La morte di Ivan Il'ic La morte di Ivan Il'ic

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LuigiF Opinione inserita da LuigiF    29 Dicembre, 2021
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DA TOLSTOJ A ROSSELLINI

basterebbero forse le parole di Cajkovskij: "Ho letto la morte di Ivan Il'ic. Sono più che mai convinto che il più grande scrittore di tutti i tempi è Lev Nicolaevic Tolstoj". C'e' ben poco da aggiungere. Questo lungo racconto rappresenta uno dei vertici nell'opera del grande russo. Mai prima di allora, il tabu' della morte e l'orrore dell'uomo che, impotente, ne osserva l'avanzata inesorabile, erano state rese con tale potenza e verità. Essenziale, scarna, ma allo stesso tempo provocatoria e straordinariamente moderna, la prosa di Tolstoj colpisce direttamente alla bocca dello stomaco .

Il protagonista del racconto è un alto funzionario di quella incredibile macchina burocratica che paralizzava la Russia zarista. La sua condotta di vita, in perfetta armonia con le regole dettate dalla società e solidamente improntata all'insegna del decoro, tende continuamente verso agognati avanzamenti di grado nella pubblica amministrazione nonchè alla soddisfazione di piccoli e ben tollerabili capricci borghesi. Le scelte personali, il matrimonio, le amicizie e le frequentazioni obbediscono tutte a questa logica. La vita scorre placida senza che dubbi o contraddizioni di sorta possano scalfire la compiaciuta coscienza di Ivan Il’ic.

Poi accade l’imponderabile: un banale incidente domestico è all’origine di una lunga ed implacabile malattia. Con crudo verismo e profonda pietas, Tolstoj descrive il progressivo decadimento fisico e l'abbruttimento morale derivante dal perdurare del dolore, ma soprattutto rende con straordinaria efficacia quell'infinito senso di solitudine dell'uomo di fronte alla morte:"...quella solitudine in mezzo a una città piena di gente, e ai suoi innumerevoli conoscenti e alla sua famiglia, una solitudine più completa della quale non poteva esserci niente, da nessun’altra parte, né sul fondo del mare, né sottoterra ..."

Il lento e costante avanzamento del male e la consapevolezza della fine imminente costringono Ivan Ilic a fare i conti con la sua vita.
D’un sol colpo, il velo di menzogna ed ipocrisia che celava profonde ed eterne verità si solleva mostrando impietosamente la vacuità di una esistenza vissuta inutilmente. Il dolore stesso è funzionale a questo processo catartico. Con esso, i veri valori dell'uomo riprendono prepotentemente il loro posto e quel castello di misere sovrastrutture in cui la nostra debolezza trova rifugio, si scioglie come neve al sole. Al termine del suo calvario, una abbagliante luce, al contempo laica e divina, appare a Ivan Il'lic nel momento della riappacificazione con l’eterno.

Tolstoj è un autentico gigante della letteratura e questo libretto è di quelli che turbano le coscienze. Riecheggia in me la celebre battuta di Fabrizi/Don Pietro in Roma città aperta (citazione di un verso di Majakovskij?): “Non è difficile morire bene, è difficile vivere bene"

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    12 Luglio, 2021
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Vivere e morire

«L’espressione di quel volto pareva dire che tutto quanto si doveva fare era stato fatto; e fatto bene. Inoltre conteneva come un rimprovero o monito ai vivi.»

Vivere e morire. Vivere in uno stereotipo precostituito, con il volto di una famiglia e di una dimensione forse nemmeno davvero scelta e desiderata quanto frutto di un volere comune, di una impostazione predisposta da terzi, da una società che impone i canoni e i dogmi da seguire, con un volto che non appartiene. Ma il tempo passa e con esso il nostro esistere tanto che un giorno, come un altro, ci rendiamo conto che proprio quel tempo che ancora possiamo passare su questa terra con i nostri cari, con i nostri affetti, con i nostri obiettivi, sogni, desideri e impegni, ha le ore contate. La morte sopraggiunge implacabile con la sua falce, il dispiacere colpisce eppure proprio quelle persone che abbiamo accanto sembrano essere quelle che sotto sotto sono più sollevate e rincuorate. Perché sono sopravvissute, perché non è toccato a loro quella sorte funesta seppur inevitabile per tutti.
Passano ancora i giorni, passano le giornate, la morte avanza con il suo incedere cadenzato eppure chi come il destinatario della sentenza di condanna è vittima e preda delle conseguenze è anche il prossimo congiunto, la famiglia, chi quelle urla sente e subisce.
E questo è ciò che accade a Ivan che si renderà conto che presto morirà e che per la sua condizione non vi sono possibilità d’appello. Noi lettori lo seguiamo passo passo in questo percorso senza ritorno, in questa strada a senso unico che consente di rivivere il vissuto e al contempo di analizzarlo e scrutarlo in tutte le sue criticità. Forse quei valori in cui credevamo non erano altro che apparenze? Forse quell’esistenza basata su consuetudini e dogmi imposti ha distolto l’attenzione dal vero essere?

«Ivan Il’Ic resta sente che è lui ad aver comunicato loro quell’uggia e che non può dissiparla. Cenano e si separano, e Ivan Il’ic resta solo, colla coscienza che la sua vita è avvelenata e avvelena quella degli altri, e che questo veleno non cede, ma anzi sempre più penetra tutto il suo essere.»

Tolstoj ci conduce per mano in questo viaggio, ci porta a prendere consapevolezza del nostro tempo finito, di quel che abbiamo e di quel che possiamo apprezzare e amare. Ancora, ci fa riflettere su quel che davvero ha riempito la nostra esistenza e su quel che invece avrebbe potuto riempierla al posto di insignificanti ore susseguite da piaceri fatui.
Un lungo racconto che è un crescendo costante che non delude le aspettative e che al contrario invita il conoscitore a riflettere su un tema mai scontato e banale. Un titolo intriso di magnetismo e riflessione.

«Tutto questo non fu che un attimo per lui, ma il senso di quell’attimo ormai non poteva più mutare. Per i presenti la sua agonia durò ancora due ore. Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il suo corpo macerato si scuoteva. Poi gorgoglio e il rantolo si fecero sempre più rari. “È finito!” disse qualcuno su di lui. Egli udì questa parola e se la ripeté nell’anima. ‘Finita la morte’, si disse. ‘Non c’è più, la morte’. Trasse il fiato, si fermo a mezzo, s’irrigidì e morì.»

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    03 Giugno, 2021
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"E ora era finita, doveva morire!"

Tutti sappiamo che dobbiamo morire, è un fatto conseguente semplicemente al fatto di essere nati. Ogni essere umano lo sa, ma trovarsi faccia a faccia con la morte è difficile, è un qualcosa che vorremmo negare in qualsiasi modo, rimandare o ignorare. Si tratta di un evento che è bene che stia il più lontano possibile da noi, sembra suggerire l’istinto di sopravvivenza.
Tolstoj invece ci consegna questo lungo racconto narrando – in una maniera notevolmente realistica e per questo, in alcuni punti, davvero toccante- gli ultimi mesi di vita di un uomo.
Ivan Il’ic è un giudice rispettabile, di mezza età, una persona perbene, onesta, ordinaria, che trascorre i suoi giorni appagando i suoi piccoli desideri quotidiani. Pensa di avere ancora molto tempo a disposizione e vive una vita tranquilla ma vuota e priva di significato profondo. Ivan Ilic potrebbe rappresentare chiunque di noi; forse è per questo che il testo risulta così scioccante nel suo realismo.
Infatti, un giorno come un altro, arriva la Morte. Arriva da lontano e lo prende lentamente, non in un colpo solo: egli raggiunge quindi in un modo straziante la consapevolezza che il suo tempo è scaduto. Ivan Il’ic si rende conto che presto morirà e noi lettori lo seguiamo nel suo percorso di riflessione, di disperazione e di abbandono finale. Lo seguiamo in quel passaggio che nessuno vorrebbe intraprendere e che sembra mettere in luce tutta la falsità e ambiguità che caratterizza la vita e le nostre relazioni. Con la chiarezza che ci dà la consapevolezza che il nostro tempo è finito, cosa possiamo apprezzare davvero? Ecco che tutto quello che prima sembrava riempire l’esistenza, il trascinarsi stanco di giornate laboriose ma insignificanti, i piccoli banali piaceri da accostarvi per alleggerirle, le relazioni basate sulla consuetudine e sulle regole ma prive di sentimento, tutto questo si rivela senza senso e rende il momento del trapasso ancora più doloroso.
In conclusione quindi, questa opera breve di Tolstoj può darci la possibilità di fare una riflessione scomoda e crudele ma anche credibile e, forse, necessaria.

“Gli venne in mente ciò che fino ad allora gli era parsa una totale assurdità, quella di aver vissuto la vita in modo sbagliato. Vide che questa poteva essere la verità. Gli venne in mente che i suoi timidissimi tentativi di ribellione contro ciò che la gente dell’alta società considerava buono, tentativi appena abbozzati, ch’egli si era sempre affrettato a reprimere, potevano essere quelli autentici, e tutto il resto, errore. Il suo lavoro, il suo modo di vivere, la sua famiglia, i suoi interessi mondani e professionali, tutto poteva essere stato un errore.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    10 Dicembre, 2019
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Un autore che stimo ma non amo

Io e Tolstoj proprio non ci prendiamo. Non fraintendetemi, ne “La morte di Ivan Il'Ic" fa sfoggio di una maestria fuori dal comune, soprattutto nel tratteggiare la situazione e i mutamenti nella psiche del protagonista. Questo è davvero impossibile negarlo, anche per un lettore come me che con questo autore ha avuto “frizioni” fin dal principio. Anche nel caso di quest’opera, tuttavia, pur non potendone ignorare i pregi, è mancata quella scintilla che in me scatta quando una lettura è stata realmente indimenticabile. Non so a cosa questo sia dovuto: la prima esperienza con Anna Karenina è stata troppo traumatica e mi ha reso prevenuto? Le entusiastiche recensioni lette sul web e ascoltate da amici mi hanno caricato di troppe aspettative? Non saprei davvero dirlo, sta di fatto che pur avendolo apprezzato, non l’ho amato. Mentre proseguivo nella lettura, ho avuto la stessa sensazione che avrei potuto avere in un ristorante di ottimo livello, in cui pur ammirando e apprezzando la raffinatezza dei piatti, mi ritrovavo a pensare ai prossimi pasti nei miei locali di fiducia.
Tralasciando i gusti personali (perché di null'altro si tratta) Tolstoj tratteggia egregiamente e in pochissime pagine quella che potrebbe essere la vita di una persona qualunque (facendo, ovviamente, le opportune attualizzazioni), per poi metterla di fronte alla brutale realtà della morte. Ivan Il’ic è un uomo come tanti: lotta per avere quello che vuole; si entusiasma per i propri successi, persegue le proprie mete, si crea una famiglia; insomma, si districa tra le consuete gioie e dolori della vita, beandosi nella convinzione di stare facendo tutto nel modo giusto. Tuttavia, la morte è quell'elemento che ha il potere di mettere tutto in discussione; in primis, la vita.
Perciò, quando la malattia busserà prematuramente alla porta di Ivan Il’ic (oltretutto in modo incredibilmente stupido, aumentando il senso di impotenza e mettendo in risalto l'estrema fragilità della vita), questi reagirà con sgomento, con incredulità, con una serie interminabile di emozioni che lo consumeranno lentamente. Mano a mano verranno fuori tutte le ipocrisie con cui le persone in salute si approcciano a chi vede la morte avvicinarsi inesorabilmente. Ivan Il’ic prova repulsione per la condiscendenza e il falso ottimismo dei dottori, degli amici e dei familiari; prova sollievo solo in compagnia di chi ha pietà di lui. Presto però, tutto lascia il posto alla voglia di continuare a vivere. Perché si deve morire? Cosa c'è di giusto nella morte? perché ci è toccata in sorte? Allora ci si interroga sulla propria vita, sul senso che questa ha avuto, se si sia davvero vissuta nel modo giusto, e anche nel caso in cui la risposta sia affermativa, che senso ha avuto far tutto nel migliore dei modi se alla fine si è costretti a gettare tutto nelle ortiche della non-esistenza?
Ivan Il’ic verrà travolto da una marea di emozioni di cui saremo spettatori; che ci faranno pensare e forse ci angosceranno. Quando il nostro protagonista vedrà finalmente la fine forse ci chiederemo: "negli ultimi attimi, avrà finalmente trovato un senso?"
Chissà.

“Gli era venuto in mente che quello che prima gli sembrava impossibile, l’idea di non aver vissuto la propria vita come avrebbe dovuto, poteva essere la verità. Gli erano venute in mente certe sue pretese di lotta, appena percepibili, contro quello che veniva considerato buono dalle persone altolocate, pretese appena accennate che lui aveva subito allontanato da sé; gli era venuto in mente che proprio quelle potevano essere giuste, e tutto il resto poteva essere sbagliato. E il suo lavoro, il suo modo di stare al mondo, e la sua famiglia, e gli interessi sociali e professionali: tutto questo poteva essere sbagliato. Aveva tentato di difendere, di fronte a sé stesso, queste cose. E d’un tratto aveva sentito tutta la debolezza di quello che difendeva. Non c’era niente da difendere.”

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    11 Settembre, 2019
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Una Potenza pura.....attenzione a chi legge, potre

Lo dico senza retorica. E'un capolavoro potentissimo ed indigesto.
Potentissimo perchè in poche pagine svela tutta la falsità, l'ipocrisia e diciamolo pure la quasi totale mancanza di significato della vita presa nei suoi falsi "valori" familiari e amicali.
Io credo che per molti, soprattutto per chi ha famiglia, leggere tale pagine può essere da una parte distruttivo e indigesto, mentre dall'altra può presentare l'esistenza da un punto di vista magari non ancora esplorato.
E' un lento scivolare nella disperazione del protagonista, capo famiglia di una agiata normale famiglia russa, che potrebbe anche essere di qualunque altra società.
Va tutto bene, la prole cresce bene nell'agiatezza, la consorte sta bene, la servitù anche.
Ma cosa accade se il fato rema contro? se un banale incidente compromette la salute di uno dei familiari? semplicemente ci si scontra con l'ipocrisia, la cattiveria, l'indifferenza, il cinismo e tutta l'insensatezza del così detto "focolare domestico".
Un qualcosa di meraviglioso è la genialità di questo Illuminato scrittore russo, che ci porta nei meandri della disperazione del protagonista. Ci fa vivere in prima persona tutta le sue riflessioni, i suoi sentimenti, il suo grido di angoscia, il suo sguardo allucinato che vede in fondo a un abisso il vero volto della realtà. Che non è quello ipocrita, finto, costruito sul nulla, dove tutti si vogliono bene e si rispettano (appunto perchè la vita sorride loro sia economicamente ma anche di salute. Quello che egli vede in fondo al tunnel invece è il vero volto della vita, che si palesa quando le cose non vanno più bene, quando subentra la malattia, gli affari sprofondano e finalmente si palesano i veri fasulli "sentimenti" di chi dovrebbe starti accanto essendo un familiare stretto.
Che meraviglia, mie cari, scorrere le pagine di questo compendio di psicologia e vedere cosà la vita ha in riserbo per noi, se ci ammaliamo, se diventiamo un peso per gli altri, se perdiamo i denari, se invecchiamo.
Un giorno ero ospite in una casa di cura. In lontananza seduto sotto a un albero ho visto un vecchietto solo soletto su una sedia a rotelle.
Mi sono avvicinato e gli ho chiesto come stava, mi ha risposto: giovane goditi la vita e fai finta di nulla riguardo i tuoi rapporti con gli altri. Godi fin quando sei giovane, in salute e magari con qualche risorsa in tasca. Poi appena sopraggiungerà una malattia o un impedimento finalmente vedrai di che pasta è fatta la cosi detta umanità, chi sono i tuoi familiari e allora potrai anche te riflettere solo, per sempre solo, in un giardino fin quando la morte non sopraggiungerà a liberarci di tutto".
E' un libro meraviglioso, siamo sulle vette di "Resurrezione", con la fondamentale differenza, che in "Resurrezione" c'è un riscatto, in questo capolavoro si finisce nell'abisso senza possibilità di risalita.
MERAVIGLIOSO

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Il Cappotto
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Novembre, 2018
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“E la morte? Dov'è la morte”

In fatto di letteratura russa, purtroppo, conosco ancora ben poco e di quel poco che ho letto finora (fatta eccezione per il geniale “Cuore di cane” di Bulgakov) sono rimasta abbastanza delusa. Stavolta, invece, “La morte di Ivan Il'i? ”, una vera sorpresa, mi spinge quasi a riconciliarmi con l'intera categoria.
Scritto sul finire ormai dell'Ottocento, questo lungo racconto di Lev Tolstoj si distingue fin dalle prime pagine per la scorrevolezza della sua prosa, sebbene l'argomento trattato non sia certo leggero né di poco conto; in esso, infatti, il grande scrittore russo affronta il tema della morte attraverso un personaggio, Ivan Il'i?, che dopo una vita alquanto insignificante, a causa di un male incurabile, finisce i suoi giorni in maniera altrettanto anonima e poco gloriosa; a ispirargli questa storia fu la vicenda di un suo conoscente che morì in quegli anni più o meno nelle medesime circostanze. Con una scrittura intensa e a tratti addirittura ironica, Tolstoj scava nell'esistenza di questo funzionario che, nel tormentato corso della malattia, si rende conto di aver vissuto come non si dovrebbe, inseguendo benessere economico e prestigio sociale per poi ritrovarsi in mano, anno dopo anno, soltanto infelicità e insoddisfazione anzitutto a livello familiare.

“E il suo lavoro, e il suo regime di vita, e la sua famiglia, e quegli interessi sociali e professionali, tutto questo poteva non essere come si deve. Tentò di difendere davanti a se stesso tutto ciò. E d'improvviso avvertì tutta la fragilità di quanto stava difendendo. E da difendere non c'era nulla.”

La consapevolezza di un trapasso oramai imminente e inevitabile, che inizia a ossessionarlo giorno e notte, non fa che mettere ancor più in risalto la menzogna, l'ipocrisia, le frivolezze di chi gli sta intorno, mentre l'insulso vuoto della propria vita si trasforma di colpo in una voragine spaventosa nella quale non può evitare di precipitare.
A mio parere, una lettura sempre attuale, ricca di innumerevoli spunti di riflessione, sullo sfondo dell'estrema fragilità della nostra condizione umana e dello scorrere impietoso del tempo che ci viene concesso, prezioso bene che per lo più dilapidiamo al momento dell'abbondanza per poi rimpiangerlo e rivalutarlo quando la clessidra a nostra disposizione si avvicina al capolinea.

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siti Opinione inserita da siti    08 Agosto, 2018
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Quante verste hai percorso nella tua vita?

Quante verste hai percorso nella tua vita?
Bella domanda, vero? Non scervellatevi a trovare una risposta ora. Sarebbe del tutto inadeguata. Siete sulla montagna adesso, giusto? Vivete, più o meno soddisfatti, e certo, il lavoro potrebbe andare meglio, i rapporti con il coniuge soffrono degli alti e bassi tipici delle più classiche unioni matrimoniali, vi siete tolti qualche sfizio e tutto sommato, dai, non avete fatto mai del male a nessuno. Qualche volta nel vostro percorso di vita vi soffermate a pensare al mistero della vita, magari proprio quando essa si interseca con la sua antagonista , Signora morte. Ma è sempre la morte di un altro, per quanto vicino, per quanto essa sia sconvolgente; il binario della nostra vita scorre inesorabile e noi lo inseguiamo dopo brevi battute d’arresto. Ci proponiamo anche, chi più chi meno, rinnovamenti esistenziali, sulla base delle disgrazie altrui. Eppure continuiamo a sbagliare, a vivere di debolezze mentre la vita passa. E se si fermasse, oggi? All’improvviso, proprio oggi la vostra vita, con una piccola e insignificante deviazione, condannandovi a poco tempo residuo e a un incontro ravvicinato con la morte, allora cosa fareste?
Questo racconto lungo ci permette di sapere cosa succede a un morituro, Ivan Il’i?, ripercorrendone le principali tappe esistenziali. A ritroso dal momento della sopraggiunta notizia del suo decesso fra la cerchia di amici e di conoscenti. Una narrazione circolare che ci porta progressivamente ai suoi ultimi rantoli dopo le grida disperate, una presa diretta sulla morte sugli effetti che essa produce sulla mente ancora lucida e vigile, attenta a scansare la nemica per rendersi progressivamente conto che il baluardo difensivo non ha bisogno di armi e di torri merlate ma di un'altra visione, quella che in vita ci è sempre sfuggita.
L’incontro con la morte, la consapevolezza che si muore soli, la menzogna che alimenta il tabù della morte, il ricordo, la rivelazione finale ad affrancarci finalmente dal velo di Maya, sono i principali nuclei tematici abilmente intrecciati in questa rappresentazione dallo stile fluido, essenziale e sobrio . Da leggersi in poche ore, senza interruzione alcuna.

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Quel che resta del giorno
Stoner
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    22 Giugno, 2018
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L'ESTREMO PASSO

Lev Tolstoj, nelle sue opere, ha sempre osservato la morte con una sorta di sgomenta venerazione, quasi che, divorato da una religiosa e al tempo stesso terrena curiosità, avesse voluto con le esperienze dei suoi personaggi cercare di squarciare quel terribile velo di mistero che la circonda dall’inizio dei tempi. In “Guerra e pace”, ad esempio, la morte del vecchio conte Bezuchov, ridotta dalla fatuità, dall’ipocrisia e dall’irriverenza dei parenti a un insensato e grottesco rituale, eppure ancora in grado di rivelare un alone di tragica grandezza con il suo ambiguo alludere a qualcos’altro (“All’avvicinarsi di Pierre, il conte fissò su di lui uno di quegli sguardi che nessuno può più capire: o quello sguardo non voleva dire assolutamente niente, perché fin quando si hanno gli occhi aperti bisogna pur posarlo in qualche posto, oppure, al contrario, diceva troppe cose”), e quella di Andrej Bolchonskij, assimilata a un lento e tranquillo risveglio, a un placido viaggio verso l’ignoto, sono tra le cose più significative che Tolstoj abbia scritto. E’, tuttavia, solo con un breve racconto della tarda maturità, “La morte di Ivan Ilic”, che si ha un coraggioso e decisivo approfondimento del tema. La struttura stessa del racconto depone a favore di questa considerazione. Fin dall’inizio, infatti, sappiamo che Ivan Ilic è morto: la morte perde la sua tradizionale caratteristica di sbocco narrativo, la trama (come nelle migliori opere di Kafka) non ha più nulla da svelare, e Tolstoj può perciò concentrarsi nell’analisi fenomenologica dell’argomento che gli sta tanto a cuore.
Come l’andamento circolare, a flashback, del racconto, così anche la scelta del protagonista non è casuale. Ivan Ilic è infatti una persona comunissima, un rappresentante tipico di quella classe media che fa dei principi di piacevolezza, rispetto dell’ordine e decoro i suoi comandamenti inderogabili. Rigidamente improntata a questi valori, la vita di Ivan Ilic si è sviluppata lungo i binari prevedibili e scontati della carriera professionale, del successo in società e del matrimonio, il tutto ovviamente condiviso e approvato dall’opinione pubblica. Il tono impeccabilmente “comme il faut” dell’esistenza di Ivan Ilic si riflette anche nella sua abitazione, esemplare e indistinguibile, nella quale “c’era tutto quello che escogitano le persone di un certo ceto per assomigliare a tutte le persone di quello stesso ceto”. Se a questo si aggiungono le periodiche partite a vint con i colleghi del tribunale e un orizzonte di interessi limitato esclusivamente al lavoro e agli avanzamenti di carriera, il quadro è completo.
In questa situazione di equilibrio all’apparenza immutabile fa improvvisamente la sua apparizione la morte, sotto forma di una grave malattia sopraggiunta in seguito al più banale degli incidenti. L’irruzione del caso, che qui non ha più nulla della provvidenza divina che guidava ineffabile le sorti dell’umanità in “Guerra e pace”, irride beffardamente il tentativo dell’uomo di dare al suo destino un corso ordinato e regolare. Di colpo la vita di Ivan Ilic cambia aspetto: se prima tutto era giovialità e leggerezza, ora un sentimento di grave pena si fa strada in lui. Il pensiero della malattia, che le persone intorno a lui minimizzano con egoistica indifferenza, da quel momento non lo abbandona più, insinuandosi subdolamente in tutte le attività quotidiane, anche in quelle che prima costituivano la sua ragione di vita, e se all’inizio gli stati d’animo di Ivan Ilic oscillano tra la cupa disperazione e il sollievo dei momenti in cui crede di avvertire dentro di sé un qualche miglioramento, col passare dei giorni sono i primi a prevalere, fino al momento, sconvolgente, della presa di coscienza della irreversibilità del proprio stato.
La sensazione di dover morire si presenta a Ivan Ilic con la stessa implacabile crudeltà di una sentenza inappellabile: “All’improvviso la questione gli apparve sotto una luce completamente diversa. «Macché intestino cieco! Macché rene!… è una questione di vita e… di morte. C’era la vita, e adesso se ne sta andando e io non riesco a trattenerla. E’ così. Perché ingannare se stessi? Non è forse chiaro a tutti, eccetto che a me, che sto morendo: è solo questione di settimane, di giorni… C’era la luce e adesso c’è il buio. Ero al di qua e adesso devo passare al di là! Ma al di là, dove?»”. La morte assume istintivamente la forma dell’oscurità, delle tenebre, e, freudianamente, Ivan Ilic, balzato a sedere sul letto, cerca di accendere la luce, ma con le mani tremanti fa cadere candelabro e candela sul pavimento. La reazione di Ivan Ilic è estremamente naturale, direi quasi ovvia: egli rifiuta l’idea della morte, e a maggior ragione l’idea che a morire debba essere proprio lui. Il sillogismo che aveva studiato da giovane, “Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale”, gli era sembrato per tutta la vita profondamente giusto, ma solo perché era un sillogismo astratto, applicabile all’uomo-Caio, cioè all’uomo in generale, ma non a lui, essere particolarissimo, così diverso da tutti gli altri esseri. Da quel buon borghese che era, Ivan Ilic aveva costruito inconsciamente una fitta ragnatela di pensieri, abitudini e formalismi per nascondere a se stesso la realtà della morte, o almeno per ridurla al rango di un irrilevante incidente di percorso di fronte all’inesauribile totalità dell’esistenza, ma ora che la morte si è insinuata dentro di lui, mettendo all’opera il suo instancabile lavoro di roditore, questi schermi di protezione saltano, diventano trasparenti e l’invocazione “a me non può succedere” diventa una patetica ammissione di impotenza nei suoi confronti.
Diretta conseguenza di quel sistema di cui, prima, Ivan Ilic stesso era, come si è visto, uno scrupoloso e fedele osservante è che la morte viene tacitamente considerata dall’ambiente che lo circonda come uno scandalo da far passare il più possibile sotto silenzio, in quanto turba illegalmente l’ordine delle cose. Questa egoistica rimozione è del tutto in linea con quella concezione tolstojana della vita la quale, parlando a proposito di “Guerra e pace”, avevo detto essere il fondamento etico del romanzo: cioè che la brama vitale, l’interesse personale e la soddisfazione dei propri impulsi naturali sono preferibili alle elevate aspirazioni spirituali e al sacrificio di se stessi. Ne “La morte di Ivan Ilic”, però, questi sentimenti hanno perso quella carica positiva che l’amore disinteressato per la vita dava loro nella grande saga tolstojana e sono diventati lo squallido controcanto di individui meschini, che accolgono la morte altrui con inconfessata gioia perché tutto questo non è successo a loro, perché loro sono ancora vivi.
Ciò che più ripugna è la menzogna con cui tutti fanno finta di nascondere a se stessi e agli altri la malattia mortale di Ivan Ilic, costringendo il malato stesso a prender parte a questo gioco ipocrita. “L’orribile, tremendo atto della sua agonia era degradato da tutti quelli che lo circondavano alla stregua di qualcosa di casuale e sgradevole, persino di indecoroso”. Da ciò si spiega l’odio, rabbioso e profondo, che Ivan Ilic nutre nei confronti degli altri, i familiari in testa, colpevoli di lasciarlo disperatamente solo nel suo terribile sforzo di ribellarsi alla morte. Questa solitudine (“una solitudine che non avrebbe potuto essere più completa, in nessun altro luogo, né in fondo al mare, né sottoterra”) segna la impari sfida di Ivan Ilic con la morte. L’immagine del moribondo, sdraiato con la faccia verso la spalliera del divano, è l’espressione più perfetta ed agghiacciante di questa condizione senza vie d’uscita. Pur di salvarsi, Ivan Ilic si aggrappa a tutto ciò che, nella sua spaventosa impotenza, promette di dargli un’impossibile salvezza, dalla superstizione alla religione (persino nella confessione finale, ad esempio, egli ritrova una immotivata speranza di guarigione). Ma alla morte non c’è verso di sottrarsi: lei è sempre lì, ferma davanti a lui, occhi negli occhi, sfrontatamente spavalda e indicibilmente tormentosa.
Nella figura del protagonista Tolstoj opera uno splendido ribaltamento di ruoli. Ivan Ilic è un giudice, ma nella malattia è la morte a intentare un processo contro di lui. “«Cosa vuoi adesso? Vivere? Vivere come? Vivere come si vive in tribunale, quando l’usciere annuncia: Entra la corte!… Eccola qui la corte! Ma io non sono colpevole!» esclamò con rabbia. «E allora perché?»”. Come Josef K. nel “Processo” kafkiano, anche Ivan Ilic ripercorre a ritroso tutta la sua esistenza, tentando di trovare una risposta all’enigma della vita e della morte, magari sotto forma di un peccato che sia in grado di giustificare quel castigo. Ma nonostante che ora, agli occhi lucidi del ricordo, la vita passata gli appaia un impietoso inganno e solo nella lontana infanzia riesca a trovare qualcosa di veramente autentico e sereno, pure Ivan Ilic scaccia l’idea di non avere vissuto come doveva, in quanto egli è sicuro di aver sempre vissuto secondo le regole.
Il racconto si chiude con una potente allegoria, che richiama per intensità il famoso sogno di Andrej in “Guerra e pace”, dove il principe morente cerca con sforzi sovrumani di chiudere la porta, al di là della quale preme silenziosa la morte. Qui, invece, Ivan Ilic immagina di essere ficcato da un’invisibile potenza dentro un sacco nero, stretto e profondo; egli teme e nello stesso tempo desidera di raggiungere il fondo, ma non vi riesce, nonostante cerchi di spingere con tutte le sue forze. Questo lungo e doloroso travaglio, che richiama alla mente, con un’altra immagine freudiana, il tentativo di tornare nell’utero materno, rappresenta la lotta tra l’istinto di sopravvivenza e il potere liberatore della morte. Ad impedire questa liberazione è, più di ogni altra cosa, la menzogna, cioè l’ipocrita convinzione che la propria vita sia stata buona. Solo spogliandosi dall’inganno di una vita assurda e sbagliata (consapevolezza atroce, più dolorosa di tutte le sofferenze fisiche, perché porta con sé la coscienza che è troppo tardi per porvi rimedio), Ivan Ilic può appressarsi alla morte. Si palesa in queste pagine un fondamentale ammonimento etico: non distruggiamo ciò che ci è dato di buono alla nascita, - sembra dire Tolstoj – cerchiamo di non arrivare al punto in cui non è più possibile emendare i nostri errori; la vita è breve, non ne sprechiamo niente, ma agiamo per qualcosa che abbia un valore e un senso, per qualcosa che possa sopravviverci.
Nell’ultima ora della sua agonia, in fondo al buco nel quale Ivan Ilic si dibatte da tre giorni, si illumina all’improvviso qualcosa. All’ultimo momento, Ivan Ilic prova infatti un sentimento nuovo: il perdono. Finalmente, la paura della morte sparisce, la morte stessa sparisce. “«E’ finita!» disse qualcuno su di lui. Egli sentì quelle parole e le ripeté nel suo animo. «E’ finita la morte» disse a se stesso. «Non c’è più». Aspirò l’aria, a metà del respiro si fermò, si distese e morì”. Come si può conciliare questa consolante illuminazione finale, che libera il lettore non meno di Ivan Ilic da uno spasimo che sembrava non dovesse avere mai fine, con l’ammonimento etico espresso più sopra? Forse con la considerazione che il senso della vita sta proprio nella morte, non, si badi, nell’atto del morire, cioè nell’agonia (che Tolstoj descrive così crudamente, senza risparmiare i particolari più ripugnanti), e neppure nell’aldilà (in quanto Dio è qui completamente assente), ma in quello spazio che, come l’infanzia, è sottratto al dubbio, al rimorso e all’angoscia. L’ammonimento etico non perde per questo il suo valore, perché solo all’uomo giusto, che ha vissuto “pesantemente” la vita (come il servo Gerasimov, o il Platon Karataev di “Guerra e pace”), è concesso il diritto di morire “naturalmente”, senza quei tormenti, più morali che fisici, che assillano invece quegli uomini i quali, come il borghese Ivan Ilic, dissimulano per tutta la vita, ingannando se stessi e gli altri, il pensiero, inquietante ma necessario, della morte.

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68 Opinione inserita da 68    03 Febbraio, 2018
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Compassione e perdono: una rinascita

Una fine sorda, improvvisa, inconcepibile, quella di Ivan Il’ Ic. Di lui non resta che il ricordo, il dolore di parenti ed amici, colleghi e semplici conoscenti, ma, in fondo, quel corpo disteso inerme e raggrinzito riporta i più ad un pensiero rabbrividente e ad un sorriso sottaciuto e consolatorio per una morte che avrebbe potuto riguardarli e che alla fine aveva preso lui solo.
Compiuto il rituale di accompagnamento e fatte le condoglianze ai parenti del defunto, si ritorna immediatamente alla propria vita, dimenticando lo spiacevole evento ed incamminandosi verso un futuro differente ( per alcuni la morte di Ivan Il’ic avrebbe aperto nuovi scenari lavorativi ).
È qui, da un epilogo già scritto, che ha inizio il racconto di una vita da giudice tra le più semplici ed ordinarie e tra le più terribili, trascorsa come doveva trascorrere, in modo spensierato, piacevole e decoroso, in una quiete famigliare simile a tante altre.
Quel male improvviso, silente, inizialmente ignorato, evaso, rigettato, di giorno in giorno sempre più vivo, fino a divenire un ospite abituale.
Sguardi interrogativi da parte dei parenti e della gente in tribunale per una malattia che pare essere una scocciatura con la consapevolezza di una vita che avvelena anche quella degli altri, un veleno che penetra sempre più in tutto il suo essere.
Ed allora Ivan Il’ic comincia ad ascoltare il dolore, i medici non hanno risposte esaustive, vuole stare lì, solo, al confine con la morte, senza nessuno che lo patisca e compatisca. Sente che per i famigliari è solo un’ ombra trasfigurata, un peso, e che la moglie si augura che muoia.
Poi la presa di coscienza, una fine inevitabile, il vedersi morire vivendo in un perenne stato di disperazione mentre l’ atto della sua morte viene relegato ad uno stato di indecenza e sgradevole seccatura.
Ed allora un desiderio capovolto, quello di essere compatito, ascoltato, toccato da un disinteressato ed empatico senso di pietas, e questo è ciò che ottiene da Gerasim, servo fedele e vicino.
Nel frattempo il dolore si fa sordo, straziante, senza tregua in attesa di una morte certa che tarda a venire ed, oltre le sofferenze fisiche, subentrano indicibili sofferenze morali. Vorrebbe tornare ad una vita normale, a quella giusta misura del passato, ma, si chiede, era quella una vita? Era quello che avrebbe voluto? Era stata vera felicità?
Ed allora subentra un terribile senso di solitudine, di ingiustizia, l’ assenza di Dio, della gente, la propria impotenza.
Ma, d ‘improvviso, ecco un senso di riconciliazione e pacificazione, una mano amica da stringere ed una presa di coscienza dell’ autentico se’.
La fine pare un inizio, la paura della morte svanita, il dolore tollerabile, un animo sereno pronto ad accogliere il futuro, un sorriso conciliante dipinto sul volto.
“ La morte di Ivan Il’ ic “, uno degli ultimi scritti del grande autore russo, inserito in un filone ( insieme a “ La Sonata a Kreutzer “ ) messianico e spirituale che si discosta dai grandi romanzi del passato, è un viaggio lampo nella vita di un uomo sospeso tra l’ inevitabilità di una morte imminente ed una nuova flebile speranza.
Due i temi a contorno ma assai importanti a definirne i contenuti. La pietas, quel sentimento profondamente umano che dovrebbe accompagnare il trapasso di ogni malato terminale ed il suo legittimo desiderio di essere accudito, ascoltato e compatito, ed il perdono che conduce ad un senso di pacificazione, liberando dal dolore, abbandonato qualsiasi accanimento contro nemici inesistenti o creati ad arte, deposto un orgoglio ferito, la rabbia e la solitudine manifesta in una accettazione che riporti alla integrità e serenità di un dopo e di una fine non più tale ma sospensione di una vita e nuova luce in attesa di altro…



… “ In quello stesso istante Ivan Il’ ic sprofondò, vide la luce e gli fu rivelato che la sua vita non era stata come avrebbe dovuto, ma che la si poteva ancora correggere…, senti’ che qualcuno gli stava baciando la mano, apri’ gli occhi e guardò’ il figlio e provo’ pena per lui, con la bocca aperta ed inarrestabili lacrime che le solcavano il naso e la guancia la moglie lo guardava con una espressione disperata. Provo’ pena per lei.
…Provava pena per loro, bisognava fare in modo che non fosse loro doloroso. Liberarli e liberare se stesso da quelle sofferenze. E il dolore? Dove e’ finito il dolore? E la morte. Dov’ e’ la morte? Cercava la sua passata paura della morte e non la trovo’. Non c’ era nessuna paura perché non c’ era neppure la morte. Invece della morte c’ era la luce. Per i presenti la sua agonia durò due ore fino a che… “ E’ finita! “ disse qualcuno sopra di lui. Udì queste parole e le ripete’ nella sua anima. È finita la morte, si disse. Non c’ è più. Aspiro’, si fermò a metà respiro, distese le membra e morì “…

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Mane Opinione inserita da Mane    03 Settembre, 2017
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Glaciale

- Attenzione il testo potrebbe contenere lievi anticipazioni sulla trama -

Ivan Il’ic incarna perfettamente il bersaglio prediletto della letteratura russa, il borghese devoto al denaro e alle apparenze, attore di una vita frivola, estraneo a qualunque vocazione morale.
Eppure il protagonista di questa storia non è il gaudente giovane magistrato, ma l’altra che sta nel titolo: la morte. Annunciata fin dall’incipit, la morte si conquista man mano la scena, prendendo il posto dell’insulsa recita dell’ascesa sociale di Ivan narrata con distacco e voluta indolenza, a rendere il lettore ulteriormente partecipe del disprezzo dello scrittore per il modus vivendi del personaggio.
La morte giunge nei panni di un morbo incurabile, come una sentenza, a pegno di una vita sprecata per cui Ivan stesso nutre dei dubbi.

- Ma come mai? Perché? Non era possibile che la vita fosse così assurda, ripugnante. […] “Forse non ho vissuto come dovevo” gli venne in mente all’improvviso “Ma se ho sempre fatto tutto secondo le regole?” -

La quarta di copertina promette un capolavoro nella trattazione del tema del trapasso (certo non nuovo alla letteratura), in realtà le poche algide pagine di questo romanzo a mio avviso distano troppe miglia dalle vette raggiunte invece ne “Tristano Muore” di Antonio Tabucchi e in “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar.

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Franco Pompei Opinione inserita da Franco Pompei    26 Febbraio, 2017
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Ivan Il'ic ovvero l'uomo e la morte

“il fatto stesso della morte di un conoscente intimo suscitava in tutti coloro che venivano a saperlo, come sempre, un sentimento di gioia perché era morto lui e non loro.” (da “La morte di Ivan Il’ic”)

La difficoltà di instaurare una reale comunicazione nelle relazioni interpersonali e la solitudine di fronte alla malattia e all’approssimarsi della morte, la disperata ricerca di un sollievo da parte di chi vede avvicinarsi la fine: questo ci rappresenta Tolstoj in uno dei suoi racconti più strazianti. Ivan Il’ic è il paradigma dell’uomo comune poiché al di là della sua contestualizzazione storica e sociale (è un magistrato della Russia zarista della seconda metà del XIX secolo), possiede indubbi caratteri di universalità: come la maggior parte di noi, nel corso della sua vita ha commesso qualche azione della quale non andare particolarmente fiero ma non può essere definito una cattiva persona, anzi, sul lavoro è onesto e scrupoloso e non abusa mai dei poteri di cui è investito in ragione del suo ufficio, in famiglia è un marito gentile ed un padre affettuoso ed “in società” è sempre affabile e cordiale con tutti. Nel corso degli anni Ivan Il’ic riesce laboriosamente a costruirsi un sistema di vita quanto più possibile gradevole, “schivando” abilmente tutte quelle situazioni che possono minacciare tale gradevolezza (ad esempio per evitare le scenate della moglie, gelosa e nevrotica, trascorre sempre meno tempo in casa e si rifugia nel proprio lavoro e nella vita sociale esterna). Questo modus vivendi gradevole e “decoroso” che Ivan Il’ic è riuscito a conquistarsi, però, ad un certo punto viene sconvolto da una banale quanto tragica fatalità: un piccolo trauma dovuto ad una caduta ed apparentemente privo di gravi conseguenze è l’evento scatenante di una lunga e misteriosa patologia che lentamente ed inesorabilmente conduce il protagonista alla morte. Per una sorta di terribile legge del contrappasso, da questo momento in poi saranno tutti quelli che gli stanno intorno a “schivare” Ivan Il’ic, ossia, a fingere di non riconoscere la gravità della sua malattia ed in effetti questa finzione altro non è se non un’inconscia “strategia difensiva” dall’orrore della malattia, del tutto analoga a quella per tanto tempo adoperata dallo stesso Ivan Il’ic per sottrarsi alla sgradevolezza della sua vita familiare. Per Ivan Il’ic inizia un lungo calvario nel corso del quale ad un’iniziale alternanza di momenti di speranza e di terrore fa seguito una sempre maggiore consapevolezza dell’avvicinarsi della fine. Terribilmente angoscianti sono le pagine nelle quali Tolstoj descrive l’incomunicabilità che spesso ancora oggi, purtroppo, caratterizza la relazione fra medico e paziente: ad Ivan Il’ic viene quasi rimproverato, con sussiego dottorale, di voler conoscere la reale gravità della sua malattia, di voler sapere se c’è o meno speranza di guarigione. Con il progredire della malattia, alla sofferenza fisica ed alla paura si aggiunge per Ivan il’ic un altro tormento: quello derivante dalla rabbia per “la menzogna” che lo vuole “malato ma non moribondo”, una menzogna alla quale egli stesso viene costretto a partecipare. Sono pagine toccanti nelle quali l’autore descrive magistralmente il supplizio della malattia e la sua drammatica capacità di portare alla luce quei bisogni che, in condizioni di normalità, le convenzioni etiche e sociali impongono di tenere nascosti, prima ancora che agli altri, a sé stessi (“in certi momenti, dopo lunghe ore di sofferenza, anche se si sarebbe vergognato a confessarlo, aveva soprattutto voglia che qualcuno avesse pietà di lui, come di un bambino malato. Avrebbe voluto che lo carezzassero, che lo baciassero, che lo compiangessero, così come si accarezzano e si consolano i bambini”). Gli unici momenti di conforto per il protagonista, in questo oceano di solitudine e disperazione, sono quelli trascorsi in compagnia del servo Gerasim, il solo a non “mentire” e a dimostrare per il padrone un’empatia tradotta in gesti semplici, ma così importanti per Ivan Il’ic, come il dargli sollievo dal dolore tenendogli sollevate le gambe: in questo Tolstoj anticipa una tematica, quella della contrapposizione fra l’ipocrisia “borghese” e la spontaneità “popolana”, che verrà ripresa da diversi autori europei del secolo successivo (si pensi ad esempio a Pasolini). Giunto allo stremo delle proprie forze Ivan Il’ic costringe se stesso ad un’impietosa autoanalisi che termina con un'amara constatazione: tutti i momenti della sua vita che prima gli erano sembrati i migliori, i più piacevoli, adesso gli appaiono “qualcosa di insignificante, spesso di ripugnante”; si salvano solo l’infanzia e la primissima giovinezza nelle quali il protagonista intravede qualcosa “che sarebbe stato pronto a rivivere, se avesse potuto tornare indietro. Ma la persona che aveva provato quei momenti piacevoli non c’era più: sembrava il ricordo di qualcun altro”. A questa constatazione si accompagna infine, nella visione religiosa maturata da Tolstoj negli ultimi anni della sua produzione letteraria, un nuovo senso di pietà del protagonista ormai non più solo per sé stesso ma anche per tutti quelli che gli stanno intorno ed una improvvisa e nuova visione della morte quale definitiva liberazione di sé stesso e degli altri dalla sofferenza.

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ferrucciodemagistris Opinione inserita da ferrucciodemagistris    19 Ottobre, 2015
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L'ineluttabile appuntamento

La figura di Lev Tolstoj spicca come pilastro fondamentale per la letteratura russa dell’ottocento; a similitudine dei suoi coevi Dostoevskij, Gogol, Turgenev, i suoi romanzi scavano nel profondo dell’animo umano mettendo in luce miserie, fardelli d’ingiustizia sociale, crisi interiori e vane crudeltà cui l’uomo vissuto in quel periodo è stato soggetto e oggetto dell’allora regime zarista. Le opere più note che ben conosciamo sono il monumentale “Guerra e pace” e il drammatico “Anna Karenina”.

Il presente romanzo appare riduttivo qualora paragonato alle opere già citate, ma dopo averlo letto con attenzione, mi rendo conto dell’enorme profondità di pensiero che raccoglie in meno di un centinaio di pagine. E’ l’appuntamento ineluttabile che tutti noi, alla fine, avremo con la morte; quest’ultima viene spesso rimossa dai nostri pensieri, in particolare quando si è giovani e si progetta un futuro di sfide e realizzazioni, ma basta un qualsivoglia episodio o accadimento per ricordarci che Ella è sempre presente, ci segue come un’ombra e aspetta il momento, a noi sconosciuto, per entrare in azione. Nulla nel nostro immanente ha una certezza assoluta quale questo infausto incontro.

Il protagonista del racconto è un giovane magistrato, Ivan Ilijc, che organizza la propria vita impegnandosi per la realizzazione della sua carriera e avere, di conseguenza, un elevato rango sociale che possa permettergli certi lussi e comodità non comuni alla stragrande maggioranza dei suoi simili viventi nello stesso periodo temporale e nel contesto politico-sociale-economico della Russia di fine ottocento. Tutto sembra procedere secondo una schedula ben programmata, ma una banale caduta da una scaletta cambia drasticamente gli ultimi anni di vita del Nostro.

Ecco, allora, immaginare e aspettare il momento, che arriverà sicuramente a breve, del famigerato appuntamento e non esiste nulla che possa evitarne il finale; la malattia improvvisa non dà scampo nonostante fior di luminari si appropinquino al capezzale dell’agonizzante che sta per precederli nell’oscuro viaggio.

Molto marcata la dualità vita-morte e con essa il senso di tutto ciò che ci appare da quando siamo in grado di ragionare fino all’ultimo barlume di lucidità mentale propedeutico al mistero che da sempre governa il segmento vitale di tutti gli esseri viventi. Come una serie di fotogrammi osserviamo momenti di tutta la nostra esistenza e ci accorgiamo di non capirne il significato e aneliamo di oltrepassare la metaforica porta con la brama di conoscere il perché dell’evoluzione umana e universale.

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I grandi maestri della letteratura russa dell'ottocento
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*vale* Opinione inserita da *vale*    17 Aprile, 2015
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Riflessione sulla morte

"La storia della vita di Ivan Il'ic era la più semplice, la più comune e la più terribile". Tolstoj in questo racconto lungo si fa di nuovo portavoce di una realtà ordinaria, e proprio per questo speciale. Come solo un vero artista riesce a fare utilizza quella che alcuni critici chiamano la tecnica dello straniamento, per cui l'opera letteraria rende strano ed originale le cose comuni, trasporta in una diversa sfera percettiva, in un'ottica nuova ciò che è abituale ed ordinario... fa ascoltare le onde del mare anche a chi ormai non le sente più per abitudine.
Affrontando un tema caro alla letteratura di tutti i tempi e di tutte le culture l'autore si cimenta nella descrizione del viaggio verso la morte di un giovane burocrate russo ottocentesco, e lo fa assumendo il punto di vista del protagonista. Tolstoj si cala perfettamente nei panni di un Ivan che scopre di essere malato e sente la sua vita avvicinarsi lentamente e inesorabilmente alla fine. Una scelta audace, visto che nessuno può raccontare della sua morte, e portata avanti in modo brillante. Cambia la sua percezione delle cose, il modo di approcciarsi e di pensare alla vita, il suo rapporto con gli altri. Al lettore pare di vederselo davanti agli occhi, di sedersi sul suo letto, di fermarsi sull'uscio della porta e vederlo soffrire e di sentirsi sfiorare la pelle dalle stesse sensazioni del moribondo.
Nel corso del racconto si fa strada nel protagonista la consapevolezza di aver perso una vita intera ad inseguire cose che soltanto ora si rivelano in tutta la loro futilità:
"E quel lavoro morto, le preoccupazioni finanziarie, un anno, due, dieci, venti, sempre uguale. E più si andava avanti, più tutto era morto. Come se fosse disceso lentamente da una montagna, immaginandosi di salirà. Così era stato. Nell'opinione generale saliva, mentre la vita, di pari passo, se ne andava via da lui... e ora era finita, doveva morire!"
Lo stile di Tolstoj, frammentario, ripetitivo, riflette pienamente l'angoscia e la tristezza di un uomo che ormai si è lasciato andare all'ineluttabilità del destino a lui sempre più vicino, e che si guarda indietro, comprendendo troppo tardi il vero significato della vita, quali sono le cose che realmente contano e per cui vale la pena spendere le proprie energie. Aveva per anni evitato la moglie e la famiglia dedicandosi al lavoro, ed ora si ritrovava solo di fronte a qualcosa che da solo non si può affrontare.
Altro tema portante del racconto è proprio l'indifferenza e l'egoismo delle persone che avrebbero dovuto essere a lui vicino. La situazione iniziale è totalmente estranea alla morte; i colleghi del tribunale sono impegnati in una tipica discussione su questioni lavorative quando arriva improvvisa la notizia della scomparsa di Ivan. Ciò che ci sembra più assurdo è che i primissimi pensieri che la seguono riguardano le implicazioni che tale avveniventimento comporta per quanto riguarda il posto di lavoro: promozioni, aumenti di stipendio... "tutti gli volevano bene", eppure l'atteggiamento generale è quello di chi è preso da un sentimento di soddisfazione dettato dall'inevitabile quanto crudele pensiero che aleggia nella mente dei "sopravvissuti": "è morto lui e non io"; come se la morte dell'altro garantisse la vita di chi rimane. Sulla stessa scia si collocano le reazioni della moglie, sollevata più che triste per la morte del marito: "cosa non ho sopportato!", dice.
Poche pagine che ci invitano alla riflessione, un'esperienza di lettura breve, ma davvero ricca di spunti per fermarsi un attimo a pensare sulla natura dell'uomo e sull'enigmatico, da sempre, rapporto tra vita e morte. Assolutamente da leggere almeno una volta nella vita!

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pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    07 Aprile, 2015
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Tradito dalla vita

Il giudice istruttore Ivan Il'i? Golovin aveva tutte le caratteristiche dell’uomo di successo, brillante, vincente, di quelli che scivolano con disinvolta leggerezza lungo il corso vita, azzeccando tutte le mosse, senza mai affliggersi con falsi problemi e apparentemente senza mai incontrare seri ostacoli o accadimenti in grado di far perdere loro quella forza sobria e tranquilla che li caratterizza e che li rende così influenti, rispettati, temuti, invidiati.
Ci sa fare fin da giovane Ivan Il’ic, compagnone con gli amici, attento alle relazioni con i superiori, gentile e cortese con i subalterni,capace di commettere azioni che “gli avevano fatto provare ribrezzo di sé mentre le commetteva”, senza tuttavia provarne vergogna o rimorso troppo a lungo. Insomma un uomo fatto per il potere e il successo nella vita, nel lavoro, nella società. Persino con le carte, la sua spensieratezza, la sua finezza di ingegno e la capacità di controllare le emozioni lo portavano ad essere un vincente naturale.
E le passioni, i sentimenti di Ivan Il’ic erano moderati e temperati come si conviene all’uomo votato al prestigio sociale e al massimo decoro. (“Decoro” è la parola forse più ripetuta nella prima parte del racconto, con una sottolineatura via via più maliziosa e polemica). Ivan Il’ic non esita ad abbandonare gli amici appena si apre una buona opportunità di carriera e a sposarsi non per amore, non per convenienza, ma perché tutto sommato era arrivato il momento giusto, la fanciulla era piacente e innamorata e il partito non era così male: insomma, con leggerezza, come con tutte le altre mosse, e con la convinzione che anch’essa sarebbe stata la scelta giusta.
Ma quella vita nella quale Ivan Il’ic scivolava così leggero e spensierato, poco alla volta gli costruì intorno alcune trappole mortali. La prima trappola che riuscì a insidiare il “decoro” della sua vita fu il matrimonio. Scenate, crisi di gelosia, insulti: la materialità, la volgarità, la concretezza della vita iniziava a farsi varco e a incidersi per la prima volta nella sua carne. Ivan Il’ic trovò rapidamente la via per recuperare, se non la serenità, almeno un’allegra piacevolezza di vivere, tuffandosi nel lavoro e prendendo quel po’ di buono che gli offriva la vita domestica, scartando ed aggirando abilmente problemi, crisi e borbottamenti.
La seconda trappola gli fu preparata dal rango sociale conquistato senza grande fatica, per semplice inclinazione e talento naturale: rango che imponeva un tenore di vita dispendioso, difficile da mantenere a lungo senza progredire ulteriormente nella carriera, nei guadagni, nel potere. Imparò così che la scalata verso il successo non ha mai una fine, non ci si può mai sentire appagati, mai sazi, mai distratti.
La terza trappola fatale Ivan Il’ic la trovò sul posto di lavoro, dove falsi amici, colleghi e rivali lo “fregarono” sottraendogli un posto a cui egli aveva diritto. Episodio che per la prima volta gi fece conoscere il sapore dell’ingiustizia, della sconfitta, del tradimento.
Furono questi i colpi mortali che atterrarono Ivan Il’ic, portandolo all’epilogo svelato fin dal titolo del racconto? Assolutamente no. Un vincente che si rispetti deve essere anche fortunato e infatti un inaspettato colpo di fortuna capovolge la situazione e riporta il nostro eroe sugli allori.
Fu proprio in questo momento di esaltazione più violenta ed autentica, quella del riscatto dopo la sconfitta, quella che ti illude di essere invincibile e immortale, che la vita riservò a Ivan Il’ic la sua vera trappola mortale, la sua inspiegabile, perfida e indecente carognata.
All’apogeo del suo successo, caduto e istantaneamente risollevato (metaforicamente e letteralmente, come scoprirà il lettore) Ivan Il’ic iniziò la sue veloce corsa verso la malattia, il disfacimento fisico, la morte. Con uno spietato realismo che a tratti ricorda Emile Zola, Tolstoj descrive l’agonia fisica e psicologica di un ex vincente, l’uomo che sembrava avere tutto e che si accorge di non avere mai avuto niente, l’uomo che non doveva morire mai e che si accorge di non avere mai autenticamente vissuto.
Tutta la seconda parte del racconto (una settantina di pagine in totale) è la descrizione minuziosa della caducità e della consapevolezza, del primo vero percorso di conoscenza compiuto da Ivan Il’ic, che per la prima volta si lascia sopraffare dalle emozioni negative, dalla rabbia, dalla delusione, dallo sconforto, dalla paura e tuttavia scopre la vacuità delle apparenze, la fitta trama di ipocrisie e di inganni di cui è intessuta la vita sociale, la rapacità dell’animo umano, e infine, cosa inaudita prima della malattia, la debolezza, la solitudine, la necessità di tutti gli esseri umani di essere veramente amati, capiti, aiutati, coccolati.
Tra tutte le persone che circondano l’Ivan Il’ic malato e poi morente ce n’è solo una in grado di vedere senza fingere, di capire, di donargli gesti di autentico e concreto conforto: è il servo Gerasim, addetto alle mansioni più umili e più ripugnanti. Familiari, amici, dottori, colleghi, parenti lo vedono soltanto come un “problema”, un fastidio di fronte al quale recitare una commedia che proseguirà anche dopo la sua morte.
Mentre tutta la prima parte del racconto, quella dell’ascesa e della leggerezza è costantemente dominata dall’ideale del “decoro”, la seconda parte è intensa, brutale, quasi oscena nel vivisezionare le emozioni e dominata dall’incredulità e da una domanda a cui si è certi di non poter dare una risposta: perché? Perché succede questo? Che senso ha la vita, perché si muore, che significato ha il dolore?
Io sono la mia morte, quando finisce la vita, finisce la morte. L’unico istante di vera vita di Ivan Il’ic è l’istante in cui incontra la morte?

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Tolstoj pubblicò questo racconto nel 1886, ma ci stava già lavorando da tre anni, quelli che coincisero con lo strappo con la società, la famiglia, le convenzioni sociali. Studia sistematicamente i Vangeli, si avvicina alle dottrine che predicano la comunione dei beni, il rifiuto dell’autorità politica e religiosa, la non violenza. Si rifiuta di vestire all’occidentale, frequenta le persone più umili,visita i luoghi più disagiati, vede che il suo prestigio di intellettuale può essere utile alla propaganda di nuovi ideali di vita, di solidarietà con i più poveri, di cessione delle terre a chi le lavora.
La morte di Ivan Il’ic è dunque opera scritta in un periodo che si può definire di impegno “militante” per Tolstoj, un periodo in cui l’intento artistico era subordinato ai suoi ideali di vita. La tensione morale che era già largamente presente nei grandi romanzi come Guerra e Pace e Anna Karenina, prende decisamente il sopravvento sulla creazione artistica. E dove c’era ancora un po’ di indulgenza e comprensione (anche per i generali inetti che si pavoneggiano e mandano a morire le truppe, anche per il nemico Napoleone Bonaparte, anche per la sventurata Anna Karenina) rimane solo la denuncia impietosa, la disperata ricerca di senso, la spiritualità spogliata di qualsiasi orpello mondano.
Indubbiamente un capolavoro, ma personalmente preferisco il Tolstoj dei decenni precedenti, quello che non giudicava ancora così severamente il mondo, quello dei grandi affreschi storici e sociali, quello in cui l’artista prevaleva sul vate austero e adamantino.
Non me ne vogliano i dotti e gli integerrimi
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    24 Agosto, 2014
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Invece della morte c’era la luce

Consapevole del fatto che la sua vita è giunta al termine a causa di una misteriosa e indiagnosticabile malattia, il quarantacinquenne Ivan Il’ic Golovin, consigliere di Corte d’appello presso il palazzo di giustizia di Pietroburgo, si trova a dover fare un triste bilancio della sua esistenza. Un’ottima carriera lavorativa, una vita sociale soddisfacente, una famiglia agiata e serena sono gli invidiabili risultati raggiunti dal nostro eroe, rappresentano tutto ciò che rientra nei canoni ordinari della gente della sua cerchia. Ma attenersi agli standard dettati dall’alta società non significa necessariamente essere appagati e felici. Infatti Ivan Il’ic, man mano che si avvicina l’ora della sua dipartita, si rende sempre più conto di quanto vuota sia stata la sua esistenza, di quanta falsità e ipocrisia ci sia dietro le convenzioni sociali, capisce di aver sprecato i suoi giorni nel perseguire obiettivi dettati dagli altri, nel vivere una vita che non è mai stata sua. Torturato da questi pensieri, straziato dal male che lo consuma giorno dopo giorno, abbandonato da parenti ed amici capaci solo di dimostrare una menzognera pietà, il povero protagonista si ritroverà costretto a condurre una spietata e solitaria battaglia contro il pensiero fisso della morte. Una morte che continua a balenargli davanti, che lo rode sempre alla stessa maniera, che non si può far finta di non vedere: “…tornava nel suo studio, si coricava e di nuovo rimaneva solo con lei. Faccia a faccia con lei. E con lei non c’era niente da fare: solo guardarla e rabbrividire…”. In questo piccolo capolavoro Tolstoj combina l’eccellenza del suo stile con la sua spiccata capacità di raccontare i sentimenti umani, mettendo in risalto i difetti di una società che, allora come oggi, tende a sottomettere le aspirazioni e i sogni degli individui in nome di consolidati meccanismi conformisti, una società composta da individui che davanti alla morte di un uomo pensano soltanto alla possibilità di sostituirlo sul posto di lavoro o a quanti soldi si possano spillare all’erario per questa dipartita. Al suo funerale Ivan si trova circondato da ipocrisia e menzogne così come lo era stato in vita, si ritrova solo allo stesso modo di quando conduceva la sua lotta senza speranza con un nemico invincibile, ma al momento di esalare l’ultimo respiro capisce una cosa che soltanto in punto di morte si può comprendere: “…la morte? Dov’è? Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò. Dov’era? Ma quale morte? Non c’era nessuna paura, perché non c’era neanche la morte. Invece della morte c’era la luce…”.

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Cristina72 Opinione inserita da Cristina72    14 Luglio, 2014
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La fine di una vita

Ivan Il'ic è un giudice istruttore intelligente e perbene, che rispetta le regole, ama mescolarsi con gli ambienti altolocati e ci tiene a vivere “in modo piacevole e decoroso”.
Lo conosciamo già cadavere, circondato da colleghi compunti, accomunati da un sentimento inconfessato di gioia: “Accidenti, è morto; io no, invece”.
E’ palpabile e quasi comico il disagio dei vivi di fronte ad una situazione tragica da cui cercano di tenere le debite distanze, ma sono soprattutto le parole della vedova a darci la misura della solitudine disperata di un uomo moribondo: “Ha gridato per tre giorni interi, giorno e notte, senza smettere un momento. Era una cosa insopportabile”.
L’ombra sinistra della morte continua ad aleggiare anche nei successivi capitoli, almeno nella percezione del lettore che sa che il giovane vivace e di belle speranze Ivan Il'ic un giorno giacerà rigido, con il viso giallo e cereo.
La sua esistenza per vent’anni non subisce particolari scossoni: un lavoro di responsabilità svolto nel migliore dei modi, una moglie più o meno amata, due figli.
E poco importa se col passare del tempo la vita coniugale si fa insostenibile: ci sono sempre le soddisfazioni professionali e soprattutto le gioie certe di una partita a “vint” con gli amici.
La Morte lo fa cadere da una scala mentre sistema il drappeggio di una tenda (era tanto orgoglioso dell'arredamento di casa...), e anche se non si può razionalmente affermare che sia andata così, Ivan Il'ic è certo che quel sordo dolore al fianco sia iniziato proprio da quella caduta.
E' l'inizio della fine, e da questo punto in poi le pagine si fanno dolorose, di un'acutezza psicologica e di un realismo sorprendenti.
E' un calvario (“Perché, perché mi tormenti così orribilmente?”), un quadro a tinte fosche tratteggiato con la lucida descrizione dei tormenti fisici e morali di un malato incurabile.
La causa della malattia sembra alla fine concentrarsi su una frase formulata nell'acme della sofferenza, assunto inaccettabile per chi, come lui, si è sempre vantato di vivere secondo le regole:
“E' stato tutto sbagliato”.
Pochi scrittori sono capaci di passare dalla commedia, alla farsa, alla tragedia senza sbavature, e Tolstoj in questo piccolo capolavoro ci riesce pienamente.
Graffia ed emoziona con stile asciutto, attento a spiegare e ribadire i concetti più importanti, raccontando non tanto la morte di un uomo quanto la fine di una vita:
“Si può, si può fare qualcosa di giusto. Ma che cosa?”.

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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    28 Settembre, 2013
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Morte e redenzione

Con “La sonata a Kreutzer”, è il romanzo breve più noto di Tolstoj, denso di connotazioni morali. Ivan Iljic muore a seguito di una grave malattia; accanto al feretro si muovono indaffarati parenti in gramaglie, amici tristi e pensosi, colleghi di lavoro con la mente altrove . Ma chi è veramente Ivan Iljic, come si è svolta la sua vita ? Nulla di misterioso o di spettacolare : è la vita di un benestante, di un uomo come si deve, fondamentalmente onesto, sposato con figli, una vita laboriosa con un ottimo impiego di procuratore. La malattia viene improvvisamente a turbare la sua tranquillità , mettendo poco a poco in crisi tutto un universo di riconosciuto perbenismo. Di fronte all’incalzare della grave (e misteriosa) malattia, malattia che nonostante l’intervento di famosi luminari del tempo pare non lasci adito a speranze, Ivan Iljic ripercorre a ritroso la sua vita, scoprendo giorno dopo giorno, nel sostanziale silenzio degli affetti più cari, le meschinità che l’hanno pervasa e le falsità con le quali è stato costretto a convivere. Egli non si dà per vinto, lotta tenacemente contro la malattia che lo debilita, ed in questa lotta scopre quasi meravigliandosene i veri valori della vita, valori che si richiamano alla sincerità nei rapporti umani ed alla solidarietà. Ivan Iljic muore, ma è sereno , avendo riscoperto la vita proprio nell’atto dell’estremo congedo. “ E la morte, dov’è la morte?” sussurra alla fine Ivan Iljc cercando la solita paura della morte, che invece era improvvisamente scomparsa. Scrive Tolstoj : “… invece della morte c’era la luce..” Non era finita la vita, come dicevano i presenti, ma era finita la morte, essa non c’era più, come si disse Ivan Iljic prima di esalare l’ultimo respiro.
Le ultime righe del romanzo, brevemente sintetizzate, contengono un altissimo messaggio morale, un messaggio di speranza : sono la sintesi del grande insegnamento morale che pervade il romanzo, e che lo pongono tra le opere più ispirate del grande romanziere russo.

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La letteratura russa dell'Ottocento
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Ashuan Opinione inserita da Ashuan    02 Settembre, 2013
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Vita e morte

La morte di Ivan Il'ic è un'opera di Tolstoj che, lasciato ormai da parte lo stile magniloquente di Guerra e pace e di Anna Karenina, nonché la loro prolissità, si dedica ad un racconto lungo (eccessivo definirlo romanzo) di spessore fisico esiguo ma di spessore morale notevole.
La morte di Ivan è il pretesto per una riflessione sulla morte, sull'ipocrisia umana di fronte ad essa, ma soprattutto sulla vita; Tolstoj infatti trattando di morte vuole insegnare qualcosa sulla vita, e Ivan è un esempio di come si può buttare via una vita, dedicandola solo alla mondanità e all'esteriorità.
Solo in punto di morte Ivan comprende ciò che ha veramente valore, e capisce che nulla di ciò che ha costruito è autentico, è sincero, e che le persone intorno a lui sono anch'esse false, disinteressate.

Tutti gli uomini cercano di differire il loro incontro con la morte, e non se ne curano, cercando di distogliere il pensiero da essa.
Così quando infine la morte giunge li coglie impreparati, illanguiditi e spaventati dalla prospettiva di non aver lasciato nulla di buono dietro di loro.

Ivan siamo tutti noi e attraverso la lettura della sua morte Tolstoj spera che possiamo redimerci in tempo e renderci conto della vacuità della mondanità e della centralità di virtù e amore nella vita di tutti.

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Mendax Opinione inserita da Mendax    15 Agosto, 2013
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Una vita mediocre

Un necrologio: ne si trovano a centinaia fra le pagine di ogni giornale, ogni singolo giorno.
Se ci pensiamo, è abbastanza triste riassumere la vita, il ricordo, e le emozioni di una persona in due righe di parole su un giornale, mischiate ad altri, a sconosciuti.
Ecco, Tolstoj ci fa rivivere la vita "piacevole e decorosa" (ma pur sempre, inevitabilmente, mediocre) di un giudice da tutti stimato ma da sè stesso un po' svilito.

Ottima l'idea di riservarne un racconto breve, e alcuni passaggi sono a dir poco poetici.

In fondo, cos'è la morte se non ciò che ci unisce tutti e ci aliena da noi stessi?

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Pia Sgarbossa Opinione inserita da Pia Sgarbossa    16 Luglio, 2013
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Una sola certezza : MORIREMO.

Tu lo sai che morirai...io pure.
Ebbene si, io e tutti voi abbiamo una sola certezza che ci accomuna: la morte!
Ma non sappiamo quando, come e dove avverrà.
In questo piccolo libro, Tolstoj affronta appunto il tema della morte e lo fa raccontandoci la storia di un brillante magistrato.
Una vita come tante altre...che potrebbe assomigliare a quella condotta da molti di noi.
Un'infanzia felice, un percorso di studi regolare, un matrimonio ( perchè così si fa)...un lavoro che diventa poco a poco tanto importante...troppo! In esso Ivan, il protagonista, concentra ogni interesse e il lavoro diventa il centro della sua esistenza...e lui ne viene inghiottito completamente.
Ma un incidente gli cambia la vita, proprio quando è quasi arrivato ad avere quello che ha rincorso per anni.
Un semplice dolore all'inizio ; la malattia che pian piano si insinua nella sua vita...e ineluttabile la morte avanza.
Ho ascoltato con tutto il mio interesse e la mia totale partecipazione il percorso che il protagonista vive nella sua malattia.
Con inevitabili riflessioni e giusti ripensamenti , egli analizza la propria vita .
Con occhi diversi vede i suoi cari e tutto ciò che lo circonda assume un significato diverso...
Rivede i rapporti creati nella sua vita e vi coglie una parvenza di amicizia...che nulla ha a che vedere con l'amicizia autentica...Ha dedicato tutta una vita ad inseguire un decoro sociale, che ora vacilla...sembra non avere più senso...
Devo dire in sincerità che mentre leggevo l'attenta analisi dei sentimenti del protagonista e della loro evoluzione , avrei desiderato tantissimo poter sentire la versione delle persone a lui care, che il protagonista ci presenta con delle caratteristiche e delle peculiarità...che mi hanno portato a tante riflessioni...e lasciata perplessa.
Ho trovato di una profondità incredibile l'ultimo fase della malattia dove finalmente una nuova e giusta consapevolezza porta finalmente la pace...pone fine ad un tormento che pareva non finire mai.
Ma cos' è la morte?
Io nel mio piccolo la vedo così:
"La morte è una nuova dimensione di vita, dove le anime affini possono ritrovarsi...dove l'aspetto e la psiche diventano vane e non contano più a nulla...per lasciare vivere in libertà finalmente solo la nostra anima...".
Vi auguro una buona lettura e delle importanti e intime riflessioni con questo libricino che a mio avviso è ...
un gioiellino...un capolavoro da non perdere!
Pia

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A chi vuole fermarsi un po'... e riflettere sul significato della morte.
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