certezze, una sintesi mirabile della nuova mistura sociale che si insinua nei salotti, li insozza e li abbruttisce. Un nuovo mondo dove la nobiltà è tramontata anche se cerca ancora di non arretrare il passo rispetto al nuovo che avanza. Speculazioni che mettono in crisi i rapporti tra padri e figli, tra coniugi, tra possibili amanti. Una rete sociale ingarbugliata, sempre tesa, pronta all’ennesimo sgambetto. Via via gli innumerevoli personaggi convergono relazionandosi tra di loro, al centro lui, il principe, portatore di una nuova umanità, che genera ironia, rabbia, compassione, odio, amore. In prima persona o di riflesso, facendo emergere su tutte le indimenticabili figure di Nastasha e di Aglaja e in misura marginale di Varvara. Tre piccole donne, due polarizzate intorno al principe, l’altra degna contraltare dell’arrivista fratello Ganja: tre piccoli misteri del cuore umano capaci di generare al tempo stesso odio e amore. Un epilogo triste, senza speranza che restituisce il principe al limbo che lo ha generato.
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Capolavoro minore
La domanda è: come mai il principe Myskin è un idiota?
Presto detto: professa l'amore. Ma non è l'amore classico, dove c'è comunque una sottaciuta richiesta di scambio di sentimenti, come per esempio in una coppia.
L'amore che professa il protagonista è un amore univoco, spesso un amore non corrisposto e soprattutto un amore senza speranza.
All'amore poi egli unisce un altra parola ai più dimenticati o mai conosciuta: la pietà.
Quindi rispondendo alla domanda iniziale, non solo è idiota perchè professa l'amore tra gli uomini, ma è anche doppiamente idiota perchè ha pietà verso gli altri, verso chi lo dileggia.
E' facile magari ricollegare le vicende e le imprese di questo eroe russo alla figura del Cristo, eppure io vedo in questo libro un messaggio, non così lineare, così scontato.
E' vero che la figura di Myskin è una figura unica e quasi impossibile da trovare in una realtà normale, ma è anche vero, che spesso il suo essere "vittima" potrebbe nascondere anche dei risvolti un po ambigui.....mi spiego meglio: è vero che ovunque nel libro c'è questa contrapposizione fra questo eroe puro e semplice contro una serie di personaggi oscuri, malefici e spesso ripugnanti, ma se si legge tra le righe, si può vedere come il Myskin spesso provochi ed esasperi le persone che vengono con lui in contatto.
E' come se egli abbia una forza per calamitare le altrui debolezze e riesca poi ad esaltare la propria figura di casto e puro.
In Dostoevskij c'è ne sono tanti di eroi e anti eroi, di figure ambivalenti, oscure, ambigue, che racchiudono in se poli opposti di comportamenti. Che spesso non sono ciò che sembrano. E' difficile individuare un personaggio dell'autore che sia completamente colpevole o innocente,
A differenza di Tolstoj dove le domande hanno spesso una risposta, in Fedor Dostoevskij invece solitamente anche alla fine di un libro, si rimane spesso con qualche domanda senza risposta. Ci si chiede se un dato personaggio abbia agito nel bene o se un altro abbia commesso un qualche peccato.
Ritengo questo libro, un capolavoro minore, rispetto ad esempio a "Delitto e castigo" poichè manca spesso l'originalità della storia, il suo mistero. Lo stesso principe Miskyn è una figura un pò piatta, passiva, certe volte anche irritante. C'è una certa prevedibilità nei suoi comportamenti rinunciatari.
Come "i Demoni" anche questo tomo mi ha lasciato un senso di incompiutezza, di ripetitività, di mancanza di intreccio della storia.
Quindi alla fine la mia risposta alla domanda è: si è vero è un idiota, perchè non si lascia corrompere dal mondo circostante, dalla malvagità e meschinità che lo circondano. Ma allo stesso tempo la mia domanda diviene: ma non è che allora i veri idioti sono tutti quelli che egli ha attorno?
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Povera gente
IL ROMANZO DOVE GLI ESTREMI SI TOCCANO
“Molto più conosce Iddio un santo idioto, che un savio peccatore” (Domenico Cavalca, “Specchio di croce”)
“Conosco solo uno psicologo che abbia vissuto nel mondo in cui il cristianesimo è possibile, in cui un Cristo potrebbe nascere in ogni momento. E questi è Dostojevskij. Egli ha indovinato Cristo” (Friedrich Wilhelm Nietzsche, “Frammenti postumi 1888-1889”)
Momento cruciale di raccolta e di assimilazione di una mole di materiale enormemente vario ed eterogeneo (vi si possono trovare, suggestivamente affiancati, Cristo e la cronaca giudiziaria russa del tempo, il “Don Chisciotte” di Cervantes e l’interpretazione dell’Apocalisse, e molti altri temi ancora), “L’idiota” è un romanzo fortemente anticipatore di quelle tendenze che, negli anni successivi, prenderanno corpo ne “I demoni” e ne “I fratelli Karamazov”, e rappresenta l’autentico centro nevralgico da cui si dipartono le coordinate filosofico-poetico-religiose di quella complessa e affascinante costruzione che è il pensiero dostojevskijano. Degli aspetti prettamente ideologici del romanzo parlerò diffusamente più avanti: qui mi preme invece sottolineare come “L’idiota” possegga tutti gli attributi necessari per essere considerato un’opera paradigmatica di quelli che sono i procedimenti narrativi tipici dell’autore, e come tale si presti ottimamente ad una analisi strutturale del testo.
Come tutte le storie di Dostojevskij, anche quella de “L’idiota” non segue uno sviluppo lineare ed armonico, ma è condotta in maniera estremamente eterogenea. Da una parte assistiamo a una accentuata arbitrarietà temporale, alla creazione di un tempo artistico parallelo a quello reale, straordinariamente elastico e modellabile a seconda delle esigenze stilistiche dell’autore. Dostojevskij è capace ad esempio di concentrare una grande quantità di avvenimenti in poche ore di una giornata, per poi saltare a piè pari interi periodi di settimane o addirittura mesi. A dimostrazione di questo personalissimo procedimento può essere presa la prima parte del romanzo: in essa il principe Myskin, appena giunto a Pietroburgo dall'estero, senza denaro e senza conoscenze, si trova a dover affrontare nell’arco di una sola giornata un numero talmente grande di avventure (dall’incontro con il generale Epancin e la sua famiglia alla movimentata festa di compleanno di Nastasja Filippovna, in cui Myskin rivela di essere entrato in possesso di una ingente eredità e dichiara solennemente di voler sposare la padrona di casa) da essere in grado di riempire con esse un intero feuilleton; per contro, la seconda parte si apre inopinatamente con un buco nero di alcuni mesi, riempito solo da tanti “sembra” e “si dice” che ci fanno sì ritrovare gli stessi personaggi di prima, ma senza la possibilità di conoscere con sicurezza ciò che essi hanno fatto e pensato in tutto quel tempo. Questo alternare momenti di estrema condensazione narrativa a improvvisi salti temporali crea un anticlimax di grandissima efficacia, che permette a Dostojevskij di “ricaricare” la tensione narrativa (attraverso la creazione di zone d’ombra piene di mistero o l’introduzione di nuovi personaggi) e mantenere sempre desto l’interesse del lettore.
Dall’altra parte, Dostojevskij sorprende e disorienta per i continui cambiamenti di direzione dell’intreccio: leggendo “L’idiota” si ha spesso l’impressione che la vicenda non sia più governata dallo scrittore e possa in qualsiasi momento prendere una piega imprevista. Si tratta però di una impressione inesatta, perché i mille rivoli che sgorgano dal denso substrato drammatico della storia e che fanno a tutta prima assomigliare “L’idiota” a un romanzo d’appendice, si ricompongono alla fine in una struttura miracolosamente equilibrata, in cui lo spunto moralistico di partenza si realizza in maniera del tutto naturale e coerente.
Lungi dall’essere espedienti puramente meccanici e artificiosi di un abile mestierante, i copiosi colpi di scena che contraddistinguono la partitura dostojevskijana appaiono come il risultato necessario della estrema complessità psicologica dei tanti personaggi che si trovano ad interagire, in maniera più o meno conflittuale, tra loro. I complessi rapporti tra i personaggi del romanzo sono forse l’ambito in cui maggiormente si impone l’unicità di Dostojevskij scrittore. Il modo in cui le figure de “L’idiota” entrano in relazione tra loro non ha infatti nulla dell’abituale dialettica che troviamo nella letteratura tradizionale. I personaggi dostojevskijani sembrano al contrario delle particelle impazzite, che cercano instancabilmente negli altri la verifica del proprio essere: essi si attirano come delle calamite, si scontrano, si respingono, si incalzano di nuovo, spinti da un disperato bisogno di aprire il loro animo. E’ sufficiente l’apparizione di un essere che polarizzi queste esigenze, come il principe, per creare dal nulla una elaborata ragnatela di reciproci rapporti, che si concretizzano dal punto di vista narrativo in affascinanti dialoghi a due, in mutue confessioni nelle quali le persone (diversamente da ciò che normalmente capita di vedere nella realtà) si affrancano completamente dalla paura di esporsi alla presunzione o alla ipocrisia di un giudizio morale.
Ma Dostojevskij non si limita a questo: egli è un alchimista che sperimenta tutte le combinazioni possibili tra gli elementi (leggi: personaggi) a sua disposizione, al fine di ricavarne le reazioni psicologiche più esasperate, e perciò più sincere. E’ per questo motivo che Dostojevskij ama spesso radunare in un solo luogo, per una circostanza qualsiasi (una festa di compleanno, un ricevimento, una riunione casuale), un gran numero di personaggi fortemente antitetici e contrastati. In queste sequenze, di cui “L’idiota” offre eccezionali esempi (la scena in casa Ivolgin, con l’arrivo di inattesi personaggi a fare da detonatore a rapporti familiari e sentimentali fino ad allora in fase per così dire magmatica, oppure il ricevimento di Nastasja Filippovna, in cui tutti si attendono da lei una decisione definitiva, o ancora l’affollato raduno nella casa di Lebedev a Pavlovsk, nella quale si trova il principe convalescente), le passioni degli uomini sono continuamente sollecitate e portate alle estreme conseguenze. E’ significativo come la maggior parte di esse si concludano con l’insorgere di stati febbrili (Ganja, Lizaveta Prokofevna, Aglaja), di accessi di epilessia (Myskin) o addirittura di follia (Nastasja Filippovna), a testimonianza di come in queste circostanze la tensione raggiunga sovente livelli insopportabili e difficilmente concepibili nella realtà normale (si pensi alla crudelissima scena in cui Nastasja Filippovna, davanti a un uditorio costernato, getta centomila rubli nelle fiamme del camino, sfidando Ganja a tirarli fuori con le mani nude).
Dostojevskij non si cura tuttavia di apparire realistico. L’episodio sopra descritto è sicuramente eccessivo e anti-realistico, ma ha una sua finalità, quella di contribuire ad assegnare al denaro (che, nei romanzi dostojevskijani, ricordiamolo, non è mai guadagnato con gli usuali strumenti della vita di tutti i giorni, tanto è vero che non risulta che qualche personaggio eserciti un lavoro concreto) una funzione mistico-simbolica, come potenza che apre spazi sconfinati di libertà e di oppressione, di affermazione e di disgregazione. Anche le atmosfere del libro sono agli antipodi della quotidianità spicciola: Dostojevskij le rovescia come guanti, le trasfigura, impregnandole di morbosa inquietudine, disseminandole di segni premonitori e angosciosi contrappunti (come nella bellissima scena che culmina nell’agguato di Rogozin, durante la quale la maturazione dell’accesso epilettico di Myskin si accompagna all’arrivo dell’uragano) e dando loro i toni cupi e irreali di un incubo notturno.
Ho accennato poc’anzi alle parossistiche scene di gruppo, così tipiche dello stile di Dostojevskij: talora esse sono delle splendide occasioni per far risaltare le virtù degli eroi dostojevskijani, ma, ad essere sinceri, il più delle volte si rivelano delle vere e proprie trappole in cui i vari Myskin, Alesa, Zosima rischiano di naufragare miseramente. Dostojevskij, infatti, non spiana mai loro la strada, così da farne risaltare facilmente la grandezza d’animo, ma, al contrario, la cosparge di situazioni imbarazzanti e penose, che rischiano di comprometterne ad ogni istante la nobiltà. L’episodio del presunto figlio di Pavliscev, prima che la truffa di Doctorenko e compagni venga smascherata, è tale da scuotere pericolosamente l’ideale di evangelica bontà incarnato dal principe (così come i dubbi religiosi di Alesa Karamazov rischiano di portare quest’ultimo sulla strada dell’ateismo). Il fatto è che Dostojevskij in ogni romanzo vuole affermare una precisa tesi morale, ma, nel far questo, paradossalmente, si preoccupa sempre, con un accanimento direi quasi masochistico, di metter sul piatto della bilancia tutti gli elementi che minacciano di contraddire questa tesi, anche a costo di rendere questi ultimi più convincenti della stessa. E’ un atteggiamento coraggioso e degno di ispirare la stima ed il rispetto più profondi a qualsiasi uomo, fosse anche l’avversario più accanito della sua ideologia, poiché Dostojevskij, con la rinuncia ai facili e ricattatori stratagemmi narrativi, rischia sempre sulla propria pelle (come si vedrà in special modo a proposito della “Spiegazione necessaria” di Ippolit), gettando nel crogiolo della verifica romanzesca i suoi valori al pari di quelli che respinge.
Siamo giunti finalmente a parlare delle idee cardine di Dostojevskij: “L’idiota”, al pari di tutti i grandi romanzi dostojevskijani, è fatto di idee, in misura largamente superiore a quanto è dato verificare in qualsiasi altra opera della letteratura moderna. Eppure qui nulla è astratto, teorico, speculativo, ma le idee si compenetrano sempre in situazioni reali (anche se, richiamando quanto detto più sopra, non necessariamente realistiche) e personaggi in carne ed ossa. Il problema di Dio, che percorre sotterraneamente, come un fiume carsico che appaia solo raramente in superficie, tutte le pagine de “L’idiota”, non ha nulla di teologico o dottrinale, ma è un problema rovente e incalzante, che condiziona gli uomini in ogni minimo frangente della loro vita, anche quando essi si sforzano di ignorarlo o di nasconderlo. Innanzi tutto, Dio, o meglio quella sua ipostasi che è il Cristo dei Vangeli, informa totalmente di sé il modo di essere del principe Myskin.
Myskin è un personaggio profondamente cristiano: in lui i precetti etici del cristianesimo non sono vuote formule teologiche, ma inderogabili norme di condotta. Se esaminiamo con attenzione la sua personalità, ci accorgiamo che la sua esistenza è una continua provocazione al mondo circostante. Egli è un semplice, indifferente alla propria condizione fino al totale oblio di sé, mentre intorno a lui tutti sono accecati dall’amor proprio e si accaniscono ferocemente nel tentativo di far trionfare la loro egoistica individualità; egli ha una fiducia cieca negli altri, anche quando appare evidente che essi ordiscono trame e complotti a sua insaputa, spesso a suo danno; è sincero fino al masochismo e al sacrificio, incapace com’è di mentire per il proprio tornaconto; la sua intelligenza non è legata alle leggi fondamentali di causalità e non contraddizione e alle regole della morale, ma è l’intelligenza del sentimento, quella che Aglaja definisce l’intelligenza primaria in contrapposizione a un’intelligenza secondaria comune alla maggior parte degli uomini. Myskin dà scandalo, ma non perché sia uno sciocco o uno sprovveduto (anche se gli altri in molte circostanze lo credono), bensì perché egli non vive secondo le norme e le convenzioni sociali, perché dalla sua esistenza sono esclusi i principi generalmente accettati dal mondo: tratta alla pari le persone a lui inferiori per età o per rango (i bambini, il domestico di casa Epancin), non capisce la necessità di affrontarsi in duello per dirimere le controversie, e tutto ciò lo fa senza sforzarsi, senza costringersi ad obbedire a tutti i costi a un comandamento o a un obbligo morale, ma in maniera del tutto naturale e spontanea. Myskin ha nel romanzo una funzione straniante, in quanto con la sua totale diversità (non a caso, egli si considera ed è considerato uno straniero) "defamiliarizza” la realtà costituita, squarciando il velo della sua falsa apparenza.
Alla luce di ciò che si è or ora detto, non stupisce che le persone più vicine al principe Myskin siano i fanciulli, poiché essi sono privi di malizia e di falso orgoglio e il loro animo non è ancora corrotto dall’esperienza né rattrappito in una ortodossia di giudizi e di impressioni. In occasione del suo soggiorno in un piccolo villaggio svizzero, l’influsso che Myskin esercita su di loro viene ipocritamente osteggiato e bollato come malsano dai gretti simboli dell’autoritarismo sociale (i genitori, il pastore, il maestro), ma sono proprio i bambini gli unici a mostrare un barlume di autentica umanità nei confronti di Marie, la povera pastorella tisica, ripudiata ed emarginata dal bigotto moralismo della piccola comunità. Myskin non si vergogna di apparire a sua volta un fanciullo e al giovane amico Kolja confida, con candido stupore: «Come siamo ancora bambini, Kolja! e.. e.. che bella cosa esser bambini!».
Myskin dovrebbe essere, nelle intenzioni dell’autore, un essere asintotico alla condizione spirituale perfetta, quella che si sostanzia nel comandamento di Cristo di amare gli uomini come se stessi. In alcuni passi del quaderno di appunti di Dostojevskij, troviamo scritto che “il supremo e ultimo sviluppo della persona deve appunto giungere a far sì che l’uomo trovi, capisca e con tutta la forza della sua natura si convinca che il supremo uso che può fare del proprio io è, in un certo senso, distruggere questo io, darlo interamente a tutti e a ciascuno anima e corpo e senza riserve… Tutta la storia sia dell’umanità, sia anche di ognuno singolarmente preso, è soltanto sviluppo, lotta, aspirazione e raggiungimento di questo fine”. Questa è la grande utopia de “L’idiota”, una utopia etica che il principe Myskin persegue con abnegazione e che vuol prendere le distanze dall’utopia politica del socialismo.
Anche ne “L’idiota” Dostojevskij non manca di attaccare duramente i nichilisti, sebbene questa polemica non costituisca, come ne “I demoni”, il motivo centrale del romanzo. La rievocazione dell’eccidio della famiglia Zemarin da una parte, e l’episodio di Burdovskij, che Doctorenko e i suoi compagni strumentalizzano in maniera ignobile, dall’altra, svelano quelli che per l’autore sono gli imperdonabili errori delle dottrine socialiste del tempo: l’intransigenza ideologica e l’esclusione del diritto di scelta (una posizione che all’incirca si riassume così: “solo noi siamo nel giusto e tutti coloro che non la pensano allo stesso modo sono nemici da combattere"), l’arbitraria manipolazione delle argomentazioni a sostegno delle proprie tesi (Doctorenko e i suoi amici ricusano sdegnosamente ogni manifestazione di gratitudine, ma poi, come intuisce Lizaveta Prokofevna, fanno leva proprio su questa per indurre Myskin a soddisfare le pretese di Burdovskij) e infine il sacrificio dell’interesse individuale a vantaggio di quello collettivo. Ma la conseguenza più aberrante cui le teorie liberali, non supportate da solide fondamenta etiche, conducono è il trionfo del diritto della forza, cioè, come si esprime Evgenij Pavlovic, del “diritto del pugno individuale e dell’arbitrio personale”, partendo dai quali è quasi inevitabile giungere al “diritto delle tigri e dei coccodrilli”. Persino un essere meschino come Lebedev se ne rende conto, quando afferma di non credere agli strumenti del progresso che dovranno assicurare la felicità del mondo, “giacché codesti carri che portano il pane all’umanità, ove all’agire manchi una base morale, possono con perfetto sangue freddo escludere dal godimento di ciò che portano una parte cospicua del genere umano”. E lo stesso principe Myskin non può non riconoscere che il diffuso pervertimento delle idee spinge molti giovani a commettere orrendi delitti nella presunzione, che potremmo definire raskolnikoviana, di avere tutto il diritto di comportarsi così, quasi che a legittimarli, rendendo il delitto “naturale” e “necessario”, fosse sufficiente una situazione di diffusa ingiustizia sociale.
La problematica religiosa de “L’idiota” non si esaurisce nella contrapposizione con le teorie socialiste e liberali, la cui fallacia, come si è appena visto, è dimostrata in maniera annichilente. In antitesi a Myskin e al suo amore cristiano, Dostojevskij ha infatti messo anche Ippolit e la sua ribellione. Con Ippolit fa scopertamente il suo ingresso la morte, la cui presenza, sotto forma di funesti presagi (come l’inquietante leit motiv del coltello) e di dolorosi ricordi, percorre il romanzo fin dalle prime pagine. Ippolit infatti è tisico e sa di dover morire in breve tempo (glielo ha rivelato uno studente universitario “materialista, ateista e nichilista”). Una penosa situazione di impotenza, di solitudine, di invidia e di orgoglio represso, lo induce a scrivere, e poi a leggere di fronte a un uditorio numeroso ed eterogeneo accorso in casa del principe per festeggiare il suo compleanno, la sua “Spiegazione necessaria”. In questo freddo eppur straziante addio alla vita, in questa confessione insieme esaltata e lucidissima, Ippolit sviluppa e porta alle estreme conseguenze una singolare filosofia materialistica dell’uomo, della natura e della religione, che lo apparenta per molti aspetti ad altri importanti personaggi dostojevskijani, come Kirillov e Ivan Karamazov.
Questa filosofia è compendiata dal terrificante sogno dello scorpione: Ippolit sente la natura come una “bestia enorme, implacabile e muta”, o meglio come una “mastodontica macchina di nuovissima costruzione” che tutto afferra, stritola e inghiotte insensatamente. Una simile concezione della natura, solo apparentemente delirante, in realtà piena di complessi risvolti psicanalitici, non porta Ippolit ad escludere automaticamente l’esistenza di Dio, sebbene egli poi proclami di non sottomettersi ad alcuna forza soprannaturale (“Non riconosco alcun giudice sopra di me”). Ippolit si sforza di negare il mistero, quel mistero che, sia pure in forma provocatoria ed angosciante, emerge anche dalla tela del “Cristo morto nel sepolcro” di Holbein il Giovane, ma la negazione, si sa, è già in qualche modo una affermazione. Difatti alla fine Dio svela a Ippolit il suo volto, che non è quello misericordioso dei Vangeli e neppure quello terribile ma giusto dell’Antico Testamento, bensì quello, spietato e crudele, di padre che provoca dolore ai suoi figli. “La vita eterna io l’ammetto e, forse, l’ho sempre ammessa. Che la coscienza si sia accesa in noi per la volontà di una forza superiore, abbia gettato uno sguardo al mondo circostante ed abbia detto: “io sono”, e che poi tutt’a un tratto quella stessa forza suprema le ordini di annientarsi, perché così è necessario lassù per qualche scopo - e anche senza spiegare per quale -, tutto questo io l’ammetto, ma ecco di nuovo l’eterna domanda: che bisogno c’è, per giunta, della mia rassegnazione? Non mi si può divorare semplicemente, senza pretendere da me delle lodi a ciò che mi divora? Possibile che lassù qualcuno si senta veramente offeso perché io non voglio pazientare quindici giorni?… Chi dunque, dopo tutto questo, mi giudicherà, e per quale colpa? Sia come volete, ma tutto ciò è assurdo e ingiusto… Ma se tutto ciò è così difficile, anzi assolutamente impossibile a capirsi, sarò forse responsabile di non essere in grado d’intendere quello che è incomprensibile?… Se fosse stato in mio potere di non nascere, certo non avrei accettato l’esistenza a condizioni tanto derisorie…”.
C’è un involontario parallelismo tra la malattia di Ippolit e la esecuzione capitale raccontata in inizio di romanzo da Myskin. Questi riconosce, con uno sdegno che è umanista prima ancora di essere cristiano, che la pena di morte è una punizione di gran lunga peggiore del delitto commesso, ma, utilizzando lo stesso metro di giudizio, si potrebbe facilmente, e in maniera quasi inoppugnabile, arrivare a sostenere la spietatezza di un Dio che condanna a morte un giovane nel fiore degli anni. E’ una crudeltà che nessuna armonia futura può legittimare. L’uomo, che è essere corporeo e limitato, non può infatti accettare una immensa ingiustizia terrena in nome di una incerta ricompensa futura. E’ assurdo d’altronde attribuire a Dio il diritto di una suscettibilità tipicamente umana e addossare contemporaneamente all’uomo l’obbligo di sottomettersi a una fede irrazionale che è al di là delle sue facoltà di comprensione. L’unica risposta che Ippolit è in grado di dare è il suicidio come estremo atto di volontà: “Non muoio già perché mi manchi la forza di sopportare questi venti giorni… La natura ha talmente limitato la mia attività col suo termine di venti giorni, che il suicidio è forse l’unico atto che io possa ancora cominciare e finire di mia volontà. E se io volessi approfittare della mia ultima possibilità di agire? La protesta, a volte, non è poca cosa…”.
Anche se il tentativo di suicidio di Ippolit finisce in farsa e sotto sotto egli stesso cerchi null’altro che il bel gesto, l’ammirazione degli altri e la consacrazione della sua speranza di essere un grand’uomo (“sognai che tutti di colpo mi avrebbero aperto le braccia per stringermi in un amplesso e mi avrebbero chiesto perdono”), la forza della sua confessione rimane intatta, contrapponendosi specularmente alla disponibilità di Myskin verso la fede. Ancora una volta a risaltare è il carattere problematico della fede, la dissociazione profonda tra sentimento religioso e razionalità. Diversamente da Kierkegaard, che nell’episodio di Abramo e Isacco vede pur sempre una fede consapevole ed elevata, coerente fino al sacrificio supremo, Dostojevskij intende la fede come qualcosa di assolutamente estraneo alla logica e alla morale, spesso addirittura coesistente con il rifiuto, rozzo e bestiale, di ogni legge umana. Il significato della fede dostojevskijana è espresso molto bene nei quattro episodi che Myskin racconta a Rogozin, dall’ateo colto ed educato che, parlando di Dio, ha l’aria “di parlare di tutt’altro”, al contadino che uccide il compagno “recitando tra sé una triste preghiera”, al soldato ubriaco che vende la sua croce per andarsela a bere in osteria (“Non voglio affrettarmi a condannare questo venditore di Cristo. – dice Myskin – Iddio sa quel che si nasconde in questi deboli cuori di ubriaconi”), fino ad arrivare all’umile donnetta col lattante, in cui si può cogliere addirittura l’essenza del cristianesimo, cioè “la nozione di Dio come nostro vero padre e della gioia di Dio davanti all’uomo come gioia del padre davanti al figliol suo: il pensiero fondamentale di Cristo”. Si può affermare, citando ancora le parole di Myskin, che “l’essenza del sentimento religioso è indipendente da qualsiasi ragionamento, da qualsiasi colpa o delitto, da qualsiasi ateismo; c’è in esso qualche cosa di indefinibile, e ci sarà sempre; qualche cosa che sempre gli atei sfioreranno appena, discorrendo sempre di tutt’altro”.
Il problematicismo che si riscontra nella fede è fors’anche la caratteristica principale di tutto il romanzo. Dostojevskij è un vero e proprio psicanalista ante litteram e analizza gli atti e i pensieri dell’uomo nella sua inesauribile molteplicità dei loro significati. Gli stessi valori di bene e male, di onestà e delitto, di virtù e vizio, di amore e odio divengono nozioni fluide e problematiche, perdendo la loro fissità dogmatica. Ciò che appare bene, a uno sguardo più attento si rivela spesso nient’altro che filisteismo morale, mentre per converso il male è a volte più umano di quel che si pensa.
Questo problematicismo lo si riconosce nella stessa personalità del protagonista, specialmente in quel suo continuo rimproverarsi di essere posseduto da “doppi pensieri” (ad esempio, avere una smodata fiducia nel prossimo e contemporaneamente una ineliminabile diffidenza), oppure nella sua convinzione di non essere in grado di esprimere i pensieri e i sentimenti che possiede nell’animo in parole che possano guidare e aiutare le persone intorno a lui. Myskin rivela, con il trascorrere del tempo, degli aspetti imprevedibili, avvalorando addirittura la tesi di una clamorosa, ma non impossibile, identità con l’antagonista Rogozin. Myskin e Rogozin sembrano l’uno il contrario dell’altro: per il primo l’amore è prevalentemente compassione, per il secondo è passionalità sfrenata; il primo ha una fede semplice e spontanea, il secondo l’ha persa da tempo e lotta furiosamente con sé stesso per riconquistarla; il primo dirige indifferentemente i propri pensieri e sentimenti verso una schiera potenzialmente infinita di soggetti, il secondo ha un’unica, maniacale, idea fissa per cui vivere: Nastasja Filippovna; il primo è spiritualità, il secondo è carnalità; e si potrebbe proseguire oltre. Apparentemente antitetici, Myskin e Rogozin sono in realtà complementari, due facce della stessa medaglia. Come afferma Ippolit in un passo del romanzo, “le estremità si toccano”, e Dostojevskij lo sottolinea a più riprese sovrapponendo i due personaggi nei principali snodi narrativi (l’arrivo in treno a Pietroburgo, l’amore per Nastasja Filippovna, la quale oscilla freneticamente tra i due, lo scambio delle croci, l’assassinio), fino a dar loro un destino comune. Psicanaliticamente, Rogozin è il doppio di Myskin: gli occhi nella folla da cui il principe si sente continuamente osservato fanno vagamente pensare al poeiano “William Wilson”, mentre il morboso e patetico abbraccio nel cuore della notte fatale sembra sancire il definitivo annullamento dell’uno nell’altro. Non è un caso che Rogozin sia all’origine dei “doppi pensieri” del principe: avendo quest’ultimo, nel corso della prima visita, sospettato Rogozin capace di ucciderlo, egli sente di dover scaricare dalle spalle del compagno (e addossare invece sulle proprie) ogni colpa e responsabilità.
L’esistenza di personaggi come Myskin e Rogozin non è che un’ulteriore, irrefutabile prova di come la personalità dell’uomo sia problematicamente complessa e al tempo stesso insufficientemente sviluppata. Se solo Myskin possedesse qualcuna delle indubbie qualità di Rogozin, probabilmente il romanzo non finirebbe in tragedia. La luttuosa conclusione de “L’idiota” non è infatti altro che la conferma del fallimento esistenziale del suo protagonista, troppo angelico per essere uomo fino in fondo. Molteplici sono invero i limiti e i difetti del principe Myskin ad una analisi non superficiale del personaggio. Egli è abulico e passivo (ma è quasi una legge di natura che quanto più è elevato il grado di un valore tanto più debole è la sua affermazione nel mondo della realtà immediata), compiange tutti senza consolare nessuno (lo ricordiamo come presenza muta e impotente di fronte ai drammi di Ippolit prima e di Rogozin poi), è incapace di dare giudizi discriminanti, distinguendo nettamente tra bene e male. Nella scena del drammatico incontro tra i due grandi, titanici, personaggi femminili del romanzo, Nastasja Filippovna e Aglaja Ivanovna, Myskin sta in mezzo a loro come una marionetta succube e priva di volontà: se finisce col respingere Aglaja e scegliere Nastasja è solo perché quest’ultima gli sviene tra le braccia, ma ovviamente non riesce poi a fare felice neppure lei. Il suo amore è grande, ma incorporeo ed esangue, è compassione più che amore carnale, è in fin dei conti non-amore, proprio perché è universale e si indirizza indistintamente a più persone senza fermarsi su una sola di esse. Al pratico e positivo Evgenij Pavlovic che gli obietta perplesso di non poter amare veramente Nastasja Filippovna, Myskin risponde: “«Oh no! io l’amo con tutta l’anima!..». «E nello stesso tempo assicuravate Aglaja Ivanovna del vostro amore?». «Oh sì, sì!». «Ma come? Vorreste dunque amarle tutt’e due?». «Oh sì, sì!»”.
La smaniosa brama di redimere e fare del bene che caratterizza il principe Myskin non è la vera via d’uscita dalla tragedia dell’uomo: in un certo senso, i veri eroi positivi del romanzo sono personaggi umili e secondari, come Evgenij Pavlovic e Vera Lebedeva, i quali sanno stare al loro posto senza aver l’ambizione di cambiare il mondo. “Non è facile trovare il paradiso in terra, - dice saggiamente il principe Sc. a Myskin – e voi ci fate proprio un po’ di assegnamento: il paradiso è una cosa difficile, principe, molto più difficile che non paia al vostro ottimo cuore”. Di questa difficoltà, Dostojevskij è pienamente consapevole, ma è lungi da lui il pensiero di trarre da questa constatazione la drastica deduzione che il cristianesimo ha fallito il suo scopo. I vari principi Myskin che si sono succeduti nel corso dei secoli non sono riusciti – è vero – ad attuare l’ideale di fratellanza universale che era l’insegnamento di Cristo, ma è altrettanto vero che questo ideale non è di questa terra e potrà affermarsi – e la sublime utopia dostojevskijana realizzarsi con pienezza – solo nel regno eterno dell’aldilà.
Indicazioni utili
L'idiota
Non è sempre facile leggere Dostoevskij e a prima vista questo poderoso romanzo può sembrare un cimento più impegnativo di altri: un racconto a tesi – lo studio di un’anima bella e a suo modo innocente nel suo impatto con uno spaccato della statica e mediocre società russa del tempo – in cui si intrecciano mille sottotrame, ma dove l’azione progredisce per spostamenti quasi impercettibili. Eppure è un libro che conquista subito, forse aiutato anche dalla traduzione di Federigo Verdinois, il cui periodare ‘rotondo’ è invecchiato con stile: non importano né le teorizzazioni né i (pochi) passaggi a vuoto dovuti alla fretta dello scrittore pressato dall’editore, sin dal primo dialogo in treno tra il protagonista e Rogožin si sprofonda in una narrazione avvolgente che regala stupendi ritratti di personaggi che si muovono in una quotidianità che Dostoevskij riesce a far sentire come eccezionale. Benché il personaggio principale sia il principe Myškin – tornato in Russia dopo un lunghissimo soggiorno in Svizzera dove è stato inviato ancora ragazzo per curare l’epilessia – risultano altrettanto importanti perlomeno il suddetto Rogožin (soggetto borderline ben prima che tale qualifica venisse solo immaginata) e le due donne a cui si legano i loro destini: la bella e perduta Nastas'ja Filippovna, sedotta adolescente dal maturo Tockij, che gioca con il proprio ruolo concedendosi libertà insolite sfidando il rischio di passar per pazza, finisce per specchiarsi negli atteggiamenti mercuriali, ma pure velleitari della rampolla di buona famiglia Aglaja Ivanovna. Questa è figlia di Elizaveta Prokof'evna, una delle figure più belle e senza dubbio la più travolgente della compagnia: lontana parente del principe, guida le tre figlie e la sua dimora con il piglio militaresco che manca, almeno nelle faccende domestiche, al marito generale Epan?in. Accanto a simile ritratto di casata benestante, c’è la descrizione di quella di Ardalion Ivolgin costretta ad arrabattarsi affittando parte dell’abitazione in cui vive: un padre alcolizzato e pazzo, ma abile nell’ inventarsi mirabolanti ricordi, che schiaccia una moglie diafana e i mediocri figli, il livoroso Gavrila (peraltro innamorato senza speranza di Ardalja) e l’astuta Varvara, capace di trovarsi un matrimonio conveniente con l’usuraio Ptycin e di infilarsi in casa Epan?in nonché nelle trame amorose che vi si svolgono. Il solo a distinguersi è il ragazzo Koljia che non per niente diventa l’unico vero amico del principe: non certo come l’eterno intrallazzatore Lebedev, canaglia sempre in piedi in bilico tra simpatico e l’antipatico, oppure come il giovane tisico Ippolit che sarebbe da compiangere se non desse l’impressione di ricavare il massimo dalla sua precaria posizione fino alla scena madre del tentato suicidio pubblico. Myškin naviga fra tutti costoro - e parecchi altri – dando una fiducia incondizionata a dispetto dell’evidenza che molti puntino solo ai suoi soldi: così facendo finisce per portare alla luce la vera natura di chi entra in contatto con lui e non è più capace di dissimulare pregi e, soprattutto, quei difatti che, pare dirci lo scrittore, finiscono senza scampo per prevalere. La narrazione rimane sempre corale, sia nelle pagine ambientate a Pietroburgo, sia in quelle che si svolgono nella località di villeggiatura di Pavlovsk, stringendosi attorno ai quattro soggetti principali solo quando è il momento di svoltare verso una conclusione in cui l’amore e la follia si combinano virando in tragedia un tono che nei precedenti capitoli si mantiene invece in linea di massima sul leggero almeno per quanto riguarda la voce narrante. Al contrario, i personaggi si perdono spesso e volentieri in lunghi sproloqui che vanno dalle velleitarie auto-giustificazioni (Lebedev ne è un vero specialista) ai più svariati argomenti: in quest’ultimo caso ne escono a volte divagazioni che appesantiscono l’insieme (si veda quella sulla pena di morte) rappresentando i rari momenti davvero deludenti. Assai meglio continuare appassionarsi alle piccole storie che si vanno sviluppando, mentre la Storia – in aperta polemica contro Tolstoij – è accuratamente tenuta fuori dalla porta a favore di uno sguardo critico e beffardo sull’immobilità socio-culturale della Russia vista attraverso gli occhi di un estraneo: interpretazioni cristologiche o meno, Myškin è un personaggio che forse come nessun altro fa della debolezza una forza fungendo in questo modo come perno di un romanzo che coinvolge come pochi chi è disposto a concedergli la giusta attenzione.
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La grande bellezza
Il principe Myskin compare sulla scena. E' buono, autentico, compassionevole. Un puro. Un uomo quasi ai confini della realtà, pronuncia soltanto parole sincere, compie azioni sempre volte al benessere del prossimo, soffre con il prossimo, aiuta gli altri a rivelare il proprio sentire. Come un bambino, ingenuo, innocente, si stupisce di tutto e non agisce per il proprio tornaconto personale.
Un marziano.
Questo principe, figura inizialmente positiva, si trasforma, man mano che i vari personaggi ce lo descrivono attraverso le loro esperienze, in qualcosa di strano, di diverso, di insopportabilmente irreale. Qualcosa di insopportabilmente statico. Qualcosa di insopportabilmente perdente.
La bontà e la pietà sono cose del nostro mondo? Conviene essere "buoni" in un mondo fatto di "cattivi"? Il romanzo non ha un lieto fine, quindi implicitamente per Dostoevsky la risposta è no.
Il romanzo è costruito su contrapposizioni. Il buono, Myskin, contrapposto a tutti gli altri che lo considerano un vero idiota. La passione di Nastasja in antitesi alla pietà e tenerezza del principe. Il sentimento contro l'arrivismo, la fede contro l'assenza di Dio. L’immagine di Cristo convenzionale, sacra e divina, contrapposta a quella di Holbein del Cristo deposto, contratto, sofferente, stravolto e tutt'altro che sacro ma perseguitato dall'uomo, che non esita a uccidere chi pensa sia suo nemico.
La pena capitale, contraria allo spirito del cristianesimo e al quinto comandamento, contro il rispetto dei diritti umani.
Non si può debellare il male senza conoscerlo, saranno la compassione, la pietà per gli altri, la disponibilità a far proprie le sofferenze degli altri che salveranno il mondo, non la bellezza di cui parla il principe.
Libro molto interessante, anche se non esente da difetti. Rispetto ai magnifici Delitto e castigo, I fratelli Karamazov e I demoni l'ho trovato un po' prolisso, frammentato e con un eccesso di personaggi che ne riducono l'efficacia. Resta però la grandissima capacità narrativa di Dostoevskij, che riesce a raccontare tramite la costruzione di una rete di interazioni tra personaggi complessi, realistici, perfettamente caratterizzati.
Non perfetto, forse. Ma capace di stimolare i neuroni come pochi altri. E' poco?
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La bellezza salverà il mondo
Autenticità, purezza, compassione: l'incredibile triade di ideali incarnati dal principe Myskin sembrano quanto di più estraneo possa esistere dall'idiozia, ma la verità è che la parola "idiota" ha un significato molto più ampio e profondo di quanto si possa erroneamente immaginare. Dopo il tema del libero arbitrio di cui sono intrise le vicende de "I fratelli Karamazov", il male de "I demoni" e la sua eterna lotta con il bene e con il senso di colpa che perseguita Raskolnikov in "Delitto e castigo", Dostoevskij elabora un personaggio che sembra quasi ai confini della realtà, un giovane uomo che pronuncia soltanto parole sincere, che compie azioni sempre rivolte al benessere del prossimo, che soffre e ride con lui e lo aiuta a estrarre dal sottosuolo dell'anima i pensieri più misteriosi e i dubbi che ciascuno di noi tenta disperatamente di seppellire, perchè teme l'esito della loro risoluzione. La capricciosa sfacciataggine di Elisaveta, la volubilità di Aglaja, l'orgoglio e le assurde contraddizioni di Nastasja e l'impetuosità di Rogozin sono lo sfondo di un bellissimo quadro che vede nel principe il suo soggetto principale, sempre fedele a se stesso e alle proprie convinzioni.
Così idiozia diviene sinonimo di originalità, di diversità, perché nessuno è come lui, non un'anima viva è in grado di comprenderlo pienamente, di accettare che tutto ciò che egli dice e fa non è frutto di un attento calcolo come Lebedev, non è una strategia mirata al raggiungimento di un fine ultimo che conduca ad un vantaggio personale, ma il comportamento sincero e trasparente di un individuo che vede la realtà con gli occhi un bambino, con l'ingenuità e l'innocenza di un fanciullo che si meraviglia di fronte a qualsiasi cosa e che agisce a favore di chi è più bisognoso della sua pietà e compassione. L'amore per due donne, Aglaja e Nastasja, viene interpretato da alcuni come un sentimento la cui doppiezza induce al disprezzo, all'incredulità, perché visto come un subdolo inganno che provoca l'infelicità della povera Aglaja. Soltanto Evgenij comprende che l'amore del principe Myskin non può essere paragonato alla passione di Rogozin né a qualsiasi altro tipo di sentimento terreno, è un moto dell'anima autentico e disinteressato, e come tale non può essere che rivolto a qualsiasi individuo che ne abbia bisogno: è amore per l'essere umano in quanto tale indipendentemente dalle sue qualità fisiche o psichiche. Ecco perché il principe sceglie Natasja, egli sente il dovere di curarla da quella perfida malattia che le oscura la mente convincendola di essere una donna perduta, priva di onore e dignità e quindi destinata ad una meritata ed eterna sofferenza. Nastasja pensa di essere colpevole di un peccato da cui non potrà mai riscattarsi e questa consapevolezza la spinge a bramare il dolore e la lascivia, a ostentare un orgoglio e un'autorevolezza che tenta di esercitare con i suoi improvvisi eccessi di amore ed odio, di passione e gelida indifferenza, con quegli occhi neri e profondi come voragini con cui strega qualsiasi uomo eccetto Myskin, il quale sa che lo sguardo aggressivo di Nastasja è solo una maschera che cela una ragazza indifesa.
L'idiota è tutt'altro che stupido, è acuto, sottile nelle sue riflessioni e quella che viene definita malattia, l'epilessia, diviene la chiave che gli consente di aprire le porte del futuro, di presentire gli eventi che cambieranno l’esistenza degli altri personaggi.
Altra figura di rilievo è quella di Ippolit, colpito da un male incurabile, da una condanna a morte che non ha il fascino cruento di quelle a cui Myskin aveva assistito, ma che procede lentamente, insidiosa. Ippolit teme ma allo stesso tempo brama il giorno in cui i suoi tormenti avranno fine poiché la vicinanza della fine lo paralizza rendendo i suoi ultimi attimi sulla terra insopportabili. Quale impresa può intraprendere un uomo con la consapevolezza che non riuscirà ad assistere alla sua piena realizzazione? La sua confessione è disarmante, sono le ultime parole di un uomo che ha coraggio, pur ostentando una tragica rassegnazione che solo in parte gli appartiene.
Dostoevskij dimostra per l’ennesima volta un’incredibile genialità nel delineare personaggi affascinanti, misteriosi ma sempre profondamente umani e reali. Invidia, vittimismo, infantilismo, egoismo, i semi della discordia che alimentano discussioni e dissidi a cui si contrappone il temperamento pacato del principe; si tratta tuttavia di una mitezza tutt’altro che noiosa, poiché come scopre il lettore, si basa su una purezza d’anima che viene ingiustamente scambiata per idiozia. In un mondo dominato dall’ipocrisia e dalla falsità, chi si distingue per la propria rettitudine sarà inevitabilmente un incompreso, un uomo malato rispetto ai sani principi dell’immoralità.
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O dolce Principe...
Un classico, mi dicono. Ho letto molti classici in verità, ma nessuno con questo stile.
é stata una lettura lunga e a volte non riuscivo a raccapezzarmi con tutta questa gente! Tante persone, tante caratteristiche per ognuno di loro. Sembra che l'autore abbia voluto mettere il mondo in un unico libro: c'è il principe ingenuo, chi lo vuole imbrogliare, chi lo ama ma è isterica, la pazza svergognata, l'alta società incurante dei poveracci, il tisico arrogante, ....
CIò che mi è piaciuto è stata come si è snodata la storia, solo poche volte è risultata noiosa e senza capo nè coda. Non racconterò la trama, l'hanno già raccontata altri. Però voglio lodare questo principe Lev che è così dolce, così ingenuo, che a volte vien voglia di prenderlo per le spalle e dargli una bella scrollata, per fargli vedere che è cresciuto, che ha degli adulti davanti e che il mondo è molto più orribile confronto alla sua concezione. Personalmente ho fatto fatica a tollerarlo in alcuni passaggi, tipo verso la fine quando fa quel bel tiro mancino alla signorina Aglaja... tu e il tuo moralismo dove pensate di andare mio caro principe?? verso la fine della storia....ovvio!
Il buono e i cattivi.
“La bellezza salverà il mondo”, così diceva Ippolit nel suo monologo (vaneggio?) rivolto al principe Myskin, ed è questa la frase più conosciuta e probabilmente iconica del grande romanzo di Dostoevskij. In realtà poi nel corso del romanzo ci accorgiamo che di bello nei vari personaggi che incontriamo c’è ben poco. Solo lui, il principe Lev Nikolaevic Myskin, è degno di questa frase, e viene anche però bollato con l’appellativo di “Idiota”. Sia chiaro che lo scrittore russo quando diede questo titolo alla sua opera non si riferiva al significato in senso stretto, ma a quello secondario, cioè “malato, affetto da un morbo”, e questo era dovuto ai vari comportamenti del principe Myskin quando si trova a tu per tu con altre persone. Il principe Myskin infatti incarna la semplicità, la genuinità, la spontaneità. E’ ingenuo come un bambino ed ogni sua reazione agli occhi degli estranei appare come un problema agli occhi degli interlocutori, che così lo bollano come “Idiota”. A distanza di quasi 150 anni la frase “troppo buono = stupido” non vi suona ancora molto attuale?
La trama del romanzo è molto semplice, il principe Myskin torna a Pietroburgo dopo essere stato in cura per l'epilessia in Svizzera, finalmente è guarito e vuole tornare in patria dove lo aspetta una cospicua eredità. Qui conosce però diversi personaggi, primo tra tutti una donna di cui si innamorerà, Nastasja Filippovna. Natasja è una donna molto bella, e anche grazie alla sua dote, attira l’attenzione di diversi uomini. Oltre a Myskin infatti, che prova un amore sincero per la donna, sono interessati a lei (per motivi economici) anche Ganja (il segretario del generale Epancin, colui che ospita inizialmente Myskin) e Rogozin (cinico e spietato mercante). C’è però un’altra donna per cui il principe prova un amore sincero, ed è una delle tre figlie del generale, Aglaja, e che diverse volte lo metterà in contrasto con la madre Elizaveta e con Natasja stessa. Il romanzo racconta di questa travagliata storia d’amore del principe che cercherà in tutti i modi di sposare Natasja,e proprio quando era sul punto di farlo…
Come detto all’inizio, in questo romanzo vi è solo un personaggio buono, ed è il protagonista, per il resto anche il più “pulito" sta comunque tramando qualcosa, e su questo c’è forse un’anticipazione ai Fratelli Karamazov, dove come si scopre alla fine, ognuno ha una sua colpa sull’omicidio. Il contrasto che Dostoevskij ci vuole presentare è quello più antico, il bene contro il male, il buono contro il cattivo. Qui usa però un’iperbole, il buono è così buono da sembrare innaturale, fuori dal mondo, alienato, stupido appunto (agli occhi degli altri). Forse è il romanzo meno policentrico di tutti quelli più importanti, sebbene comunque i personaggi rilevanti siano diversi, ma la contrapposizione Myskin-Resto del mondo è senza dubbio la parte principale della storia.
Come al solito non macano i monologhi, interiori e non, dei personaggi, che poi come si sa non sono nient’altro che l’esposizione delle idee dell’autore su diverse questioni. E’ presente come sempre quella sulla religione, ma questa volta quella che mi ha colpito di più è la riflessione che il principe fa al maggiordomo sulla pena di morte, un pensiero veramente elevato e illuminante.
Devo dire onestamente che tra i tre romanzi più famosi, e cioè questo, Delitto e Castigo e i fratelli Karamazov, questo probabilmente è quello che mi è piaciuto meno (ma sempre tantissimo) forse perché ho notato più situazioni stabili (le classiche cene o riunioni casalinghe) che venivano riempite di monologhi e rallentavano un po’ il racconto, ma credo sia solo un mio gusto personale e logicamente il libro resta uno dei capisaldi della letteratura russa dell’800.
In conclusione la storia del principe Myskin va sicuramente letta, è una riflessione lunga 500 pagine di come spesso la bontà nel mondo venga confusa in stupidità, e al contrario di altri romanzi di Dostoevskij qui non c’è la redenzione finale, qui l’amore non vince tutto come in Delitto e castigo, qui paga uno per tutti, paga chi non ha colpe. Conviene quindi essere buoni in un mondo di cattivi?
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"La bellezza salverà il mondo"
"La bellezza salverà il mondo": è questa la verità da idiota, l'idea con la quale il giovane principe Mishkin entra in società, dopo aver passato molto tempo in una clinica Svizzera a curare la sua epilessia. Nel romanzo l'azione si riduce a poco; l'attenzione è rivolta esclusivamente all'analisi interiore del protagonista e gli eventi servono solo a mettere in luce le sue idee. Con questa opera Dostoevskij continua la sua analisi del bene e del male, filo conduttore di tutta la sua bibliografia: se con "i demoni" si proporrà di rappresentare il male, con "l'idiota" a venire a galla è il buono, incarnato appunto dal giovane Mishkin. La verità che il principe si propone di portare alla gente è quella della semplicità, della "ricerca del bello" intesa come amore per le piccole cose e, principalmente, amore del prossimo: E' su quest'ultimo punto, l'amore incondizionato verso chiunque, che il povero protagonista troverà grandi difficoltà, dal momento che tutti tenteranno di raggirarlo e verrà considerato, appunto, alla stregua di un povero idiota. La sua bontà e la purezza d'animo risalterà soprattutto dal suo amore verso la "signora delle camelie" russa Nastas'ja Filippovna, una donna ingiustamente etichettata da tutti come corrotta e perduta. A capire la sua profondità e purezza d'animo è solo Mishkin, che scorgerà in lei una bellezza sincera, reale. Questa passione tormentata, respinta dalla bella e fatale Nastas'ja, e che condurrà il principe alla sua rovina, è soltanto l'apice di una fine lenta, inesorabile, a cui il protagonista è fatalmente destinato, in virtù delle sue idee, della sua concezione delle cose, che potremmo definire rivoluzionarie, e pertanto osteggiate da chiunque incontri nel suo cammino.
Trovandomi ad esprimere un giudizio sull'opera, non posso che attrubuirle il massimo dei voti, dal momento che per me rappresenta la vetta artistica di uno dei miei autori preferiti. La lucidità con cui Dostoevskij traccia il profilo del protagonista, permettendoci di scorgere, via via che si prosegue nella lettura, la sua "verità da idiota", mi ha notevolmente impressionato, facendomi apprezzare questo romanzo più di tutti i suoi altri grandi capolavori, magari più conosciuti e apprezzati, quali "delitto e castigo" e " I fratelli Karamazov". Da un punto di vista stilistico e di forma, inutile dire che il libro incarna perfettamente lo stile dell'autore: la narrazione è tetra, claustrofobica, a tratti asfissiante. Dietro questa scorza rude ma al tempo stesso piacevole si trova un messaggio di estrema attualità e potenza, un rimedio per risollevare le sorti di un mondo ormai dato per spacciato: La bellezza salverà il mondo.
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L'idiota di Dostoevskij
Che la figura dell’idiota di Dostoevskij sia scaturita dall’intento dell’autore di creare un personaggio “del tutto buono” è cosa nota a tutti coloro che hanno letto e approfondito l’opera dello scrittore russo. In realtà si tratta di una figura complessa la cui intelligenza non può in nessun modo essere messa in discussione. Egli stesso dichiara: “Mi credono idiota, ma io sono intelligente e loro non lo sospettano nemmeno.” Proprio la bontà del principe Myshkin, la sua generosa disponibilità verso gli altri rivela la vera funzione del personaggio, che è quella di fare da contrasto alle debolezze e ai difetti di coloro che lo circondano. Il mondo di cui egli è parte è mediocre e meschino. Egli viene ora ammirato, ora disprezzato o commiserato. Lo scontro con la realtà vede Myshkin ripetutamente sconfitto.
La critica alla società dell’epoca è palese e investe la sfera sociale, quella politica e quella religiosa. Sorprende la modernità di pensiero con cui vengono trattati alcuni temi in un romanzo della seconda metà dell’ottocento. Si rivendica il diritto alla libertà di stampa, si condanna la pena di morte e su questo argomento Dostoevskij torna più volte. Sono del principe Myshkin le parole: “Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpretato da un brigante.” Il riferimento esplicito al comandamento Non uccidere non può né deve indurre a concludere affrettatamente che il condizionamento religioso sia determinante in queste affermazioni. È piuttosto un impegno civile e politico da parte dell’autore, che si schiera a favore del rispetto dei diritti umani. Non a caso la religiosità di Dostoevskij è da riscontrarsi non nella critica all’operato della chiesa, di cui ripetutamente vengono rilevati i limiti, quanto piuttosto nella esaltazione del comportamento individuale conforme alla dottrina del cristianesimo: un cristianesimo delle origini, puro e incontaminato. Ed è in relazione alla contrapposizione ateismo/fede che l’autore scrive alcune pagine tra le più significative del romanzo. È l’immagine di Cristo che torna, così come rappresentato nella Deposizione dalla croce di Holbein, un Cristo dai lineamenti contratti e stravolti, che denunciano tutta la sofferenza umana: una rappresentazione che non evoca alcunchè di sacro o di divino, ma piuttosto la ferocia dell’uomo che non esita a torturare chi giudica suo nemico.
Pur essendo ancora lontana la rivoluzione di ottobre, in questo romanzo sono già presenti accenni alle ineguaglianze sociali che porteranno alla caduta degli zar. Le parole del personaggio Pavlovic sul liberalismo e sul socialismo sono estremamente interessanti e significative.
Il romanzo, nel suo impianto generale, rispecchia i canoni del romanzo dell’ottocento, con la figura della cortigiana che ispira passioni violente, amori contrastati e infelici. Nastas’ja è la “dame aux camelias” russa, è colei che suscita un’insana passione in Rogozin e un amore fatto di pietà e tenerezza in Myshkin. Ancora una volta dunque la figura del principe mette in risalto il contrasto tra il bene e il male. Anche nella concezione dell’amore siamo di fronte a due interpretazioni diverse del sentimento, dalla passione carnale a quella spirituale.
Non si può fare a meno di notare, infine, quanto sia evidente nella stesura del romanzo l’influenza del grande Hugo. Echi dei Misèrables si distinguono per esempio nel personaggio di Marie.
L’idiota, dunque, il buon pricipe Myshkin, non può resistere in un mondo in cui le sue qualità positive appaiono goffe e ridicole debolezze. La sua stessa malattia, il grande male dell’epilessia, si manifesta sempre quando le sue difese sono più deboli, come a proteggerlo dal mondo volgare e crudele che lo circonda.
Un romanzo, che pur datato nel suo impianto e nella sua struttura, si rivela sorprendentemente moderno nei contenuti.
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Uomo nuovo o anima "candida"?
“Io vi reputo il più onesto e il più giusto uomo di questo mondo; il più onesto e il più giusto di tutti: e, se dicono di voi che la vostra intelligenza... cioè se dicono di voi che siete malato di mente, sbagliano. Ebbene, io credo che chi dice queste cose si sbagli. Perché, certo, voi non sarete del tutto sano di mente (spero che non vi offenderete, io parlo dal punto di vista dell'opinione generale) ma, in voi, l'intelligenza propriamente detta è più evoluta che in tutti quelli che vi criticano, fino a toccare punti che questa gente non sogna nemmeno”.
Chi è veramente Lev Nikolaevic Myskin, tornato dopo vari anni e quasi dal nulla (solo si sa che ha vissuto per lungo tempo in una struttura medica) nella città di Pietroburgo?
Basta lo stravagante modo di vestire (che oggi definiremmo “casual”, e che cento anni fa gli sarebbe valso il titolo di straccione) a fare del ventisettenne principe Myskin un idiota?
O forse è ritenuto tale perché non sa nascondere ciò che pensa e prova?
O piuttosto perché, per queste sue caratteristiche, mostra di non saper stare in società, di non saper affogare se stesso nelle convenzioni e nei riti di cui essa vive?
E allora perché i medesimi che a volte vedono idiozia – come i membri della famiglia Epancin, composta dal generale Ivan Fedorov Epancin, dalla moglie Elizabeta Prokof'evna e dalle tre avvenenti e intelligenti figlie – in altri momenti scorgono nel principe un'ammirevole semplicità, l'irrinunciabile capacità di essere sempre e comunque se stesso, e iniziano a palpitare per la sorte di quest'uomo a suo modo sorprendente?
E Nastasja Filipovna – l'attricetta di teatro il cui fascino è pari solo ad una spavalderia che deriva dal profondo disprezzo di sé – cosa ha realmente in comune con quest'uomo?
Come può accadere che, vedendola per la prima volta attraverso il ritratto presente in casa Epancin, il principe Myskin se ne innamori? E perché, quando si tratterà di scegliere tra lui, l'arrivista Ganja (segretario degli Epancin) e il becero Rogozin, Nastasja Filipovna farà una scelta imprevedibile e, a suo modo, spettacolare, che chiuderà la prima delle quattro parti di cui il romanzo è composto?
Bisogna essere un grande scrittore – e sapersi tale – per poter ambire alla stesura di un libro del genere.
Lanciarsi a scrivere semplicemente la “storia di un uomo buono”, come spiegò Dostoevskij a un amico che – di fronte a tanta abbondanza di temi e psicologie – gli chiedeva lumi sul senso del romanzo. Era tutto quello che aveva intenzione di fare, a suo dire, con “L'idiota”.
Essere capace di buttar giù 500 pagine nelle quali non si rintraccia quasi alcuna azione, ma solo interazione tra i diversi protagonisti. Interazione giocata in ambienti chiusi (stanze sfarzose, o ordinarie, o misere, ma sempre stanze) della Pietroburgo del tempo; l'ambientazione perfetta di una piece teatrale... e tuttavia – strano a dirsi – non sarebbe facile immaginare una trasposizione di quest'opera in teatro, come se il tutto sia, comunque, difficilmente catalogabile.
Creare infine decine di calibratissimi personaggi che – come in un sistema planetario legato da insondabili (ma perfette) leggi di gravitazione – si muovono attorno a due figure in particolare: il principe Myskin e Nastasja Filipovna. Il primo brilla per la sua “diversità” (non a caso in esso alcuni hanno visto analogie con la figura di Cristo); la seconda, nella imponente costruzione dello scrittore, brilla per la sua presenza (nella prima parte) e per la sua pesantissima assenza (nelle restanti tre parti del romanzo). Solo sul finale il duetto (e il duello) si ricompone... e gli altri personaggi si defilano e lasciano il palco a questi due “giganti”, affinché tutto possa compiersi nella migliore tradizione della grande letteratura ottocentesca.
“Povero idiota, che cosa sarà di te adesso?”.
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La staticità di un dipinto allo scorrere del tempo
Sono convinto che sia completamente inutile sforzarsi anche solo di commentare, figuriamoci recensire, uno dei più famosi e importanti romanzi del '800, poiché aggiungere qualcosa di nuovo alle migliaia di revisioni già prodotte nel corso degli ultimi cent'anni sarebbe un impresa quanto mai improba in cui solo il più arrogante dei critici letterari potrebbe cimentarsi, figuriamoci qualcuno che legge per hobby. Forte delle mie convinzioni dunque mi limiterò ad elencare qualche estemporanea considerazione formulata durante la lettura, certo che quanto dirò risulterà totalmente banale.
E' un romanzo "teatrale". Usando questo aggettivo non mi riferisco ai contenuti della trama o allo stile affettato, caratteristica quest'ultima vera e del tutto giustificabile dalle consuetudini del tempo in cui venne ideato, mi riferisco bensì all' architettura dell’opera; l’impressione è che Dostoevskij, scrivendo forse il suo romanzo più celebre, ha scelto fin dal principio di impostarlo all'insegna dell'ordine e della rigidità: non vi sono variazioni temporali, se non quelle dettate dalla cronologia degli eventi, non vi sono rimandi, antefatti, o spiegazioni a posteriori, tutto si svolge in ordine, preciso, pulito. L’intera vicenda potrebbe essere suddivisa in tante piccole e singole scene, tutte ben delineate e tutte ben distinte le une dalle altre. Ogni capitolo una scena diversa, ogni capitolo un episodio differente, esattamente come i tempi di una pièce teatrale, tempi che qui non sono aggrovigliati o confusi ma precisi ed immobili, e non semplicemente tratteggiati ma dipinti con contorni ben marcati.
Le scene dunque sono statiche, nonostante i personaggi del romanzo compiano azioni, ciò è possibile poiché il loro agire è il medesimo degli attori su un palco, che si muovono sì, ma solo nell’ambito della scenografia di quel momento.
L’azione non è assente ma è appena accennata, il più delle volte sottintesa tra un capitolo e l'altro, poiché ciò che preme all'autore non e' tanto divulgare i fatti che costruiscono la singolare vicenda del Principe/Idiota, ma la causa: cosa vi e', o vi è stato, dietro a questi fatti, e con essa la psicologia dei personaggi.
La psicologia, l'introspezione, non è forzata, non è giustapposta alle scene attraverso la descrizione dei protagonisti, ma è soltanto lambita dalla trama nei dialoghi e nelle interazioni che questi implicano.
Il narratore e' assoluto, anzi più che assoluto: totale, tanto che si prende la libertà di dialogare anche con il lettore, esattamente come talvolta fa la voce narrante, e fuoricampo, a teatro.
Dunque, leggendo l'Idiota, non ci si trova difronte un testo dalla trama avvincente intercalato da una profonda introspezione psicologica, al contrario ci si trova difronte a dei panorami, dei magnifici quadri, dentro i quali, o davanti ai quali, si svolge una scena, per lo più un dialogo e grazie a questo dialogo il lettore apprende cosa e' accaduto prima, e cosa potrebbe accadere dopo, quando cioè tra una scena e l’altra è calato il sipario, quando tra un tempo e l’altro gli attori si sono ritirati dietro le quinte per un rapido cambio di costume.
In questo sta la grandezza del romanzo: tutto viene evinto attraverso le interazioni tra i singoli soggetti, attraverso quello che dicono e quello che non dicono, attraverso la loro postura, attraverso i loro gesti (attenzione l’autore che nei panni della voce narrante si pone dopo i fatti accaduti e ce li descrive inizialmente a grandi linee, non è un eccezione al meccanismo dialogo/sipario sopra descritto, ma un semplice stratagemma per introdurre il lettore, anche se ormai parrebbe più opportuno chiamarlo spettatore, per introdurre il lettore alla vicenda.) e i personaggi, quei complessi, stupendi, realisticamente ridicoli se non addirittura fastidiosi, attori del dramma, al pari delle scene e della storia, li si scopre pian piano: attraverso le cose che dicono e come le dicono, attraverso le cose che pensano e come le pensano e nessuno, nessun lettore, riesce farsi un idea della complessità di quei caratteri fintanto che gli attori/protagonisti stessi non se ne fanno una e ancora però quell' idea non e' un assoluto ma un semplice punto di vista, del tutto soggettivo e del tutto personale.
Quanti leggendo del Principe Myskin han pensato che in realtà e' il più saggio di tutti per poi subito dopo ricredersi e considerarlo un idiota? Tutti, vero? Esattamente come han fatto gli altri protagonisti del romanzo, esattamente come le persone con cui lui ha a che fare; ed e' naturale che sia così perché noi lo vediamo attraverso gli occhi degli altri e a seconda di chi siano gli altri, noi lettori, ci facciamo un'idea differente.
E se nell'incessante dipanarsi della vicenda sta la grandezza del romanzo, nella rappresentazione singolare e totale dei personaggi sta la grandezza dell'autore che riesce a fare di sé un narratore assoluto, che potrebbe descrivere e giudicare vita, morte e miracoli di ogni singolo interprete del dramma, eppure se ne tiene fuori, lasciando agli altri, ai suoi "attori",così come ai suoi lettori, tale compito e ognuno percepisce il romanzo nella maniera che meglio s'accorda alla propria indole, e ognuno si fa un'idea dell'accaduto nella misura in cui si trova più d'accordo con un personaggio rispetto ad un altro. Proprio come accade tutti i giorni nella realtà.
In queste caratteristiche, e solo in queste due, sta la bellezza del romanzo. Dire infatti che la storia in se sia originale, al giorno d'oggi, sarebbe mancare di obbiettività e dire poi che i fatti narrati siano importanti, con quanto accadeva in quel periodo nel mondo attorno alla loro vicenda... e con quanto accade ancora oggi, sarebbe a dir poco ingiusto.
Certo, qualcuno potrebbe sempre obbiettare, e a ragione, che l'autore, scrivendo delle peripezie amorose di giovani benestanti che patiscono le intromissioni della viva forza dei sentimenti di alcuni soggetti provenienti dai ceti inferiore, in realtà ha raccontato di una società Russa in subbuglio, dove il malcontento delle classi medie fa da contrappunto al progressivo disfacimento dell'aristocrazia ereditaria, dove un principe in rovina in una società dominata dai bassi istinti può essere ancora definito nobile solo grazie alla bontà dei suoi sentimenti, dove il valore del singolo individuo conta più dei valori della gente con cui s'accompagna, della gente di cui, solo per nome ma non per scelta, fa parte. Potrebbe obbiettare questo, potrebbe obbiettare che, dunque, per estensione raccontando della singola vicenda ha parlato di tutta la Russia. Certo, e potrebbe anche aggiungere che l'intento di Dostoevskij non era quello di creare un romanzo che descrivesse i profondi cambiamenti politici, economici e sociali che aveva vissuto l'Europa con la rivoluzione francese, e che presto avrebbe vissuto anche la Russia, ma quello di narrare una vicenda a suo modo e a suo tempo singolare, punto e basta. Certo... E sarebbe assolutamente lecito pensarla così ed entrambe le obbiezioni sarebbero oggettive e più che giustificate, tuttavia, parlando soggettivamente, davvero qualcuno non pensa che la vicenda in sé sia piuttosto banale? Che al giorno d'oggi tutti quei comportamenti, pensieri, timori, dettati dall' etichetta, dai costumi del tempo, dal galateo, non siano leggermente superati? Tutte le missive tra i protagonisti, i viaggi per confrontarsi a quattr'occhi, gli appuntamenti segreti tra spasimanti, stabiliti tramite intermediari fidati e malfidati, e il dramma finale dell'incomprensione... oggi con un paio di messaggini non sarebbe forse tutto risolto?
D'accordo e' una battuta, tuttavia a qualche mese dalla lettura dell'Idiota permane la sensazione che si tratti ne più ne meno di una romanzo invecchiato male, che, pur narrato in maniera eccelsa, racconta di una vicenda del tutto superflua.
Cosa pretendo, direte voi, e' stato scritto nell'ottocento, all'epoca aveva un senso. Vero, ma e' anche vero che si è di fronte a quella che viene considerata una delle opere più importanti di uno scrittore immortale; i suoi pensieri, le sue considerazioni e in fin dei conti i suoi romanzi non dovrebbero dunque trascendere il tempo e il luogo, così come le opere e i pensieri di Shakespeare, Goethe o Tolstoj, per citarne qualcuno a caso? In "Memorie del sottosuolo"', ne "la mite" e le "notti bianche" Dostoevskij ci riesce, riesce a trascendere il momento e ad eternalizzare le sue parole, ma se ci riesce in tre racconti non sarebbe lecito aspettarsi un simile risultato nella sua opera più importante?
Forse sono influenzato dal fatto che considero Dostoevskij uno dei pochi scrittori, assieme ad Hemingway (anche se sono consapevole che paragonarli e' piuttosto bislacco) e pochi altri, che riesce meglio nei racconti che nei romanzi; che per quanto scriva in maniera strabiliante entrambi i generi, nei romanzi la bellezza delle sue parole sia spesso mimetizzata dall'eccessiva prolissità dei paragrafi; forse sono anche influenzato dalla rinomanza dell’autore e del titolo, forse perfino da qualcos'altro che non sono riuscito ancora a capire e tantomeno esprimere, ma in fin dei conti se devo essere sincero con me stesso considero l'Idiota una mezza delusione.
NOTA
Mi rendo conto con questa recensione di cadere nel vizio tipico del critico letterario il cui solitamente smisurato ego, allorchè riscontri qualche difettuccio in un conclamato capolavoro, lo spinge a sottolineare la singola imperfezione come l'ennesima ignominia di un illeggibile obrobrio, mi rendo conto di stare irrimediabilmente peccando di presunzione, se non addirittura, qui, di lesa maesta, tuttavià non riesco proprio a soprassedere alla delusione che ho provato leggendo un'opera tra le più importanti della storia della letteratura e scoprendo che in realtà i contenuti lasciano alquanto a desiderare. Se vi riesce più facile accettarlo quindi, ammesso che dobbiate e soprattutto che ve ne freghi qualcosa, considerate, come spiegavo all' inizio, questa mia recensione, solo alla stregua di un' opinione personale, soggettiva e del tutto estemporanea. (Che fa dell'oggettività raggiunta attraverso lunghe riflessioni il suo punto di forza... ma sempre del tutto personale ed estemporanea! :-) )
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Un Dio mancato
L’errore più grande che si potrebbe commettere nel giudicare questo capolavoro, è quello di ridurlo ad un’unica prospettiva, ad un unico orizzonte, smussando gli angoli che sembrano talmente pericolosi da poter trafiggere il lettore. Si potrebbe creare una linea interpretativa retta, senza deviazioni, correre a perdifiato seguendo una sola strada, mentre si perdono di vista dettagli, sensazioni, atteggiamenti.
Non c’è soltanto la trama, ma un universo sconfinato di uomini che lottano contro la realtà, e che tentano di ripararsi sotto i colpi della vita, attraverso l’alterigia, l’indifferenza, la ricchezza e il potere. Psicologie complesse sembrano intrecciarsi seguendo il fluire si una penna capace di incidere nella roccia viva pensieri pulsanti. Come una scultura incompiuta che sembra volersi liberare dalla roccia, quella tensione espressiva che sembra poter esplodere e combattere contro la gelida immobilità dei minerali. Corpi incatenati alla realtà, alla loro origine, che si conformano alle norme condivise piombando spesso in contraddizioni vistose, talmente pressanti da sgretolare certezze, da obliterare la speranza nel disfacimento interiore. Sono personaggi che nascondono un malessere psicologico e che la penna di Dostoevskij sembra scavare con piglio umano, ma implacabile. Strumento perfetto è il bagliore fulgente del Principe Myskin, un lampo accecante che penetra nelle profondità del cuore, della mente, e che sembra almeno per un momento dissolvere le ombre del pensiero per trasformare qualsiasi interlocutore in un bambino capriccioso, in un essere sofferente, in una donna puntigliosa. Il principe Myskin è un uomo che penetra nell’abisso dell’animo, terribilmente e pericolosamente puro in un mondo in cui la libertà è subordinata ai vincoli sociali e l’apparenza è religione. E’ una società in cui la compassione indiscriminata sembra annullarsi nella dimensione dell’idiozia.
Ma il principe è davvero idiota? Sì per la società russa che lo identifica come uno stupido, un bambino ingenuo di cui si criticano gli atteggiamenti, ma di cui non si può non ammirare la bontà. Il candore dell’ingenuità. Il principe è un uomo impreparato alla vita, la cui logica, dettata dal cuore, e quindi naturale inclinazione, è quella di soffrire insieme agli altri, di accecare nel bianco splendore della sua dolcezza il dolore che grava su chi lo circonda. E’ una semplicità quasi disumana, al limite dell’irritante, e qualche volta si pensa “che idiota!”. Forse sarebbe più giusto dire “fuori posto”. Il principe Myskin è un Dio mancato, un essere quasi privo di volontà, che sembra seguire una moralità rigida mai discussa, mai dubitata: la moralità della misericordia. Una misericordia quasi eterea e per questo incapace di liberare gli altri dalle catene della società, che la pietà stessa del principe non può conoscere senza il rischio di macchiarsi dei peccati, della corruzione degli altri. Un novello Gesù che deve sacrificarsi. Non per gli altri, ma per curare se stesso.
Una galleria di personaggi scolpiti nei dettagli più profondi riflette gli effetti dello “splendore della bellezza”, quell’aiuto disinteressato che soltanto il principe sembra poter offrire.
U capolavoro che offre una lente per osservare la realtà con altri occhi, un messaggio rivoluzionario che può segnare profondamente una mente, il quale cova in un universo appena distante dal lettore, pronto per essere colto , per passare di mano in mano attraverso i secoli. Nel principe Myskin si concretizza paradossalmente la figura dell’uomo buona, un personaggio dall’atteggiamento dilatato sino all’estremo e che si rivela inadatto per la missione che sembra dover compiere: salvare, con la sua bellezza, il mondo.
Ma è un uomo in cui non si annida il male e che dunque non può capirlo se non attraverso congetture le quali, seppur acute, restano ammantate da quel velo di luce soffusa che sembrano soltanto apparentemente cacciare le ombre dell’animo umano, per poi ricrearle come sbarre gotiche che imprigionano quel briciolo di umanità che le aveva quasi sconfitte.
Non si può annichilire il male senza conoscerlo, non è lo “splendore della bellezza” che salverà il mondo, bagliore di cui il principe è la naturale incarnazione, ma la compassione, la capacità di provare pietà (non in senso dispregiativo) per gli altri, indiscriminatamente. Il mondo sarà salvato dalla disponibilità degli uomini di macchiarsi delle colpe e delle sofferenze dei simili, di condividerle in loro e sopportare insieme agli altri il pericoloso fardello.
Dostoevskij insegna a guardare il mondo. Una società che definisce la compassione Idiozia per non doverla soppesare. E il principe Myskinè un lampo che trasforma le malvagità umane in “febbre celebrale”. Nessuno lo comprende. Tranne Nats’ja, a lui simile, gli estremi di una fragilità che conduce inevitabilmente alla distruzione. Quello di Dostoevskij non è un messaggio si speranza, ma di amara critica.
Cerchiamo la bontà, ma al suo cospetto chiudiamo gli occhi. E' forse un'idiozia?
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L'idiota
“L’idiota” è uno di quei capolavori che lasciano un segno indelebile nell’animo.
Non è solo un romanzo, ma una vera esperienza, emotiva e intellettuale insieme, che coinvolge il lettore nel profondo e non si dimentica in fretta.
Le passioni dell’animo umano, la sofferenza e il senso della vita e quello della morte: tutti questi temi sono trattati in modo sublime e profondo , conferendo al romanzo una potenza magnetica.
Il principe Lev Nikolaevic Myskin, protagonista della narrazione, è l’ultimo discendente di una nobile famiglia russa. Passata la giovinezza in Svizzera, in cura per una forma di epilessia, egli ritorna a Pietroburgo. La sua intenzione è quella ricostruirsi una nuova vita; a tale vita, però, si presenterà drammaticamente e totalmente impreparato.
Egli, come detto,soffre di epilessia; ma l’idiozia del Principe è legata a una condizione di malattia? No, il Principe Myskin racchiude in sé una nobiltà d’animo e una sensibilità superiori, che lo rendono “idiota” agli occhi del mondo, nel 1869 così come sarebbe oggi, per ben altri motivi. Questi risiedono nell’incapacità di sopravvivere, senza difese, “come un agnello sacrificale”, in un mondo dove domina il più astuto , il più calcolatore, il più cinico.
Il protagonista,al contrario, è privo di qualsiasi pregiudizio o malizia, non sa mentire e ha uno sguardo limpido e diretto sul mondo ; soprattutto, è un uomo compassionevole, nel senso etimologico del termine. Non può restare indifferente a chi ha vicino, ne scruta l’animo in profondità e ne percependone istintivamente, gioie , turbamenti, perplessità.
Ma la superiorità morale del Principe, questa “luce” che egli emana e che rischiara fugacemente l’animo altrui, non solo non viene accolta, ma ,anzi è oggetto di scherno e di derisioni. Per tutti egli è sì un buon uomo, ma, soprattutto, nella migliore delle ipotesi un povero sciocco.
Uno dei pochi personaggi che realmente comprenderanno la profondità d’animo del Principe sarà Nastas’ja Filippovna, altra figura cardine della narrazione: donna bellissima e “segnata dal disonore”, animo sensibile e orgoglioso, è condannata dai duri colpi che la vita le ha inferto a un tremendo tormento interiore. Nonostante i pregiudizi che l’hanno “marchiata” in società e segnata nell’intimo, Nastas’ja ha la stessa nobiltà di sentimenti del Principe . Soltanto lui, infatti, sarà capace di scorgerne il tormento interiore la vastità della sofferenza e del sentimento; il resto della “buona società” è invece acciecato dal pregiudizio.
Sarà inevitabile che la vicende di Nastas'ja si intersechi a quella di Myskin in modo imprescindibile, sofferto e tumultuoso.
Le storia è molto articolata , sono tante le riflessioni così come i colpi di scena ,e la grandezza del racconto tiene alta l'attenzione del lettore, costantemente, in uno smanioso tentativo di trovare un senso a quella bontà tanto osannata a parole che il mondo, di fatto, rifiuta.
Viene da chiedersi se davvero, come Dostoevskij fa dire , indirettamente, al Principe, “la bellezza salverà il mondo”. Il libro è senz’altro un’occasione di riflessione su questo e su moltissimi altri temi.
Un romanzo denso, impegnativo e di spessore, ma anche altamente appagante ; spontaneo chiedersi cosa significhi ,realmente, l’amore come compassione, l’agape ,per noi e per la nostra società.
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Il Principe dentro l'anima
Il mondo non accetta chi è di animo puramente gentile!
Quante volte, purtroppo, abbiamo sentito questa frase? Magari detta con cinismo, dopo che avevamo, con entusiasmo, compiuto un' azione con tutti i più buoni propositi.
Da tempo desideravo esprimere la mia passione, il mio amore che provo verso un personaggio di rara bellezza qual'è il principe Lev Nicolaevic Myskin, ultimo erede di una nobile ma decaduta famiglia russa, protagonista de L'idiota di Dostoevskkij. Il principe Myskin, dopo aver trascorso alcuni anni in Svizzera per curare l'epilessia, parte per tornare a Pietroburgo, con il desiderio di conoscere l'ultima parente rimasta in vita, Elisaveta Prokofvena Myskin, moglie del generale Ivan Fedorovic Epancin. Il principe nel viaggio in treno viene a conoscenza del rozzo e ricco mercante Rogozin, innamorato follemente di Nastas'ja Filipovna, una donna dalla bellezza eterea,figlia adottiva del ricco Toki, del quale diventerà l'amante a sedici anni... una donna "disonorata". Il principe arrivando a Pietroburgo, verrà accettato dagli Epancin ed entrerà nelle grazie di Elisaveta Prokofevna e delle sue tre figlie. Così il nostro amato principe conosce Ganja il segretario del generale Epancin, promesso sposo di Nastas'ja, verso la quale prova interesse solamente per la sua ricca dote. Ganja mostra al re un ritratto di Nastas'ja; l'animo del principe, puro, profondo e compassionevole oltre ogni modo, riconosce nel bellissimo volto della donna, sofferenza ed infelicità... capisce subito che è una donna compromessa dalla vita. Se ne innamora subito, quando invece di lui s'innamorerà Aglaya, la figlia minore del generale. Sente forte il bisogno, per lui istintivo, di salvarla dalle sue pene, dal violento Rogozin e dall'arrivista Ganja. La chiede in moglie, per slvarla dai due pretendenti, ma Nastas'ja, innamoratasi anche lei del pricipe (della sua nobiltà d'animo), rifiuta per paura di poter farlo soffrire. Il principe, sogna un mondo perfetto,espresso nella bontà; purtroppo si scontrerà con una società corrotta, cattiva, dove, ormai molti comportamenti, sono talmente assimilati da essere ritenuti la normalità. Lo "splendore della bellezza", questa era la definizione di Dostoevskij per descrivere il personaggio del principe Myskin. L'infinità bontà del principe espressa con l'ingenuità di un bambino, appare come un candido bagliore che porta alla luce i segreti più profondi, ed a volte scomodi, dei personaggi che ruotano intorno a lui. Sempre con ingenuità, non curandosi delle reazioni altrui, mette a nudo l'animo umano, a volte cerca di elargire consigli allo "sventurato di turno". L'eccessiva comprensione dilagante nella compassione, nel prodigarsi verso il prossimo, ecco l'idiozia del principe, ecco il principe Mysvkin lìidiota. Mi sono sentito messo a nudo, come i personaggi che ruotano intorno al principe, mi sono riconosciuto in alcuni vizi comportamentali ormai vissuti da me e dalla società come "normali". Una socièta, purtroppo, piena di cinismo e cattiverie, dove spesso un comportamento che esprime bontà ed altruismo viene considerato... da idiota!
Il principe è ormai nel mio animo, e fortunatamente, quando vedo male intorno a me, od ingiustizie, la sua figura affiora nella mia mente in tutto il suo splendore.
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Maestro, perdonatemi se ardisco ...
Lo so Maestro,
sono un "camice bianco", un "zirutja movie" e dovrei pensare ai fatti miei.
Avete ragione da vendere ma, vedete, mia madre è nata e vissuta a lungo a Vladivostok (Russia che non conta, so anche questo), e fin da quando ero un fantolino mi leggeva le vostre opere nella vostra lingua.
Diceva che così mi abituavo alla sonorità della pronuncia.
E questo vostro capolavoro, non conosco parola più grande, l'ho poi riletto. Da solo.
Shine, Maestro!
Che cosa significa? Be', è intraducibile in russo e anche, sì, anche in italiano.
Vuol dire eccezionale, qualcosa che va oltre, insomma, il non plus ultra.
Quante lingue ho scomodato, Maestro, per definire una sola parola: Genio.
Myskin, la sua ingenua purezza, il fiato che si vede quando parla...perché voi lo avete disegnato anche se non sapevate disegnare. E come si infiamma ed accende quando l'inarrivabile Nastas'ja è con lui...
La descrizione della "febbre cerebrale" che noi che abbiamo terminato gli studi di Medicina sappiamo (ma che sappiamo?) chiamarsi epilessia.
La solitudine, Maestro, la tristezza e lo squallore del rapido secondo che intercorre fra l'attesa di vederla ed il sembiante.
Io non lo so, per me Myskin ha un volto...e non è il volto pallido e sofferente che gli editori danno ai ritratti in copertina.
E' il vostro volto, Maestro.
Voi studiavate Medicina, ricordo.
Non l'avete terminata.
Ma sapete che vi dico?
Non vi siete perso nulla, credetemi.
Noi tentiamo di salvare la vita...voi, Maestro, semplicemente, la donate.
Salutatemi Kafka là dove siete ora, Maestro.
Sono sicuro che anche a lui farà un pocolino di piacere sapere che un misero cerusico non ha parole tranne una.
Grazie.
Jan
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