La peste
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UNA MORALE LAICA
E’ generalmente riconosciuto come la peste descritta da Camus rimandi metaforicamente al flagello nazista dilagante in Europa durante gli anni della stesura del romanzo. Allo stesso modo, al drappello di uomini che combattono strenuamente l’implacabile malattia, si associano il movimento partigiano e la lotta di Resistenza.
Eppure, mi pare innegabile che il messaggio morale del libro abbia valenza universale e vada ben al di là della contingenza storica.
Qui è l’eterna lotta tra Bene e Male ad andare in scena in una rappresentazione scarna tratteggiata a tinte forti e prive di sfumature.
La Peste è male assoluto, violento, sozzo, irrazionale, atroce ed implacabile. Sordidi topi emergenti dalle viscere della terra annunciano l’arrivo del flagello rantolando di lì a poco enfiati e deformati dalla orribile malattia. Un’umanità stordita li osserva accumularsi stecchiti ai bordi della strada senza coglierne la minaccia perché “tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso”.
Ed il Male dilaga senza far preferenze, strazia il potente come il reietto, il vecchio come il bambino, il saggio come lo stolto.
Forzatamente rinchiusi e separati dal resto del mondo i cittadini di Orano vagano come fantasmi: chi in preda a cupa disperazione, chi terrorizzato dalla paura della morte, chi lacerato dal dolore della perdita dei propri cari.
Eppure il Bene esiste e poco importa se non trionfa. Il dottor Rieux ed i volontari che attorno a lui si raccolgono, paiono obbedire ad un imperativo categorico che rende la buona azione necessaria ed inevitabile. Chi professa questo credo laico ha un intima esigenza di combattere il Male pur consapevole che la lotta è impari e le proprie forze inconsistenti.
“Essenziale era fare bene il proprio lavoro”, afferma il dottore. Ed ancora: “Si tratta di onestà … il solo modo di lottare contro la Peste è l’onestà”. Non c’è nulla di eroico in questo ne’ tantomeno di salvifico.
A ben vedere quello di Camus è un grido di speranza e di fiducia nell’uomo.
In fondo i Santi non hanno bisogno di Dio.
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Pessimo, piatto, senza un filo logico.
Quello che mi ha meravigliato di più è scoprire che questo libro è stato scritto dopo "Lo Straniero" che è del 1942, mentre questo romanzo, a mio avviso pessimo, è del 1943.
Come se l'autore invece di migliorare ed affinare la sua scrittura, sia all'improvviso precipitato in una crisi creativa che gli ha fatto appunto scrivere un opera a mio avviso insulsa e su alcuni punti senza senso alcuno.
Ritengo "Lo Straniero" un capolavoro "minore" della letteratura del '900, un piccolo volume, denso, estraniante, altamente psicologico, cupo, passionale e delirante.
Quindi quando in libreria, mi sono trovato tra le mani questo testo "La peste" ho pensato, sbagliando, che forse avrei potuto godere di un'altra intensa lettura dello scrittore di francese.
Ed invece è stato un calvario portare avanti la lettura, con descrizioni di bubboni, ratti, personaggi insulsi che appaiono e scompaiono all'improvviso. Una scrittura che procede a tentoni, come se l'autore non sapesse dove andare a parare, che pesci (o sorci) prendere.
Il classico libro che non ha una chiave di lettura, improvvisato, senza un filo logico che lega gli avvenimenti e con un finale messo li per caso, per porre fine all'agonia del lettore.
"Lo straniero" è considerato il vero capolavoro di questo autore, gli altri suoi testi non mi sembra abbiano avuto uguali fortune. E questo "La Peste" secondo me, dimostra, che dopo aver scritto un grande romanzo di esordio, questo scrittore si sia perso, forse sopraffatto dalla fama improvvisa o dai guadagni che gli sono arrivati.
Avete mai sentito un album o una canzone meravigliosa, folgorante, di un compositore e poi a distanza di anni, vi siete dimenticati della sua esistenza.....e poi riascoltando quel pezzo che tanto vi era piaciuto vi chiedete: "ma che fine aveva fatto?", poi cercate la sua discografia e scoprite che negli anni ha continuato a scrivere musica, testi, canzoni che non li fanno passare neanche alla radio una misera volta....per me la parabola di Camus appunto è stata come la candela che brucia da entrambe le parti, arde con più luce ma alla fine si consuma prima.
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Orano
«Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. Era stato colto alla sprovvista il dottor Rieux, come lo erano stati i nostri concittadini, e questo spiega le sue titubanze. E spiega anche perché fosse combattuto tra la preoccupazione e la fiducia. Quando scoppia una guerra tutti dicono: “È una follia, non durerà.” E se forse una guerra è davvero una follia, chiunque se ne accorgerebbe se non fossimo sempre presi da noi stessi. A questo riguardo, i nostri concittadini erano, come tutti gli altri, presi da se stessi, in altre parole erano umanisti: non credevano ai flagelli. Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare, e in primo luogo gli umanisti che non hanno preso alcuna precauzione.»
Orano, in un anno come tanti e in un tempo sconosciuto, un luogo che altro non è che una prefettura francese della costa algerina che un giorno come un altro viene colto dalla fuoriuscita di topi. Topi e ancora topi, ovunque. Nelle case, per le strade, in prossimità degli uomini. Sono una moltitudine e man mano che escono dai loro nascondigli per affrontare la luce del giorno, periscono. Cosa sta succedendo? Può essere che quel fenomeno inspiegabile correlato ai ratti possa essere ricollegabile anche agli esseri umani stante che ben presto i medesimi iniziano a soffrire di quella patologia che a Rieux appare subito propria del suo nome di peste? E come parlare di quell’epidemia che nulla risparmia e niente concede se non per mezzo di una vera e propria cronaca dell’evoluzione dei fatti?
«Ci si stanca della pietà, quando la pietà è inutile.»
Ed è così che Camus ci prende per mano e conduce tra i meandri di queste pagine intrise di una verità ad oggi molto vicina a quella che noi per primi abbiamo vissuto – e stiamo vivendo – con l’epidemia covid-19. Lo scrittore descrive e delinea con cura quelle che sono le maturazioni delle circostanze così come dell’animo umano. Ci parla di solidarietà, ci parla di assenza di solidarietà, di luoghi comuni, di vite che cambiano e assumono nuove dimensioni e forme ma ci parla anche di egoismo e cattiveria, divergenze economiche e sociali che in un momento dove dovrebbero essere assenti sono al contrario presenti e onnipresenti.
Dopo averlo letto negli anni di studio e in lingua francese sono tornata a “La peste” con un occhio nuovo e diverso, con un occhio che ha osservato il narrato da una diversa e ulteriore prospettiva che si è sommata e fusa con la precedente data dalla prima lettura. L’effetto di impotenza resta e si amplifica, anche se ci sentiamo parte e partecipi, anche se ci sentiamo complici degli abitanti di Orano e delle loro disavventure.
Una lettura che invita alla riflessione e che suscita, per l’impostazione cronachistica di cui è improntata, sensazioni ed emozioni diverse nel conoscitore che se da un lato è incuriosito dai fatti, dall’altro rifugge dall’empatia completa e dal coinvolgimento totale. Ad ogni modo un titolo immancabile nel bagaglio di ogni lettore a prescindere dalla situazione che stiamo vivendo anche noi.
«E mentre svoltava nella via di Grand e di Cottard, Rieux pensava fosse giusto che almeno ogni tanto la gioia ricompensasse coloro che si accontentano dell’uomo e del suo povero e terribile amore.»
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L'Assurdo si combatte con la solidarietà
L’autore narra la storia di Orano, una piccola città algerina, che dopo essere stata travolta da un’epidemia di peste è costretta a chiudersi al mondo esterno combattendo senza tregua contro il morbo. Camus descrive in modo introspettivo i personaggi, dando una rappresentazione dei vari modi con cui la psiche umana può reagire ad un evento del tutto inaspettato. C’è chi si rifugia nella fede, chi si dà da fare per contrastare gli eventi, chi prova a fuggire e chi lucra sulle disgrazie altrui. Tuttavia, col passare del tempo, apparirà evidente che l’unico modo per salvarsi è unire le forze per combattere insieme un nemico invisibile, figlio di quella rappresentazione dell’Assurdo alla base del pensiero filosofico dell’autore. Il messaggio che vuole dare Camus con il suo romanzo è chiaro: soltanto attraverso la solidarietà gli uomini riusciranno a vincere le sfide assurde, in quanto inaspettate, che la vita mette loro davanti; il conseguimento della felicità del singolo anche a discapito degli altri porterà soltanto ad una sconfitta di tutti.
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Non c'è isola nella peste
"Ma egli sapeva tuttavia che questa cronaca non poteva essere la cronaca della vittoria definitiva; non poteva essere che la testimonianza di quello che si era dovuto compiere e che, certamente, avrebbero dovuto ancora compiere, contro il terrore e la sua instancabile arma, nonostante i loro strazi personali, tutti gli uomini che, non potendo essere santi e rifiutandosi di ammettere i flagelli, si sforzano di essere dei medici."
A Orano, una prefettura francese della costa algerina, un giorno dal nulla incominciano ad uscire topi, se ne trovano ovunque, nelle case, per strada, escono a frotte e muoiono. Quello che all'inizio sembra uno scherzo innocente porta la città nel panico.
"Nel mondo ci sono state in ugual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati."
Camus tramite il suo narratore ci presenta una cronaca oggettiva che racconta tutta l'evoluzione della peste e gli animi di coloro che si trovavano dentro le mura chiuse.
Un libro che visto il periodo storico arriva ancora di più. Siamo negli anni '40, ma si parla di congiunti, di separazioni, di quarantene, di sieri che funzionano e non funzionano, di evoluzioni, di ingiustizie e di come tutte le pestilenze non fanno differenze fra ricchi e poveri.
Uno stile chiaro, poco pretenzioso e diretto. Camus ci rende partecipi ma allo stesso tempo impotenti. Anche noi come gli abitanti di Orano stiamo aspettando che quelle porte si possano finalmente aprire e ricominciare una vita normale, perché è proprio la normalità che ci manca.
Una lettura molto interessante, l'ho preferita a "Lo straniero" che invece non mi aveva particolarmente colpita.
Buona lettura!
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Corsi e ricorsi storici
E’ stata l’emergenza coronavirus ad indurmi a scegliere questa lettura, che, soprattutto nella prima parte, mi ha spiazzato. Perché sembrava di leggere gli articoli del Corriere e della Repubblica di questi giorni, con un linguaggio decisamente meno moderno, ma con gli stessi elementi. I primi segnali, il paziente zero, la sorpresa dei primi tempi che, a poco a poco, si trasforma in panico, il comitato scientifico, i focolai infettivi, l’aumento del numero di casi, perfino i famosi “congiunti”. La ricerca dei posti letto negli ospedali, i prefetti ed il governo centrale, la chiusura della città, il limbo in attesa della riapertura e la riapertura. Tutta la storia è raccontata da un narratore ed è una relazione scritta con obiettività e fatta con buoni sentimenti. Anche i protagonisti di questo libro sono tutti nel medesimo sacco e capiscono che, in un qualche modo, ne devono uscire, devono cavarsela. Camminano in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, con tutta l’incertezza, soprattutto, ma non solo, quella dei primi tempi e cercano di fare ognuno del proprio meglio e comunque tutti un po’ di bene. Comprendono che la fantasia, in un qualche modo, aiuta nella sopravvivenza. E, nel male, c’è comunque del bene. Il buono della figura dei medici. Il fatto che un evento di questa portata apre gli occhi e costringe a pensare. Perché quanto l’uomo può guadagnare al gioco della peste e della vita è la conoscenza e la memoria. Ed il più grande insegnamento che se ne può trarre è che dobbiamo fare tesoro, di questa conoscenza e di questa memoria.
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Né santi, né eroi
Non è necessario essere santi, né eroi, ma non per questo ci si deve rassegnare al Male. Occorre invece combatterlo, curarlo, limitarne i danni, consapevoli che una vittoria definitiva non la potremo mai ottenere. Il medico non può impedire la morte, può semmai ritardarla, curare la malattia, conscio che si tratta sempre di successi provvisori.
Questo mi pare, in estrema sintesi, il messaggio di questo romanzo, che ho voluto leggere per la prima volta nel tempo dell’attuale pandemia.
Orano, un’anonima cittadina sulla costa algerina viene sconvolta negli anni Quaranta del secolo scorso da un’epidemia di peste. Stupore, incredulità, preoccupazione, panico, rassegnazione si susseguono velocemente tra i cittadini indifesi e le autorità impreparate a gestire la situazione. “Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista”.
L’amorfa collettività di Orano, senza caratteristiche particolari che la possano distinguere dall’Umanità tutta che vuole rappresentare, è il primo fondamentale personaggio del romanzo. Con i suoi bollettini sanitari, le ordinanze prefettizie, le inquietudini, le leggerezze, lo stato di perenne incertezza sulla durata dell’epidemia e dei provvedimenti, lo sfinimento dei medici e delle squadre volontarie di soccorso, i funerali negati, l’impaurita disciplina e l’altalenante emotività, è proprio questa la voce che noi lettori dei giorni del Coronavirus andiamo a cercare, raccogliendo analogie e discordanze.
Da questa moltitudine si distingue una manciata di personaggi che sostengono la trama e ne arricchiscono il significato allegorico.
Bernard Rieux è un giovane medico che con umanità, competenza, concretezza e testardaggine si batte senza sosta per salvare il salvabile. “L’essenziale era fare bene il proprio lavoro”. “Non possiamo contemporaneamente curare gli uomini e sapere. Quindi occupiamoci di curare gli uomini il più in fretta possibile. E’ questa la cosa più urgente.”
Raymond Rambert è un energico e ambizioso giornalista, che si trova a Orano per lavoro allo scoppio dell’epidemia e, impossibilitato a ricongiungersi con i suoi affetti, è l’emblema degli esuli, delle persone e delle famiglie improvvisamente separate dal dilagare del male. “In realtà soffrivamo due volte – della nostra sofferenza e poi di quella che immaginavamo negli assenti, figli, moglie o amante”. Le numerose, appassionate pagine che Camus scrive su questa umanità divisa da una barriera ostile e impenetrabile ci fanno rabbrividire al ricordo di tutti i Muri, da Berlino in poi, che sarebbero stati costruiti, progettati o semplicemente vagheggiati nei decenni successivi.
L’onesto impiegato comunale Joseph Grand è un ometto triste, insospettabilmente romantico, alla perenne ricerca delle parole giuste, una persona rispettabile come ce ne saranno sempre, di quelle che il male non riesce proprio ad eliminare.
Il suo vicino di casa Cottard, al contrario, vive di espedienti, nel torbido prospera e lucra, teme il ritorno alla normalità, che lo rende scontroso e guardingo. Il disordine, invece, gli dona lucentezza e affabilità.
Il giudice Othon, algidamente disumano nella fanatica comprensione del suo ruolo, nella disgrazia più prevedibilmente trova un’occasione di redenzione.
Infine c’è il misterioso Jean Tarrou, il cui confronto con Rieux nel finale del romanzo ci fornisce la chiave per la sua interpretazione.
Intellettuale ed idealista ormai disilluso, Tarrou si trova in un vicolo cieco: la peste ce la portiamo dentro, è praticamente impossibile evitare di contagiare qualcuno (“allora ho capito che, almeno io, anche nei lunghi anni in cui pure credevo con tutta l’anima di lottare conto la peste, non avevo mai smesso di essere un appestato”), nel combattere il male si rischia di generare altro male (“ho scoperto che avevo acconsentito indirettamente alla morte di migliaia di uomini, che avevo addirittura provocato quella morte trovando buone le ragioni e i principi da cui fatalmente era conseguita”) e si può solo scegliere tra essere flagello o essere vittima. La terza categoria, quella dei veri medici, è la più rara, ed è la strada più difficile.
Un po’ più semplice, paradossalmente, è ambire alla santità, magari una santità senza Dio, fatta di pura compassione, ossia un immolarsi dalla parte delle vittime per giungere infine alla pace.
Il dottor Rieux, obietta: “Non provo granché interesse, credo, per l’eroismo e la santità. Quel che mi interessa è essere un uomo”.
Scrivendo nel 1947, sulle macerie provocate dal Male assoluto, in un periodo di grande tensione ideale e di scontro ideologico, Camus vuole ammonirci contro la tentazione di costruire la società perfetta, quella in cui il male sia definitivamente estirpato: è una speranza vana, fonte di ulteriori sofferenze e distruzioni, come la Storia ha ampiamente dimostrato. Tra l’intransigente purezza della santità e tutti i limiti di un’umanità imperfetta, meglio la seconda.
“Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice”.
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L’uomo al bivio
Routine. Solitudine. Sofferenza. Attesa. Speranza. Gioia. Con l’amore come sfondo.
Potrei già concludere qui la disamina che ripercorre dall’inizio alla fine il libro di Albert Camus.
Reduce dalla lettura de “Lo straniero”, questo libro mi ha impressionato. È stato un pugno nello stomaco e una campanella nella mente.
Quest’ultimo aspetto è semplicemente un fatto personale, nulla di particolare. Nel senso che l’accurata e abile descrizione della città di Orano, teatro e in un certo senso anche vittima del racconto, mi ha ricordato la descrizione di Coketown in “Hard Times” (Tempi Difficili) di Dickens. Una città grigia, materialista e priva di emozioni dove il solo sussulto sembra essere la monotona e lenta routine. Poi il flagello. E tutto è cambiato.
“La peste aveva tolto la disposizione all’amore e all’amicizia” ecco, in una frase il famoso ‘pugno nello stomaco’. Le scene descritte di una umanità in lotta, in preda a un male misterioso, all’inizio e sempre più definito con il passare del tempo, colpiscono e rapiscono il lettore.
Camus ci racconta con una drammaticità sempre crescente i cambiamenti nella città, nel volto delle persone e nei comportamenti stessi. E tutto diventa metafora. La malattia che si è abbattuta sui cittadini, costretti all’isolamento e all’impossibilità di ricongiungersi con i propri cari onde evitare il propagarsi del morbo, pone in ognuno domande esistenziali, autentiche, profonde che prima erano come superflue. Inutili. Ma la realtà obbliga all’interrogazione con se stessi e all’esame di coscienza. E se ne esce, per forza di cose, cambiati.
Accade così anche nella nostra vita: ogni ostacolo o, per rimanere in tema, tragedia che incontriamo ci investe di mille difficoltà e domande.
Come superarlo? Come posso essere ancora felice? Cosa significa questo, oggi?
La mente si fa confusa e annebbiata. Perché quando le cose vanno male, attorno a te sembra esserci solo sofferenza (tua e/o di altri), tristezza e solitudine. Ed è quello che avverte Rieux, il medico che coraggiosamente si erge a colonna portante per tutti: curando e dirigendo una città ormai in ginocchio. Ma alla fine è sempre l’amore (l’amore come sfondo, appunto), l’attaccamento alla vita, a vincere. A farci uscire da quello stato così depotenziante in cui siamo finiti per poter tornare di nuovo a porci degli obbiettivi e a vivere. E non sopravvivere.
La peste va combattuta. Rieux e i suoi aiutanti fino all’ultimo non si sono arresi. Hanno compreso che essere felici oggi significa “essere colui che rimane”. Superare l’ostacolo significa amare: “un uomo deve battersi per le vittime, certo. Se però poi smette di amare tutto, a che serve che si batta?”
È l’amore che ho detto all’inizio, posto lì come sfondo, immobile, mai prono e pronto a subentrare. La peste lo aveva quasi sopraffatto, ma lui è rimasto dietro le quinte, celato, in attesa di imporsi con forza distruttiva contro il male del suo tempo. È la convinzione degli uomini a chiamarlo. Paneloux, il prete, che con le sue omelie scuote la cittadinanza ormai oppressa: Dio ci chiede un estremo atto di amore per i nostri peccati. Rambert che va avanti, nutrito dall’affetto verso la donna che ama, salvo poi capire che “ci sarebbe da vergognarsi a essere felici da soli”. E quindi comprende che non può abbandonare la città dove i suoi amici stanno lottando per un futuro che forse non ci sarà mai: relegare loro e la città al proprio destino, significa ‘abbandonare’. Non potrà mai essere felice.
Scegliere l’amore non significa, dunque, scegliere subito e per forza la donna che si ama, ma significa scegliere l’azione giusta da fare in quel momento per amore di altri. Anche per la sua stessa donna. Vivere un amore felice con lei è ben diverso che viverlo con un peso nel cuore tale da lacerarti l’anima e rovinarti la coscienza. Perché si può sempre scappare e lasciare tutto al suo destino consapevole però che sarà tragico. Oppure, conscio che amore senza felicità non vale la pena di essere vissuto, fai un atto di passione per una vita migliore per te stesso, per la donna che ami e per gli altri. Insomma, deciditi di essere “quello che rimane”.
Ecco che in una città oppressa, in ginocchio, dilaniata da quella peste un po’ preannunciata e un po’ improvvisa, è la forza e la convinzione di pochi uomini mossi dal loro grande -e per ognuno- differente amore che li spinge a dover scegliere, a doversi interrogare, a dover comprendere che coniugare questo con la felicità non è scontato. Va meritato e conquistato.
Scappare per amore quando puoi lottare per una causa e ti arrendi, non è felicità. Questo ci dice Camus.
Rimanere per opporsi alle avversità così da costruire quella vita, beata e desiderata, è ammirevole e audace. Ma difficile. Tuttavia una scelta va fatta. E alla fine quella scelta, per la crudele fatalità, è proprio tra amore e felicità. I binari sono gli stessi, ma qualcosa (e qui è la peste) può farli deragliare. Sta a ciascuno scegliere se saltare da quel treno scampando al pericolo ma con l’infelicita nel cuore, oppure provare a lottare per tornare a casa senza lasciare indietro quelli che puoi salvare.
Camus insegna questo: la potenza dell’essere uomo, della sua convinzione e della sua infinita bontà. La religione non è dirimente per l’autore. Ciò che conta è la capacità di ognuno di farsi promotore di un cambiamento e di una resistenza. Per amore di patria e di popolo.
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Differenze e comunanza dell'umanità
Dopo la mia prima esperienza con "Lo straniero" (una vita fa, a dire il vero) Camus mi aveva colpito, ma non abbastanza da spingermi ad approfondire la sua opera nel breve periodo, così come mi è successo ultimamente con Steinbeck. Eppure, dopo anni, ecco che mi cimento con la lettura de "La peste", che devo dire mi ha folgorato e ha fatto rinascere in me il desiderio non solo di approfondire quel che mi manca dell'opera dell'autore, ma anche di rileggere nuovamente "Lo straniero".
Questa è un'opera di una profondità fuori dal comune, che riesce col pretesto del morbo a riflettere su molte sfaccettature dell'animo umano, che un flagello come questo può far salire in superficie in un modo che sarebbe impossibile, in condizioni normali. Camus prende il lettore e lo scuote, lo prende per le orecchie e gli gira il volto, costringendolo a osservare tutto quello da cui tende a distogliere lo sguardo.
Gli uomini si ritrovano a combattere qualcosa che è infinitamente più grande di loro, qualcosa che ne controlla quasi totalmente il destino; un destino oltremodo tormentoso in quanto è affidato totalmente al caso e alla volontà della malattia, che stronca chi vuole, quando vuole. È interessante osservare le diverse reazioni allo stesso male, allo stesso terrore; Camus ha trovato un modo incredibilmente realistico di mettere in risalto le differenze ma, allo stesso tempo, di mostrare quel che accomuna tutti gli esseri umani. Questo è secondo me un lavoro che solo un grande autore e una grande mente potevano mettere in piedi.
Messi a confronto e in lotta con tale flagello gli esseri umani diventano un turbinio di emozioni, divisi tra speranza e rassegnazione; tra riscoperta delle piccole gioie e profonda disperazione; tra la gabbia di terrore del presente e liberazione dalle preoccupazioni del futuro e i tormenti del passato. La peste, la prospettiva della morte, porta gli uomini a contemplare cose che nel torpore dei tempi quieti non avrebbe mai considerato, cose che un essere umano dovrebbe contemplare in ogni caso, a prescindere dal dolore che esse comportano, ma che si ritrova a considerare solo nel momento della fine, che nella maggior parte dei casi arriva troppo tardi nel percorso della vita. La malattia, invece, li porterà ad affrontare tutto questo prima del tempo, costringendoli a un cambiamento graduale ma permanente e che, paradossalmente, ha molti risvolti positivi: perdita delle illusioni, consapevolezza, conoscenza, tempra.
Tutto questo è reso in maniera eccelsa, pur essendo una lettura che richiede una buona soglia di attenzione per essere compresa e apprezzata appieno.
Orano è una cittadina francese in cui, da un giorno all'altro, si cominciano a scovare cadaveri di topi a ogni angolo di strada; nei palazzi, nelle cantine, nei ristoranti. Quello che all'inizio si presenta solo come un fatto insolito che scuote leggermente la monotonia della vita di una città piuttosto noiosa e spenta, diventa il presagio di un flagello che la devasterà per più di un anno; perché quello che uccide i topi comincerà a uccidere anche gli uomini, e certo non con numeri più generosi.
Il dottor Bernard Rieux si troverà ad affrontare questo morbo che si credeva ormai sparito, perso in un sonno eterno; che ha devastato la vita degli uomini nei secoli passati ma che ormai aveva smesso di tormentarci. È difatti difficile ammettere che sia tornato, nei primi tempi in cui si presenta; è difficile addirittura pronunciarne il nome: peste. Ma alla fine non si potrà più negare e avrà inizio una lotta in cui gli esseri umani non possono fare altro che provare ad assorbire i colpi nel modo migliore possibile, senza mai avere la possibilità di sferrare un attacco: come si può, infatti, colpire il morbo della peste? È una cosa che si può soltanto sopportare, e che se dovesse lasciarci vivi potrebbe ancora tormentarci col ricordo della sua spietatezza. Dunque tutto quel che resta da fare all'uomo è subire e cercare di non soccombere, sopravvivere e, in tale fortunato caso, bendarsi le ferite e ricominciare.
"Il male presente nel mondo viene quasi sempre dall'ignoranza, e la buona volontà, se non è illuminata, può fare altrettanti danni della malvagità. Gli uomini sono più buoni che cattivi, e in realtà il problema n on è questo. Ma sono più o meno ignari, e questo è ciò che chiamiamo virtù o vizio, dove il vizio più desolante è l'ignoranza che crede di sapere tutto e si concede per questo il diritto di uccidere. L'anima dell'assassino è cieca e non c'è vera bontà né vero amore senza tutta la chiaroveggenza possibile."
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Un calore di vita e un'immagine di morte
Sempre più di rado mi capita di chiudere un libro con un senso di nostalgia per situazioni e personaggi; con questo romanzo è successo, e tanto più inaspettatamente in quanto si è trattato di lasciare gli abitanti di una città appestata.
La causa più verosimile è da ricercarsi nel senso profondo di umanità che emanano le pagine, un'umanità laica e santa, cocciuta quanto può esserlo la forza della vita.
L'inizio è carico di un'ironia sottile e amara che si avvicina molto al sarcasmo e strappa qualche sorriso, come se l'autore, muovendo le fila degli eventi che precipitano, si prendesse gioco delle illusioni a cui i personaggi si aggrappano per non cedere al panico.
Ma quando la farsa lascia il posto alla tragedia sembrano essere le diverse anime dello scrittore a parlare attraverso un vasto campionario di individui: eroi per caso, antieroi, cinici spettatori, sommersi e salvati. Personaggi commoventi, per molti versi, così lontani dalla perfezione, così perfettamente delineati.
La prosa resta asciutta, ma si fa strada un senso profondo di compassione, unito a ideali come lealtà e amicizia che più dell'amore risplendono tra le ombre della pestilenza, mentre la narrazione raggiunge il punto più alto con l'interrogativo cruciale: è il caso di rifugiarsi nella fede, accettando supinamente la volontà divina, o sarebbe meglio rinunciare a credere, e combattere con ogni mezzo il morbo?
“Non ne so niente”, risponderebbe il dottor Bernard Rieux, protagonista del romanzo.
Eppure, se c'è una cosa che i flagelli insegnano, è che vale sempre la pena lottare per la salvezza degli esseri umani, essendoci in essi più cose da ammirare che da disprezzare.
E non a caso le due opzioni - fede o scienza - finiscono per mescolarsi nella strenua ricerca della pace a servizio degli uomini:
“Un calore di vita e un'immagine di morte: era questa la conoscenza”.
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Il mistero della sofferenza dell'innocente
Il romanzo è bellissimo, esce dal cuore e dalla mente dell’autore, è una grande metafora che spiega il modo di vedere la vita di Camus, pessimistico, ma non esageratamente.
Certo, l’inizio del libro è difficile da leggere, non me lo ricordavo così duro, con quelle descrizioni di ratti e di bubboni che certo non rientrano nella categoria del piacevole. Ma più o meno da metà libro ci si distacca dalla situazione ormai nota per presentare la peste come metafora e per guardare l’uomo di fronte alla peste. Gli uomini di fronte al male. Il male è nella vita ma Camus vuole essere medico e guarire se possibile il male altrui, oltre a rifiutarlo in sè per non trasmetterlo ad altri in uno sforzo estremo della volontà. L'uomo è chiamato ad essere eroe, data l'emergenza del morbo (male) che infetta ogni vita.
"Il microbo è cosa naturale, Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, se lei vuole, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deva mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile."
Ci sono tanti modi diversi di vedere la peste e di affrontare la vita e l’assurdo, il dramma. Rambert, l’innamorato separato dall’amata è l’uomo felice, che crede nella felicità, l’illuso o forse il fortunato. Rambert in un primo momento dice di volersene andare, la peste non lo riguarda e vuole tornare dalla sua donna. Ma poi ci ripensa e affronta la peste con gli altri, con dignità. Alla fine dell’epidemia c’è la sua donna ad aspettarlo e può ancora illudersi di poter essere felice, che il peggio sia passato. Bellissimo il rapporto d’amicizia tra Rieux, medico, alter ego di Camus, e Tarrou. Entrambi lottano contro la peste, entrambi pensano che la vita sia affetta dalla peste, entrambi sono convinti che la peste vada affrontata da medici ma Tarrou pensa che si debba essere persino santi di fronte al male, anche se la sua idea è di una santità laica. Ho pensato, leggendo di questa amicizia alla bellissima amicizia tra Camus e Simone Weil, il cui pensiero Camus ha fatto di tutto perché venisse pubblicato. Certo, Simone doveva essere una pensatrice carismatica, una specie di santa laica, chiamata dagli amici la marziana e l’imperativo categorico in gonnella per il suo caratterino.
I personaggi di Camus sono belli, sono degli Acab in lotta contro il male. E, comunque, ha una bellissima idea dell’amicizia.
La vita offre la conoscenza e il ricordo del dolore e dell’affetto, dell’amicizia. Per il resto non dà speranze se non agli illusi. Tarrou, ad esempio, non ha speranza se non quella di consacrare la propria vita al servizio degli uomini, cioè non avendo nessuna speranza è spinto, per così dire alla santità. Altri uomini possono magari illudersi, immaginare che la peste possa arrivare e andarsene lasciando immutato il cuore . Ma non per tutti è così. Nemmeno Rieux si illude.
Camus dice del suo alter ego Rieux: lui sapeva quello che ignorava la folla e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valige, nei fazzoletti, e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, sventura e insegnamento degli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice.
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Tutti sanno che è scomparsa
Curiosamente, ho riletto “La peste” di Albert Camus proprio mentre mio figlio stringeva i tempi per sostenere l’esame di microbiologia. Naturalmente, gli ho domandato se i programmi di Medicina contemplano ancora lo studio della peste (“È impossibile, tutti sanno che è scomparsa dall’Occidente”). Ne ho ricevuto in cambio risposte che contemplavano non soltanto eziologia del morbo e sintomatologia (“Pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati”), ma anche modalità di diagnosi (“Si dichiari lo stato di peste. La città sia chiusa”) e terapie (“Lei sa… che il distretto non ha il siero?”).
Che la pestilenza sia veicolata dai ratti è un fatto noto (“La mattina del 16 aprile il dottor Bernard Rieux, uscendo dal suo studio, inciampò in un sorcio morto, in mezzo al pianerottolo”), e Camus – in quest’opera potentemente allegorica (“Ci sono sulla terra flagelli e vittime… bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello”) – immagina che così scoppi l’epidemia a Orano, che ben presto diviene anfiteatro della tragedia (“Questa città senza pittoresco, senza vegetazione e senz’anima finisce col sembrare riposante, e vi ci si addormenta. Ma è giusto aggiungere ch’essa è inserita in un paesaggio impareggiabile, nel mezzo di un pianoro spoglio, circondato da luminose colline, davanti a una baia di perfetto disegno”) proprio come Tebe ai tempi di Edipo.
Sul coro dei malati si stagliano alcune individualità nelle quali Camus rappresenta come gli uomini rispondano diversamente al medesimo stimolo: chi – come il medico Rieux - con l’impegno umanitario (“Non ho inclinazione, credo, per l’eroismo e la santità. Essere un uomo, questo m’interessa”) ad onta del pericolo (“Ma il lavoro può essere mortale, lei lo sa”); chi – come Tarrou (“L’opinione di un altro testimone. Jean Tarrou… si era stabilito a Orano alcune settimane prima e alloggiava da allora in un grande albergo del centro”) - con la collaborazione e con l’attivismo (“Io ho un progetto d’organizzazione di squadre sanitarie di volontari”); chi con la burocrazia (il funzionario Grand “non arrivava a credere che la peste potesse veramente stabilirsi in una città dove si potevano trovare dei modesti funzionari dediti a onorevoli manie”) e con la reazione (“La pensava come lui, che un mondo senz’amore era come un mondo morto e che viene sempre un’ora in cui ci si stanca delle prigioni, del lavoro e del coraggio, per domandare il viso d’una creatura e il cuore meravigliato dall’affetto”) artistica (“Il dottore lo sfogliò e capì che tutte quelle pagine non contenevano che la stessa frase, all’infinito ricopiata, rimaneggiata, arricchita o impoverita”); chi – come Cottard - con l’opportunismo (“La peste gli serve bene; d’un uomo solitario e che non lo voleva essere, ha fatto un complice”); chi – come padre Paneloux – con la fede; chi – come il giornalista Rambert - con il desiderio di fuga e l’illusione di poter scegliere (“Alcuni di loro, come Rambert, arrivarono persino a immaginare… di agire ancora da uomini liberi, di poter ancora scegliere”).
Le ultime cinquanta pagine del romanzo premiano chi ha “resistito e sopportato” duecento pagine di descrizioni angosciose.
Qui Camus scrive pagine indimenticabili sull’amicizia che si instaura tra due protagonisti, il medico Rieux e Jean Tarrou (“Il dottore… domandò se Tarrou avesse un’idea della strada da prendere per arrivare alla pace. «Sì, la simpatia»”); qui Camus rivela l’identità del misterioso narratore (“La nostra cronaca volge alla fine. È tempo che il … confessi di essere l’autore”); qui Camus sorprende (“Un pazzo spara sulla folla”) e, per contagio (“Io soffrivo della peste molto prima di conoscere questa città e questa malattia”), ci ricorda di essere l’autore de “Lo straniero” (“Ho creduto che la società in cui vivevo fosse fondata sulla condanna a morte e che, combattendola, avrei combattuto l’assassino” … “Dal momento in cui ho rinunciato a uccidere mi sono condannato a un definitivo esilio”).
Bruno Elpis
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Un vortice di paura, noia e disperazione
Una città senza piccioni, senza alberi né giardini, senza battiti d’ali o fruscii di foglie, dove la primavera si riconosce soltanto da ciò che si vende nei mercati, d’estate il sole arde implacabile sulle case, l’autunno è un’invasione di fango e le belle giornate arrivano soltanto in inverno. Siamo ad Orano, prefettura francese sulla costa algerina, nella seconda metà degli anni Quaranta. Una quantità incalcolabile di topi continua a morire in ogni angolo della città appestandone l’aria e non promettendo niente di buono. Di lì a poco, infatti, cominciano a morire anche le persone, assalite da febbri altissime, da gonfiori alle membra e ai gangli del collo, da violenti attacchi di vomito. I sintomi riconducono inequivocabilmente ad una malattia debellata ormai da tempo, di cui non si dovrebbe più sentir parlare. Sembra impossibile ma purtroppo è la triste verità: si tratta di un’epidemia di peste. Orano è costretta all’isolamento, il vortice di paura, di noia, di disperazione in cui si ritrovano i suoi abitanti tende ad evidenziarne pregi e difetti, rimarcandone i vizi o esaltandone le virtù a seconda dei soggetti e della loro reazione alla sciagura. Bernard Rieux, medico e principale protagonista del racconto, cerca di organizzare una strenua opposizione al terribile male, aiutato da una squadra di volontari e affiancato da un gruppo di fedeli amici. Una battaglia che ricorda molto l’eterna lotta che l’uomo combatte da sempre contro un mondo ostile e spietato. La peste di Camus si rivela infatti come un’amara metafora dei mali che affliggono l’umanità dall’alba dei tempi e che l’uomo non è ancora riuscito a debellare, né si mostra capace di poterlo fare. Un argomento importante trattato però in maniera fredda e meccanica dall’autore. Un racconto piatto, una prosa poco coinvolgente, personaggi incapaci di creare empatia con il lettore, lunghi passaggi in cui si ripetono sempre gli stessi concetti sono i principali difetti di un’opera che parte da uno spunto interessante per poi perdersi pagina dopo pagina e ritrovarsi soltanto in finale che lascia aperta la porta della speranza ma che al contempo ricorda “che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.”
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Una questione privata?
A Orano, città algerina, scoppia improvvisamente la peste. Lentamente la cittadina si sveglia dal suo torpore caratterizzato da una banale tranquillità, scandita dall’abitudine, per prendere atto della situazione.
La narrazione cronachistica e oggettiva presenta i pochi personaggi di un romanzo dove però impera la prospettiva corale. Spicca come protagonista indiscusso il Dottor Rieux affiancato da pochissimi altri funzionali a rappresentare diverse prospettive ideologiche e possibili comportamenti umani.
La cittadina viene isolata da uno stretto quanto repentino cordone sanitario che obbliga abitanti e temporanei ospiti stranieri a permanenza coatta.
È proprio lo straniero Rambert a dire:”Questa storia riguarda tutti” quando, dopo aver tentato con tutti i suoi mezzi di ricongiungersi all’amata fuggendo dalla città appestata, sceglie invece di rimanervi combattendo con gli altri per sanare la situazione. Non potrebbe essere altrimenti: dietro la peste si cela un’ampia allegoria che rappresenta di volta in volta guerra, malattia per estensione, condizione umana, vita. Tutte queste letture sono state già fatte e anche volendo prescinderne non si eviterà di coglierne nessi, assonanze, simbolismi in un gioco associativo inevitabile. Leggere l’opera sul puro piano narrativo rischierebbe, di contro, di far perseguire un piacere aleatorio, quello di una trama che accattivante non è, o ancora di ricercare una narrazione tesa a compiacere esteticamente il lettore, neanche ciò è.
L’opera è antipatica, respingente, asettica e riflette appieno l’intento dell’autore celato dietro un narratore il cui scopo non è quello di narrare per compiacere, per dilettare, per accattivare ma per informare con i toni della cronaca chi ancora cede al torpore intellettuale e preferisce vivacizzare la sua vita con semplice intento godereccio. Così non c’è spazio per eroi ed eroismi, sentimentalismi e toni edificanti. La peste non è uno spettacolo. L’uomo è visto nella sua interezza: un misto di bene e di male tendente ad un cieco individualismo che, scosso da un evento iscrivibile ad una situazione non controllabile( peste : malattia, guerra, vita, morte...), riscopre la sua umanità perché “ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare”. Ne consiglio la lettura proprio in virtù di quanto detto per scoprire un’etica laica i cui valori si poggiano sulla sincerità dell’individuo con se stesso e la fratellanza all’insegna della solidarietà. La vita dunque non è proprio una storia che riguarda tutti?
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IL BLUFF
Questo romanzo ha 66 anni, esattamente come mia madre. E proprio come lei, nonostante il tempo che scorre, conserva uno spirito attuale. Ma mentre mia madre si tiene al passo tramite innumerevoli sforzi, come molti di noi, questo libro non ne compie nessuno, poiché racconta dell’anima dell’uomo, sempre fedele a sé stessa nei secoli dei secoli…
Il messaggio o il significato di questo romanzo, si plasmano perfettamente in base alla vita e alle esperienze di ognuno di noi pertanto non occorre essere filosofi o antropologi per affrontarne la lettura, ma certamente è necessario amare la bella scrittura e aver passione per un’analisi precisa e immutabile dell’essere umano.
Perché quel che siamo è uomini. E come tali, di fronte ad un flagello per il quale non si hanno armi, né possibilità di fuga, reagiamo tutti, inesorabilmente, come Camus descrive. Siamo fatti di rassicuranti abitudini ; viviamo spesso di pensieri leggeri per abolire la pesantezza delle preoccupazioni; siamo esseri sociali, ma più forte in noi è l’egoismo.
E quando la peste arriva ad Orano, l’esilio separa, l’ansia rinchiude e la paura spalanca la porta. Si rifugge il pensiero, per poi piombarvici al centro. La convinzione di essere diversi cede alla consapevolezza di essere tutti uguali. Non c’è giustizia nelle morti, nella scelta di chi cadrà e di chi invece sopravvivrà.
La vita veste uno dei suoi tanti bluff, ci fa pensare al futuro per poi mostrarcene l’illusione.
Un libro che mi ha appassionato, con uno dei migliori personaggi che io abbia mai avuto la fortuna di vedere descritto, Mr.Grand.
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Cecità, per tutto il resto.
Un romanzo che in realtà è una riflessione sull'uo
La città di Orano, in Algeria, viene colpita da una malattia che sembrava appartenere a un lontano passato : la peste. la prima parte del romanzo, quella più vicina forse alla sensibilità del lettore contemporaneo, è una descrizione incalzante,vibrante, drammatica di come la comparsa della malattia, la sua progressiva, inarrestabile diffusione sconvolga, distrugga la vita degli abitanti della città. Le porte della città vengono chiuse come ultima, estrema difesa contro il diffondersi della malattia : gli abitanti di Orano sono diventati dei prigionieri . Il romanzo a questo punto cambia caratteristiche , cambia ritmo, diventa un 'appassionata riflessione sugli uomini, sulla loro capacità di reagire al dolore, alla morte. si confrontano soprattutto due personaggi che sono portatori di due " morali ", di due modi diversi di concepire la vita : il medico Rieux, l'uomo portatore di un'etica laica, il sacerdote paneloux che non rinuncia a vedere anche nella peste la presenza di DIO. Un libro importante, un classico del novecento.
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Il flagello di Oran
Ottima la partenza. Camus ha saputo attirare la mia attenzione sin dalle primissime righe con un'accurata descrizione della brutta città di Oran e dei suoi abitanti nel 194... Il realismo critico di cui si serve l'autore come tecnica narrativa è palpabile, non vi è spazio alcuno per l'astrattismo.
Il flagello che si abbatte su Oran è devastante, assistiamo gradualmente ad un peggioramento delle condizioni e abbiamo la percezione di un mondo che crolla... La peste cambia tutto ed inevitabilmente. I personaggi affrontano in maniera assai differente il corso dell'epidemia, il dottor Rieux è l'incontrastato protagonista. Sono vari ed interessanti, ma non vanno molto 'oltre' secondo la mia personale ottica, poichè è la narrazione in sè che non consente un approfondimento psicologico.
Peccato che dopo le prime più o meno cento intense pagine (i dettagli della sindrome della malattia, bubboni duri e sanguinanti, febbre alta e macchie...sono una parte che adoro per i dettagli anche macabri a tratti..) il libro si blocchi in un vortice di pensieri già detti e ridetti in precedenza, e la cui lettura mi è stata tediosa...Nelle ultime cinquanta pagine abbiamo un finale degno del principio dove la peste scompare (forse?!) e l'inizio dell'incubo sembra solo un vago ricordo.... Tutti percepiscono che nulla potrà mai essere come prima, ed i nostri personaggi sono cambiati (se sopravvissuti :P)
Intriso di filosofia, il libro offre una cronoca molto valida, ma decisamente non è il mio genere...
Immaginiamo a come avremmo reagito noi ad un'epidemia simile, imprigionati nella città e impossibilitati alla comunicazione esterna... grazie a Camus abbiamo la particolare ed interessante testimonianza di Rieux, Tarrou, Grand, Cottard, Rambert et les autres....
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Cos'è la peste?
Difficile parlare de “La peste” di Albert Camus senza fare cenni al pensiero esistenzialista del filosofo (se non proprio all’esistenzialismo) oppure all’epoca in cui venne concepito il romanzo.
Ma non farlo significherebbe omettere molto. Si può vedere il romanzo come sintesi del pensiero di Camus, o al contrario, dal romanzo trarre il profilo di un scrittore definito “dell’assurdo”. Ma perché dell’assurdo? In cosa e dove consiste questa assurdità?
Ecco, allora, che romanzo e pensiero si fondono in un unico elemento e l’uno diventa indispensabile all’altro.
Non avere tra le mani i dovuti strumenti (momento storico, ambito filosofico…) toglie molte delle bellezze al romanzo, le cui frasi e i cui personaggi assumono bellezza e profondità solo grazie a queste conoscenze. Non è una spiegazione al romanzo (non ce ne possono essere), ma è come possedere una mappa, delle coordinate grazie alle quali muoversi in un territorio dove il pensiero prende forma in immagini.
Orano, città dell’Algeria, anni ’40. La città (già la particolarità è significativa) è “senza uccelli, senza alberi, senza giardini, senza battiti d’ali, senza frusciare di foglie…” In effetti come immaginare un luogo simile, dove la primavera è annunciata dai fiori portati da fuori? Che luogo è questo? Dove siamo?
È evidente che non possiamo essere in una città reale, ma in un “luogo neutro” come anticipa lo scrittore fin dalla prima pagina. Magari un luogo dell’animo. O meglio, della mente.
La città, comunque, è colpita dalla peste, che prima uccide topi a migliaia, ma poi diffonde il suo virus anche agli uomini.
Bernard Rieux, medico, ci racconta di questo diffondersi della malattia e della sua lotta per debellarla. Vivrà questi giorni e questa lotta a fianco di Jean Tarrou, un intellettuale che ha rinnegato una sua precedente professione forense, e Raymond Lambert, un giornalista che dopo aver pensato di scappare dalla città rimane per sostenere le ricerche del medico.
L’epidemia dilaga fino al punto da costringere le autorità a isolare la città, a chiuderne le porte.
Nonostante la peste, molti continuano indifferenti la loro vita, nelle loro bassezze, nei loro godimenti. Altri invece, vengono colti dalla paura e si rinchiudono in casa.
La prima domanda che verrebbe da chiedersi, in maniera abbastanza elementare e sommaria, è Ma cos’è questa peste? E infatti quello che si chiesero molti alla prima pubblicazione del romanzo, dando poi una superficiale spiegazione allegorica con ciò che era accaduto pochi anni prima in seguito al dilagare del nazismo in Europa. Ma l’intenzione di Camus non era quella di fare un libro storico. Avrebbe scelto altre strade, altre riflessioni, sicuramente più efficaci. Lo scrittore stesso invitava a non tradurre così rapidamente il significato del romanzo, a guardare oltre.
Più che tentare di capire cos’è la peste (io ho una mia idea, ma non è interessante che dica la mia: il bello della letteratura è che in ognuno si formi il proprio pensiero) proviamo a vedere cosa non può essere. È un qualcosa che non ha a che fare né con l’amore, né con l’amicizia, né con la vita, né con la solidarietà tra gli uomini. Verrebbe da dire che stiamo parlando della morte, ma non è proprio così, sebbene sia un concetto alquanto vicino.
A riguardo trovo significativa una frase del romanzo: “La peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore, infatti richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi”.
Un mondo senza futuro, una vita senza futuro cos’è? Non è esistenza. È buio. Davanti. Cosa fare, allora, rassegnarsi? Lottare. Ecco, l’unica via è lottare. È rischioso, come lo è per il medico che per curare un malato o per trovare la giusta medicina si espone al contagio. Ma non è ancor più rischioso affidare la propria vita al caso, alla possibilità di contrarre o meno una tale malattia? Ecco allora l’assurdo, si vive per lottare. Ed è la forza che ci fa andare avanti. Rieux fissa questa idea dicendo “Quello che odio è la morte e il male… noi siamo insieme per sopportarli e combatterli”. Insieme. Basta solo questa parola a dare unità al tutto, a indicare la strada non per il singolo uomo, ma per l’intera “esistenza”, una strada forse che non porta a nulla, ma che di certo fa poggiare saldamente i nostri passi sul senso del vivere, dell’esistere.
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Il Nobel non fa lo scrittore
Quando un libro non mi è piaciuto faccio molta fatica a scrivere una recensione decente ma, siccome tentar non nuoce, tento: inizio col dire che sono stata obbligata a leggere "La peste", in quanto trattasi di un compito assegnatomi per scuola. Purtroppo tutte le volte che la scuola mi ha costretto a leggere un libro, questo non mi è mai piaciuto e, come avrete ben capito, è successo anche questa volta. Prima di tutto lo stile oggettivo e privo di sentimentalismi di Camus mi ha delusa profondamente, provocandomi un senso di torpore, totale distaccamento e freddezza, nonostante il narratore stesso spieghi che questo modo di scrivere era necessario per non inventarsi pensieri o emozioni inesistenti relativi ai vari personaggi e avvenimenti. Sarà che sono una persona alquanto sentimentale, ma questa storia mi ha fatto venire freddo anche con quaranta gradi di temperatura.
Inoltre questo romanzo è un mattone colossale e anche se ha appena duecentotrentacinque pagine, ho impiegato quasi un mese per terminarlo: la storia non coinvolge, non appassiona, gira sempre su stessa e racconta sempre le stesse cose senza cambiare praticamente mai nulla e l'unica cosa un po'interessante sono i dialoghi e alcuni eventi che però svaniscono subito come ghiaccio al sole. Insomma una noia pazzesca, tant'è che mentre leggevo provavo forti sensi di nausea e mal di testa quasi avessi preso anch'io la peste leggendo questo libro.
Questa storia di questa città isolata dal resto del mondo, con migliaia di persone che muoiono ogni giorno a causa di questa malattia considerata appartenente ai secoli passati, mi ha dato uno spiacevole senso di profonda e tediosa tristezza.
Quando l'ho finalmente terminato, mi sentivo come una prigionera (rinchiusa ingiustamente) che è stata liberata dalla sua cella.
Mio caro Camus, avrai anche vinto il premio Nobel ma con me non ha funzionato. No, non ha funzionato per niente. Se l'abito non fa il monaco, allora il Nobel non necessariamente fa lo scrittore.
In compenso se potessi votare per l'utilità darei un cinque pieno: con quel libro ci ho ammazzato tutte le zanzare che mi ronzavano intorno.
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Eppure mi dispiace..
Caro Camus, è vero, secondo te, quando si dice che a sbagliare si è sempre in due?
Vale anche per noi questa frase cotta e ricotta?
Colpa mia, perchè ho iniziato a leggerti in un periodo tormentato: esami di maturità, studio compulsivo, ansia da prestazione (non essere malizioso!) e via discorrendo..
Colpa tua, perchè ….sei tu, Camus.
Credo che se ti avessi letto in un altro periodo della mia vita, avrei provato le stesse emozioni, ma almeno sarei riuscita a concludere la lettura; mentre adesso, per cause esterne e non, ho dovuto cedere (ed ecco che la mia autostima viene calpestata).
E' interessante quel che dici, giuro, ma...
… sei come una conferenza o un convegno in cui si discute di politica o della condizione femminile in Afghanistan: da un punto di vista contenutistico vuoi conoscere, ma dopo un po' inizi a pensare al tacchino che hai lasciato nel forno, oppure alle robe stese (pioverà, me lo sento!).
E' piatto ciò che racconti; interessante, ma piatto. Come quando un professore spiega filosofia: se trova il metodo giusto, gli studenti lo seguono come Poldo segue i panini, mentre se non riesce ad essere interessante, non può aspettarsi che gli allievi gli vengano incontro, anzi!..Sta tutto nel metodo, e su questo, caro Camus, scarseggi un po'.
Alcuni passaggi sulla peste sono formidabili, ma ahimè, non reggono tutta la baracca. Forse fare filosofia-romanzata non è una buona idea..
E' il secondo romanzo “filosofico” che leggo, ed è il secondo che fa cilecca. Ora, sono io il problema (quasi sicuramente) o e il genere che non riesce a catturare la mia stramba attenzione? …..
La peste è un argomento che ha sempre avuto una certa influenza su di me, ma questa volta mi è mancata l'aria. Ho dovuto riporre quelle pagine giallastre e cambiare..
Non ti offendere, ok? Nulla di personale.
Scusate, questa recensione è..strana, ma non riesco ad esprimere qualcosa di diverso se penso a “La peste”. Mi mancano le parole. Vorrei una spina speciale per attaccarla al cervello, o dove vi pare, per trasmettervi direttamente le mie sensazioni, che ahimè, non riesco ad esternare... purtroppo non si può...
Aspetto a fiotti i pomodori!!
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