La morte a Venezia La morte a Venezia

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siti Opinione inserita da siti    17 Novembre, 2022
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Il lusso della vita

All’apice dell’esistenza, l’artista Gustav Aschenbach, tormentato dall’inquietudine che agita e accompagna, animandola, la sua produzione letteraria e da essa ormai logorato, in una sera di un non ben definito 19.., fa un incontro casuale che lo solletica a intraprendere un viaggio. Ragione e autodisciplina e una continua lotta contro il tempo, che tiranno gli leva i giorni e lo assedia nella paura di non avere il tempo necessario per poter esprimere tutta la sua arte, lo hanno da tempo relegato nella bella città in cui vive. Una tentazione che lo agita e che decide di assecondare permetterà ai lacci che lo imbrigliano di allentarsi, minando la sua stessa identità che ha tentato disperatamente, per tutta la sua esistenza, di far coincidere con la sua essenza di artista.

“La morte a Venezia” ha come tema principale quindi la rappresentazione della tensione che accompagna l’eletto, il destinato a compiere grandi opere con la sua arte, l’ansia di colui che investe su questo dono con solerte dedizione quotidiana, fin da quando, giovanissimo, con le sue prime pubblicazioni, l’ha tradita. Egli infatti l’ha messa in discussione perché essa è animata da una tensione perpetua al sapere e si fa così veicolo di atrofia, sgomento e profanazione della volontà annullando passione e sentimento, ma poi lo stesso artista si piega infine al sacrificio della sua anima. Un sacrificio che è però animato dall’intuizione della perfetta coincidenza che deve esserci fra ciò che scrive e il sentire prevalente nel suo tempo, affinché alla creazione si accompagni la fama: si vota perciò alla rappresentazione del più stringente moralismo e ne diventa il simbolo, incatenandosi per sempre, sacrificando ogni pulsione.

Il viaggio verso l’Istria e il suo approdo nella meta finale e definitiva di Venezia, meta senza ritorno o tappa di un viaggio in un’altra dimensione, diventa dunque la metafora, come nella più grande letteratura, di un percorso di redenzione. Venezia, laguna immobile e mefistofelica, ammorbata dal colera, con una propaggine gaudente nel Lido, diventa lo scenario ideale per far risaltare l’aspetto dionisiaco che si risveglia lentamente in lui, dopo lungo torpore, e che accompagna, sotterraneo, ogni manifestazione vitale perché ne è una componente necessaria.


Il suo calarsi nella vita, tra la gente, con fare altezzoso e distinto, è accompagnato da una promiscuità umana che gli fa ribrezzo: il vecchio finto-giovane che si accompagna, lascivo, ad un gruppo di ragazzi, il gondoliere truffaldino e poi in quella sorta di “non- luogo” che è l’ Hotel Excelsior l’apparire netto di una famiglia, tra i suoi componenti un ragazzo bellissimo: un adone. Lo spirito si eccita, la tensione emotiva è tutta diretta verso il giovane che già il giorno dopo è paragonato a un feace nel suo tardivo risveglio, prima delle numerosissime attribuzioni mitologiche a cui lo sottoporrà l’ormai delirante Aschenbach: sarà infatti Giacinto nel gioco della palla, poi Narciso nel momento topico del sorriso rivoltogli, e ancora Ermes in quello finale dell’accompagnamento alla morte. Il tutto sfocerà in un’immersione tra la gente con la consapevolezza del potere venefico esercitato dal contatto umano in caso di malattia infettiva, un modo effettivo di contaminarsi e annullarsi.

Leggere Mann è sempre edificante, trionfo dello stile, maestria e padronanza assoluta, spero sia stato più libero delle sue creature letterarie.

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    29 Agosto, 2019
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cosa si diramerà dalle nebbie della Laguna?

Dopo venti anni torno a venezia, solo, e vago per le calli e i canali. E' il tramonto e stranamente non ho nessuno intorno. Mi siedo sotto i portici a San Marco e osservo poco distanti le gondole e i colori del mare al crepuscolo. E come per miracolo ho davanti il capolavoro di Mann.
Forse la solitudine del protagonista si è trasmessa in me che vagavo senza meta e compagnia per questa magica città. o forse il libro ha una potenza narrativa che si trasmette al'improvviso nel lettore quando poi si trova per i luoghi in cui si dirama la vicenda.
La trama del racconto è ambigua e anche delicata. Un po come la "Lolita" di Nabukov, c'è sempre il rischio di suscitare le ire altrui quando si toccano certi argomenti.
Il protagonista, minato nel corpo e nella mente decide di regalarsi un inaspettato momento di gioia e bellezza.
Oramai quando l'uomo non ha più nulla da perdere o chiedere alla vita, si lascia andare a desideri magari repressi da sempre, a follie impensabili.
L'autore riesce, in maniera sublime, a far collimare perfettamente l'evolversi della vicenda e i suoi protagonisti, con l'aria pestilenziale e allucinata della Venezia di un epoca ormai remota.
Mann riesce a far convergere la bellezza dei luoghi con la bellezza dei personaggi.
Egli però ci indica anche l'altra faccia della medaglia. E cioè che dove c'è beltà si annida anche il germe della distruzione, del decadimento.
All'amore per un qualcosa di irraggiungibile, corrisponde sofferenza, follia, morte.
Ma questo cammino verso la distruzione, viene interpretato anche come un qualcosa che può portare godimento e in alcuni frangenti estasi.
E' un piccolo capolavoro, che si legge facilmente e ancora più facilmente magari lo si ritrova, magicamente, mentre si cammina tra i colori tremolanti e unici delle calli veneziane.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    24 Febbraio, 2019
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Bellezza e decadenza

"La morte a Venezia" è un'opera particolare che anche a distanza di giorni, avendo rimuginato su quello che ho letto, non riesco a dire se ho apprezzato o no. L'unica cosa certa è che non è stata indimenticabile, almeno per quanto mi riguarda.
Sicuramente al centro di questa vicenda ci sono la psiche e i pensieri del nostro protagonista, scrittore famoso che stato quasi fatto oggetto di idolatria e che con le sue idee si è fatto guida di diverse correnti di pensiero anche contrastanti tra loro, nel corso del tempo. La cosa ancor più certa è che quest'uomo è anche simbolo di integrità, per quanto riguarda certi valori morali e sociali; un'integrità che nel corso di queste poche pagine vedremo sgretolarsi fino a diventar nulla.
La molla che fa scattare il tutto è un giovanissimo polacco, Tadzio. Il nostro protagonista rimane folgorato dalla bellezza di questo ragazzino; una bellezza che sembra degna di essere decantata dalle muse e che per come appare agli occhi dello scrittore sembra quasi l'incarnazione del protagonista di molti dei Sonetti di Shakespeare. Curiosa coincidenza, che mi sia ritrovato a leggere questi ultimi proprio in seguito a questo libro; mi sembra quasi che la devozione del Bardo per il suo amico sia una stretta parente dell'ossessione del protagonista di questa storia.
Il nostro scrittore è un uomo che non ama stare lontano dalla sua "comfort zone", eppure si tratterrà a Venezia per restare perennemente vicino all'oggetto della sua ammirazione. Mentre in passato al primo cenno di un problema non perdeva occasione per decidersi a rientrare a casa, in questo caso nemmeno la pestilenza che travolgerà Venezia sarà abbastanza da spingerlo a tornare.
Assisteremo dunque alla graduale decadenza di quest'uomo in nome della Bellezza; una devozione cieca che lo spingerà a far cose folli che tempo prima non si sarebbe mai sognato di fare: prenderà decisioni impulsive, si abbandonerà al sentimento, si lascerà andare a un atto meschino pur di non doversi allontanare dalla vista di Tadzio.
Il finale non è altro che l'epilogo inevitabile di uno spaventoso e improvviso declino.

"Aschenbach aveva affermato una volta in una sua pagina, alla sfuggita ma senza ambagi, che quasi tutto ciò che esiste al mondo di grande è una manifestazione di resistenza, è sorto cioè nonostante il dolore e la sofferenza, nonostante la povertà, l'abbandono, la debolezza fisica, il vizio, la passione e mille ostacoli."

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    25 Giugno, 2018
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ARTE VS. VITA

Tra le molteplici suggestioni che “La morte a Venezia” offre, quella che fin dall’inizio appare predominante, informando lo spirito stesso dell’opera, è il conflitto tra l’arte e la vita. Da sempre sensibile al problema del ruolo dell’artista nella società dell’epoca, Mann ha portato ad estreme, parossistiche conseguenze, con il personaggio di Gustav Aschenbach, la rappresentazione di quella particolarissima condizione spirituale, facendola giungere ad un livello di sublimazione estetica così elevato da provocare un profondo distacco dalla realtà. Aschenbach è uno scrittore famoso e universalmente acclamato, il quale, dopo una vita condotta nel segno dell’autodisciplina, del rigore morale e della dignità, giunge, al culmine della sua maturità, ad assolutizzare il binomio forma-contegno al punto da costruire una filosofia etico-artistica fondata sull’”abbandono di ogni ambiguità morale, di ogni simpatia per l’abisso”, sul rifiuto ad un tempo della scienza e del relativismo psicologico. Questo tentativo di realizzare il “miracolo della rinata sincerità” per mezzo di un novello classicismo, impone però all’artista di obbedire ad una pratica spirituale severa ed ascetica, che è in palese opposizione alla vita, anzi è non-vita. E’ sufficiente l’inconsueto incontro con un forestiero dall’aspetto misterioso e inquietante per far sorgere improvvisamente in lui il desiderio, anzi il bisogno, di viaggiare, di interrompere la rigida routine lavorativa. Nelle pagine successive diviene chiaro il duplice significato di questa apparizione: essa è il segnale che una piccola falla si è aperta nell’edificio così faticosamente costruito, in tanti anni di autodominio, dal protagonista, l’avvertimento che il disordine delle passioni e degli istinti sta per irrompere fatalmente nella sua esistenza; e nello stesso tempo rappresenta, incarnata in quell’estraneo dall’aria feroce, dalle rughe profonde, dalle labbra troppo corte e dai denti bianchi scoperti fino alle gengive, la prima manifestazione della morte.
Nella novella si assiste a un fitto gioco di corrispondenze, di rimandi simbolici, di segni premonitori, che generano in Aschenbach l’impressione “che le cose non prendessero la piega consueta, come se una trasognata alienazione, una strana deformazione del mondo stesse per prendere il via”. Il personaggio del forestiero, ad esempio, ritorna ossessivamente, con tratti fisici addirittura uguali, nelle figure del gondoliere e del cantante, quasi che la morte intendesse inviare all’eroe indeciso funerei messaggeri dall’identico viso. E come non accorgersi di tutti quegli altri presagi che la morte, autentica protagonista del racconto, dissemina qua e là, dal nero delle gondole, che richiamano alla mente “feretri e tenebrose esequie”, al nero del panno della macchina fotografica abbandonata sulla spiaggia. Questi arcani e sibillini messaggi non tardano a far breccia nel cuore di Aschenbach. Quando egli giunge a Venezia, il suo equilibrio è già irrimediabilmente compromesso, al punto che, abbandonato mollemente sui cuscini della gondola che lo sta trasportando attraverso la laguna, si sorprende a pensare: “La traversata sarà breve. Potesse durare per sempre!”. Questo sentimento, che indica il rilassarsi della volontà morale, viene vanamente contrastato da Aschenbach. In realtà, più che ingaggiare una lotta per difendere dal disordine e dal caos la propria dignità e le proprie convinzioni etiche, Aschenbach si circonda di pretestuosi alibi per non riconoscere la resa. Quando, infatti, il bellissimo Tadzio calamita su di sé l’attenzione del protagonista, costui rifiuta inconsciamente di riconoscere la natura erotica dell’ammirazione che prova per l'adolescente, dando ad essa un carattere esclusivamente estetico e contemplativo, convincendosi anzi che quella passione ha la stessa sacra natura della creazione artistica: “Quale disciplina, quale precisione dell’idea si esprimeva in quell’organismo agile e giovanilmente perfetto! La rigida e pura volontà, tuttavia, che, oscuramente agendo, aveva potuto portare alla luce questa divina opera d’arte, non era forse nota e familiare a lui, l’artista? Non agiva forse anche in lui, quand’egli, pieno di serena passione, sprigionava dal blocco marmoreo della lingua la snella forma che aveva contemplato in spirito e che presentava agli uomini quale monumento e specchio della bellezza psichica? […] Con estatica esaltazione egli credeva di cogliere la Bellezza in sé, la Forma come pensiero divino, l’unica e pura perfezione che vive nello spirito e di cui era qui offerta all’adorazione un’immagine umana, un’allegoria lieve e leggiadra”. In Aschenbach si intravede un desiderio inconsapevole e voluttuoso di autodistruzione: così, quando, oppresso dal clima soffocante di Venezia, egli prende controvoglia la decisione di lasciare la città, non può non accogliere con soddisfazione a stento dissimulata la fatalità che, sotto forma di un errore nella spedizione del bagaglio, lo costringe a rimandare la partenza e a rimanere ancora vicino al conturbante oggetto del desiderio. Messo di fronte alla realtà della sua situazione, le fragili e inconsistenti difese innalzate da Aschenbach saltano del tutto: l’anziano letterato, perdutamente innamorato dell’efebico ragazzo, è indotto a spogliarsi di quella forma e di quel contegno che erano stati i suoi irrinunciabili parametri di riferimento per tutta la vita, assiste impotente (lui, il cultore della apollinea compostezza, della intransigenza morale) al prevalere degli istinti dionisiaci e, dissoltosi in lui qualsiasi scrupolo etico, finisce per imitare proprio quel damerino che, all’inizio del racconto, aveva suscitato in lui una grande ripugnanza. Se il suo magistero era stato, come si è visto, una rinuncia alla vita, ora che la vita erompe con prepotenza, sconvolgendo le strutture apparentemente consolidate, l'artista si scopre costituzionalmente incapace di trovare un giusto equilibrio tra il regno dello spirito e della razionalità da una parte e quello della fantasia e dei sensi dall’altra: la conclusione inevitabile del racconto è la morte del protagonista. Essa è una morte naturalisticamente rappresentata, giacché Aschenbach muore di colera, probabilmente per aver mangiato delle fragole troppo mature, ma è anche e soprattutto una morte simbolica, perché Tadzio si allontana definitivamente dalla sua esistenza.
Cercare ne “La morte a Venezia” un’unica chiave di lettura è impresa inutile, oltre che riduttiva, poiché il suo fascino si nutre essenzialmente delle molteplici e complesse interrelazioni esistenti tra i diversi leitmotiv del racconto: l’amore, la bellezza, la malattia, la morte. Estremamente seducenti, in un contesto dichiaratamente simbolico, sono i parallelismi che si creano tra la passione di Aschenbach per Tadzio e l’epidemia che scoppia a Venezia. Innanzitutto, va detto che la città lagunare viene completamente reinventata da Mann, il quale la fa essere non più (o non solo) un luogo reale ma il frutto delle proiezioni di un’intellettualità morbosa, allucinata e sull’orlo della degradazione morale. L’atmosfera che la circonda contribuisce a connotare bene le diverse fasi della vicenda e lo stato d’animo del protagonista: le acque stagnanti e putrescenti della laguna, lo scirocco soffocante e afoso, l’aria fetida e malsana che si respira lungo le calli sempre più abbandonate, sembrano la materializzazione di una indefinibile situazione spirituale, languida e neghittosa insieme. L’incubazione della malattia nella città esotica e decadente si accompagna perciò alla febbrile presa di coscienza di Aschenbach della sua passione omosessuale, così come il segreto dei veneziani che cercano di tenere i forestieri all’oscuro della pestilenza si confonde con il segreto della sua corruzione morale, che culmina nell’egoistica volontà di non mettere a parte l’ignara famiglia polacca di Tadzio dei rischi del contagio. L’allentamento dei costumi che l’epidemia provoca nella popolazione è poi l’oggettivazione della ormai inarrestabile discesa di Aschenbach verso quell’abisso che egli aveva violentemente stigmatizzato nelle sue opere e che nelle ultime pagine del racconto si estrinseca in un mostruoso sogno culminante in un’orgia dionisiaca. La malattia fisica del protagonista, come già detto, è il riflesso della sua malattia morale e decreta la definitiva sentenza che noi già conosciamo, che egli cioè è diventato preda delle selvagge forze dell’Eros. Ma la malattia e la morte non sono solo il capitolo conclusivo di un singolare itinerario spirituale, esse formano anche – e conoscendo Mann non poteva essere che così – un connubio ineluttabile con la bellezza. Osservando da vicino Tadzio, Aschenbach pensa tra sé: “«E’ molto debole, è malaticcio. Probabilmente non arriverà alla vecchiaia». E rinunciò a darsi ragione del sentimento di soddisfazione o di sollievo che s’accompagnava a quel pensiero”. Per l’artista, bellezza significa morte; egli, mediatore tra spirito e sensi, tra mondo eterno e mondo terreno, è portato a confondere con la morte l’oggetto della sua ammirazione, di augurarsi la corruzione fisica di ciò che ama, perché in questo è la condizione della sua sublimazione e della sua durata.
“La morte a Venezia” è un racconto di poche decine di pagine, ma racchiude tutta l’essenza dell’arte manniana. Stupiscono in essa la perfezione compositivo-architettonica e la sapienza stilistica, che forse solo in Proust hanno saputo trovare un pari sfoggio. Le sfumature delle variazioni tematiche e la ricchezza di contrappunti danno poi all’opera di Mann un fascino che si potrebbe definire musicale. Il linguaggio è solenne, paludato di classico, ricco di figure retoriche e di aggettivi e participi sostantivati: preso alla lettera potrebbe essere considerato pedante e fastidioso, ma bisogna tenere presente che Mann ha voluto di proposito scrivere il racconto nello stile imponente e sostenuto che avrebbe utilizzato Aschenbach, al fine di ottenere un effetto quasi caricaturale (si pensi alla prosopopea del secondo capitolo o ai frequenti intermezzi grecizzanti). La cosa di gran lunga migliore, a mio avviso, è rappresentata dalla densa e suggestiva trama di riferimenti simbolici che percorre da un capo all’altro la novella e che consente di superare la rigida e astratta polarità tra la ragione repressiva e la rivolta distruttrice degli istinti. Inscritta in rigorose coordinate tematiche che lasciano intuire un lungo e paziente lavoro preparatorio a tavolino piuttosto che l’immediatezza di una folgorante ispirazione, “La morte a Venezia” può sembrare a tratti un’opera fredda, raggelata dall’abbondante ricorso a virtuosismi stilistici non privi di un autocompiacimento estetizzante: ma questo è Thomas Mann, geniale e solitario epigono della decadenza, il quale ha portato nell’analisi di questo fenomeno, grazie alla fusione di calmo distacco e di passione, di freddezza critica e di liricità, un fervore davvero minuzioso.

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Belmi Opinione inserita da Belmi    18 Febbraio, 2018
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Decadenza

Un uomo e una città, che detti così, possono sembrare due identità distinte, ma entrambi sono accomunati da una cosa, la decadenza, il non voler cedere e rimanere a galla seppur consapevoli che il destino ha in serbo altro per loro.

Gustav Aschenbach è un famoso scrittore che decide di partire e dopo qualche ripensamento trova la meta adatta al suo scopo, Venezia. Un uomo abituato a parlare di bello ma che fisicamente sta decadendo, solo grazie alla presenza del giovane polacco Tadzio ritrova un guizzo di vitalità. Per Aschenbach, Tadzio non è solo un ragazzo e un nome, per lui diventa una ragione di vita che riattiva tutta una serie di atteggiamenti ed emozioni che Mann volutamente esagera, rendendo bene l’idea della fase che il protagonista sta vivendo.

Mann è esemplare anche nel descrivere una Venezia che si avvicina a un punto critico e seppure molti continuino, in maniera decisa, a voler celare il vero pericolo, ormai la sua decadenza è così palese e
tangibile che resta poco da fare.

Un piccolo romanzo che attiva molti pensieri. Difficile non riflettere sulla follia (l’infatuazione) che colpisce il protagonista, uno stravolgimento tale nell’anima e nel corpo che solo una penna valida poteva rendere così manifesta e ben descritta. L’altro aspetto che mi ha particolarmente colpito è l’egoismo, il protagonista pur di non rinunciare alla vista dell’amato non avvisa del pericolo imminente.

Il finale è la degna conclusione di una follia. Ho visto che dal libro è stato tratto un film di Visconti che sicuramente guarderò.

Concludo dicendo che è un libro intenso, breve ma di non semplice lettura. Date un’opportunità a quest’opera, non ne rimarrete delusi.

“Allora avrebbe potuto posare la mano, in segno d’addio, sul capo del fanciullo che era stato lo strumento di una divinità beffarda e poi, ritirandosi, fuggire da quella palude. Ma nello stesso tempo si sentiva infinitamente lontano dal voler realmente compiere un simile passo. Era un passo che lo avrebbe riportato indietro, che lo avrebbe restituito a se stesso, ma niente teme maggiormente chi è fuori di sé che il rientrare in se stesso”.

Buona lettura.

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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    21 Marzo, 2016
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La città malata

“Riposare nella perfezione è il sogno di chi tende all'eccelso, e non è forse il nulla una forma di perfezione?”
Il vecchio signor Aschenbach è un uomo sospeso tra i romantici impeti, le passionali aspirazioni del suo animo, e la decadente consapevolezza di sé, della propria età, della propria solitudine. Una natura in costante conflitto interno tra la rassegnata accettazione e l’incontrollabile desiderio di non accettare il proprio essere; un fuoco ormai spento e l’ultima scintilla che risale dalle ceneri. In una parola, è un artista.

“In quasi tutti gli artisti è innata la tendenza voluttuosa e ingannatrice ad accettare l'ingiustizia che genera bellezza, a rendere omaggio e mostrare simpatia alla predilezione aristocratica.”
Come ogni artista, il vecchio signor Aschenbach vive delle sue lacerazioni, le ama quanto la sua stessa vita, esse sono la sua vita, i suoi sensi e la sua ragione. E’ un artista amante della bellezza, della sua immateriale inconoscibilità e della sua materiale esperibilità. Un artista in continuo contatto con le zone oscure della mente umana, con l’ineffabile voluttà, con l’ancestrale richiamo naturale della bellezza pervasiva, astratta ma concretamente immanente, fino a fargli accarezzare la pederastia. Un artista volutamente inquieto, diviso tra la passione imperante e la coscienza della vecchiaia, tra il desiderio e la paura. Un artista che ha fatto della solitudine la sua dimensione e giustificazione, della sua interiorità l’abisso in cui amabilmente sprofondare per vivere di bellezza e non di morale.

“La solitudine genera l'originalità, la strana e inquietante bellezza, la poesia, ma anche il contrario: l'abnorme, l'assurdo, l'illecito.”
Un artista della vita e della conoscenza, viaggiatore solitario per la caliginosa Venezia, che col suo grigio ipnotico si traduce in un paesaggio dell’anima in preda ai suoi fumi onirici. Venezia è una città romantico-decadente, una città di passioni e di nostalgiche rimembranze. E’ una città combattuta tra la bellezza ammaliante del mare e la cupa atmosfera di invadente tensione del cielo. E’ una città dell’irrealtà e del “forte sentire”. Come la sua anima, anche Venezia è una città affascinante proprio perché manifestamente malata, anche Venezia è un mondo chiuso e straripante. Inevitabilmente anche Venezia è destinata a morire sotto i colpi della peste, come Aschenbach sotto quelli della sua passionalità.

“Questa era Venezia, la bella lusinghiera e ambigua, la città metà fiaba e metà trappola, nella cui atmosfera corrotta l'arte un tempo si sviluppò rigogliosa, e che suggerì ai musicisti melodie che cullano in sonni voluttuosi.”

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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    06 Marzo, 2016
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Amore improprio

Gustav Aschenbach è uno scrittore tedesco, solido, ligio all'etica e rispettoso delle regole. Passata la mezza età, quasi per caso si trova a trascorrere le vacanze a Venezia. Qui il suo sguardo si poserà su Tadzio e non si potrà più sollevare. Questo ragazzino polacco, preso dai suo giochi di bambino, circondato dalle cure di madre, sorelle e balia lo condurrà alla fine.
Sullo sfondo una Venezia minacciata dal morbo della peste che tutti cercano di nasconder per non far fuggire i turisti. in primo piano un uomo di età avanzata alle prese con un innamoramento da adolescente. Così come Venezia cerca di nascondere i prorpri malati Gustav si rende quasi ridicolo cercando di ringiovanirsi nell'aspetto e nell'abbigliamento così da apparire più desiderabile al ragazzo per cui spasima. La brama pedofila dello scrittore non sarà consumata, ma si risolverà solo in inseguimenti tra le calli di Venezia ed in appostamenti sulla spiaggia in attesa di veder passare il ragazzino.. In questo ci metterano lo zampino anche le donne di casa che hanno notato questo interessamento insano. Non sappiamo se Gustav avendone l'occasione sarebbe stato capace di violare il giovane che lo ha stregato rendendolo incapace di controllarsi. Sappiamo, però che questo amore gli ruberà la capacità di agire in modo razionale e che, alla fine, lo porterà alla felicità più definitiva.
Non mi soffermo sulle evidente allusioni ad un periodo di decadenza che si cerca di mascherare abbellendo la realtà o cercando d deviare l'attenzione sulla mosca per far passare innosservato l'elefante. Sottolineo, invece, la capacità che ha Mann di catturare il lettore con descrizioni precise ed azzeccate di persone e sentimenti. Capacità che ammiro molto in questo autore, altro discorso è il tema trattato e quello che a me sembra il tentativo di farci simpatizzare per un pedofilo.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    09 Luglio, 2015
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Aschenbach da Mann a Visconti

Che “La morte a Venezia” di Thomas Mann faccia riferimento ad alcuni episodi della vita dell’autore è noto. Ciò, tuttavia, non fa dell’opera un romanzo autobiografico. Lo splendido personaggio di Aschenbach, un artista in crisi, giunto a Venezia per ritrovare quella disciplina e quel rigore su cui aveva sempre basato la sua arte, diviene il simbolo del declino d’un’epoca e portavoce del suo profondo malessere. Il racconto procede con la continua contrapposizione tra la bellezza struggente d’una Venezia dei primi del novecento e la nauseabonda e maleolente aria che si respira attraversando i suoi canali. La vicenda umana e artistica di Aschenbach si dibatte tra la perenne aspirazione alla perfezione e al sublime e l’amara constatazione del progressivo degrado. In questo scenario si inserisce la passione improvvisa per il giovane Tadzio, la cui efebica bellezza incarna ai suoi occhi la perfezione del mondo classico. Aschenbach, tuttavia, vive questo sentimento con un profondo senso di colpa. La purezza di Tadzio è contaminata dal desiderio dell’anziano artista, al punto da divenire egli stesso personaggio ambiguo e inquietante. Eros e Thanatos, Vita e Morte, Salute e Malattia, nello splendido scenario veneziano.
L’Aschenbach scrittore di Mann diviene l’Aschenbach musicista di Visconti. É sempre la crisi dell’arte in tutte le sue espressioni, al centro della realizzazione cinematografica del regista italiano.
Anche Visconti ha rappresentato la crisi del mondo borghese, con lo stesso nostalgico sentimento, anche nelle raffinatissime riproduzioni degli ambienti veneziani si nota un indulgere su personaggi e situazioni che vanno lentamente scivolando nel passato. La musica di Mahler si sostituisce alla parola di Mann. Le espressioni del viso di Aschenbach,, interpretato da Dirk Bogarde, sostituiscono le descrizioni e i pensieri del personaggio di Mann. Se il protagonista del romanzo, tuttavia, non può in nessun caso coincidere con l’autore, qualche coincidenza si può, al contrario, riscontrare tra Aschenbach e Visconti stesso. Nonostante ciò, neanche il film può essere considerato come opera autobiografica.
Mann e Visconti, sia pure in momenti storici diversi, hanno saputo rappresentare con lo stesso pathos, il sofferto rimpianto d’un mondo scomparso, il mondo di ieri.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    02 Mag, 2015
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Decadenze parallele

Il racconto della decadenza di un individuo e di una città, quasi in parallelo: è l'obiettivo fissato e raggiunto da Thomas Mann in questo romanzo breve.
La città è quella lagunare per eccellenza, Venezia, che tenta di nascondere il suo progressivo corrompersi, tra gondolieri servili, effluvi malati, scaltri commercianti...
L'uomo è Gustav (von) Aschenbach, maturo scrittore di successo, amante della bellezza. Ha tutto quello che gli serve, e che di solito porta con sé in dote la noia.
Così approda – tra tante possibili mete – negli hotel di Venezia, in cerca di qualcosa che possa destare il suo interesse. Lo trova in una presenza inaspettata che aleggia nello stesso suo albergo: quella di un giovanissimo ragazzo polacco cui dà il nome di Tadzio (i suoi familiari lo chiamano in un modo simile, anche se non del tutto decifrabile).
Lo sguardo di Aschenbach sulla persona di Tadzio, sui suoi capelli lunghi, sul fisico tornito, sugli aggraziati movimenti, si fa sempre più morboso, scoperto, dipendente. E, allo stesso tempo, Aschenbach ha un motivo in più per disprezzare il proprio invecchiare, la rugosità, l'espandersi di un naturale grigiore nei capelli, il calare della luminosità della pelle...
Ma l'uomo non si rassegna a restare – come Venezia – a pelo d'acqua.

Sembra come se Gustav (von) Aschenbach sia l'ideale continuazione di un altro personaggio di Thomas Mann: quel Tonio Kroger protagonista dell'omonimo romanzo breve dell'autore tedesco. Tuttavia ne è continuazione in negativo: entrambi i personaggi sono tenaci osservatori delle cose, amanti del bello, uomini apprezzati; ma Tonio Kroger dimostrava di ammirare il tipo “borghese”, la sua inconsapevolezza, che in certo qual modo – suggeriva l'autore – è benvenuta mediocrità. Aschenbach non ha invece a cuore l'esistenza umana in sé, bensì quel che egli vede di notevole nella stessa... anche se si tratta soltanto di un imberbe ragazzino, bello come un giovane eroe greco ma ancora immaturo e inconcludente.
Alla fine è Aschenbach stesso a perdersi nelle proprie indecisioni (andar via da Venezia o restarvi? Continuare a seguire un incontro casuale o “tornare in sé”?); è Aschenbach a diventare vittima della sua stanchezza, a smarrire la capacità di fiutare il pericolo evidente.
Per arrivare ad un finale sottilmente duplice in cui Venezia diventa la reale protagonista: essa marcisce perché, sotto la meravigliosa patina confezionata ad uso e consumo dei turisti, è questo il suo destino? O piuttosto per portar via esistenze realmente e irrimediabilmente corrotte, e poter così ritornare purificata al suo pieno vigore?

Lo stile del libro è di assoluto livello e realizza una costruzione formale che non poteva sfuggire ad un regista raffinato come Luchino Visconti, il quale, nel 1971, trarrà da questa storia di Mann il film “Morte a Venezia”.

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Tonio Kroger... ma anche a chi ha apprezzato il film "Eyes wide shut" di Stanley Kubrick
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Nicolò Bonato Opinione inserita da Nicolò Bonato    22 Settembre, 2014
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La morte della morale

Raffinato, ipotattico ed etereo, Mann ci costringe a parteggiare per il mostro, l'orco, l'eccitabile anziano che vorrebbe sedurre il bambino non ancora ragazzo.
Che lo guarda, lo spia, lo segue, mentendo a sé stesso, giustificandosi e ammantando blandamente quest'ossessione con l'epiteto, mai espresso, di pura pederastia.

Ma non è niente di tutto ciò, l'attrazione del vecchio Aschenbach per il ragazzo di cui non conosce neppure il nome è morbosa, anzi va oltre il morbo, il colera indiano che erode una Venezia già sanitariamente debole e fiaccata dalla canicola estiva.

Il breve romanzo fa apprezzare pienamente l'abilità espressiva e la ricchezza quasi barocca della prosa di Mann, che quasi sempre riesce nell'ardua impresa di utilizzare un linguaggio raffinato e ricercato senza tediare il lettore.

Certo, non sempre ci riuscirà, a volte parrà di doversi trascinare stancamente per qualche pagina in cui Mann non sembra far altro che ritirare intorno ad un medesimo concetto, ma bel complesso l'opera risulta relativamente scorrevole anche se certo non facile.

La morte a Venezia non è tanto quella fisica del protagonista, per la verità piuttosto prevedibile, quanto quella della sua morale mitteleuropea, contaminata dal clima meditteraneo e vacanziero e infine del tutto decaduta nel momento in cui egli pronuncia a sé stesso le fatidiche parole di un amore inconfessabile.

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Ale96 Opinione inserita da Ale96    09 Settembre, 2014
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Eros e Thanatos

Un cielo plumbeo ricopre Venezia. La città sospesa sul mare, tra sogno e realtà, dalla“bellezza adescatrice ed equivoca” è soffocata da una coltre rorida di malattia e di infezione. Le acque melmose della laguna ribollono, emanando un tanfo pestifero. Dalle finestre moresche delle facciate fuggono sospiri commisti all'odore pesante dell'acido felico. Pochi turisti passeggiano per piazza San Marco: mirano i colombi in volo ignari del morbo che le calli, i rii, i canali nascondono. Un mare grigio, debole, inerte sfiora la vuota spiaggia del Lido senza forze. Solo sporadici brividi di spuma.
Ecco! La funerea, lugubre gondola fa il suo ingresso sul Gran Canale. Lo attraversa lenta, solenne, inesorabile. Attracca. Una figura scura scende. I veli fittamente ricamati creano minacciose figure mosse da una gelida folata di vento (strano, siamo a maggio). Inizia la danza delle spade, sinuosa, muta e terribile. La dama senza volto non ha pietà, non risparmia nessuno. Il suo morbido bacio rappresenta la fine, è l'oblio che eterna la scomparsa. La Morte è a Venezia.

“Gustav Aschenbach, ovvero von Aschenbach (questo era diventato il suo nome ufficiale dal giorno del cinquantesimo compleanno),” è un celebre scrittore della Bassa Slesia, conosciuto e decantato in tutta Europa per la sua inflessibile moralità e per il suo elevato senso civico. Grande romanziere e impressionante saggista è l'esempio vivente della rettitudine, della probità. Nonostante il fisico debole, ha compiuti sforzi immani per creare i suoi capolavori e vi è riuscito grazie alla sua indefettibile volontà. “Perseveriamo” è il motto dello scrittore e del suo idolo, il grande Federico di Prussia. Insomma per chi vuole condurre una esistenza onesta e onorevole Gustav von Aschenbach è il modello da seguire. Un giorno, al cimitero del Nord di Monaco, la visione sinistra di uno strano individuo risveglia in lui un'insana voglia di viaggiare. Notando come il suo stile troppo sentenzioso necessiti di una rinfrescata , decide di partire per il Sud e attracca a Venezia che trova, però, umida e spenta. È sul punto di andarsene quando nella hall del suo albergo rimane incantato dalla visione di un meraviglioso quattordicenne polacco, Tadzio. I riccioli melliflui, l'incarnato eburneo, la grazia che emana questo efebico fanciullo sconvolgono l'anziano scrittore, che, per la prima volta, trova incarnata quella Bellezza alla quale aveva immolato la sua arte. Inizia così la discesa agli inferi di Gustav von Aschenbach...

Thomas Mann con questo brevissimo romanzo raggiunge l'apice dal punto di vista stilistico. La parola che in lui ha sempre brillato entra ufficialmente nell'Olimpo della Letteratura. La sua penna traccia in poche pagine una sinfonia delicata, elegante, malinconica che è musica, pittura, poesia. La morte a Venezia è un'opera d'arte totale che non ha nulla da invidiare a Wagner. La sua grandezza, la sua unicità sta nell'equilibrio e nella perfezione della forma improntata a un nuovo classicismo. Il Simposio di Platone e l' Erotikos di Plutarco scandiscono questa storia di Amore e Morte, di Eros e Thanatos attraverso immagini epiche, quali il carro alato del Sole al sorgere del mattino e l'ultima epifania di Tadzio. Tuttavia l'autore non dimentica la sua cara, inconfondibile ironia che raggiunge spesso il paradosso e la caricatura senza mai appesantire la storia e rovinare il ricamo che ha così mirabilmente tessuto.

La storia di Aschenbach sconfina nel mito, nel dramma, nella filosofia. Il graduale infiltrarsi del dionisiaco nello spirito apollineo del protagonista non può non rimandare a Nietzsche ma è soprattutto il nesso tra arte e vita che interessa al nostro autore. “L'arte è vita sublimata”: l'artista nella sua bramosia di conoscere riesce a cogliere il bello e a evocarlo mediante la parola, le note, lo scalpello, elevando la vita a una dimensione celeste. Tuttavia la passione, il fuoco interiore che lo divora, lo precludono dalla reale esistenza fatta di piccoli gesti quotidiani, da irripetibili gocce di intimità. La sua sete di vita gli impedisce di vivere perché la bellezza, la conoscenza “hanno simpatia per l'abisso, sono l'abisso medesimo”. L'arte ,allora, diviene malattia ed Eros lascia la scena al proprio gemello.

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silvia t Opinione inserita da silvia t    13 Luglio, 2013
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La morte a Venezia

Molti sono i piani di lettura che compongono questa novella, la quale appare semplice, quasi minimalista con uno stile che inebria per i cambi di ritmo che si concede.
Il piano narrativo è quello di più facile comprensione, il più scontato; il protagonista si trova in una fase della vita in cui tutto appare confuso, l'idea della fine si fa avanti e con essa la consapevolezza di aver vissuto di sola ragione, di solo appagamento intellettuale, dimenticando, o forse sopprimendo, ogni istinto, ogni germoglio di passione; è la morte che con il suo acidulo odore si insisnua nei meandri della mente, ricordando che non tutto è finito, ma che finirà, in modo inesorabile; è questo pensiero che cambia la prospettiva invertendo l'ordine delle priorità, annullando la razionalità ed esaltando la passione.
Se l'idea della morte il primo movens di questo processo, il fattore scatenante è un amore non convenzionale, omosessuale, verso un ragazzino, un amore platonico, ma essenziale e forte, che brucia le carni e offusca i pensieri.
L'immagine che si ha del piccolo adone è quella raccontata dal protagonista, idealizzata, quasi mitologica: una bellezza divina, rispondente ai canoni della bellezza classica, quasi a giustificare i bassi istinti che lo animano; il ragazzino non è caratterizzato, non ha una personalità, è lineare, quasi abulico, proprio come se fosse una statua di immensa bellezza, ma priva di un'anima, priva di una qualsiasi valenza individuale; egli è la rappresentazione terrena dell'idea di perfezione, di armonia
e come tale oggetto di amore sconfinato e profondo.
Ciò che rende questo scritto se non il capolavoro di Mann, senza alcun dubbio un caposaldo della letteratura del novecento è la capacità di andare oltre il tempo e oltre lo spazio, di sopravvivere agli anni, ma allo stesso tempo di poter esistere sono in quell'epoca e in quel luogo.
I sensi sono confusi, dalla bellezza di Venezia e dalla malattia che aleggia tra le calle, la tranquillità dell'albergo e la confusione che si anima nel protagonista.
Scendendo più in profondità troviamo anche una descrizione molto simpatica e azzeccata della società dell'epoca, piena di ipocrisie e di paure, ora come allora lo stato italiano cerca di nascondere la gravità di una situazione che sta precipitando, minimizzando e smentendo le voci; questo aspetto è uno dei più interessanti, il modo in cui Mann ha descritto la popolazione locale è delizioso e riesce a creare dei personaggi che rimangono a lungo nella mente del lettore.
Una lettura piacevole, veloce e moderna.

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MrsRiso13 Opinione inserita da MrsRiso13    20 Giugno, 2013
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Travolgente Bellezza

Poche pagine per raccontarci il peregrinaggio di un uomo verso la perdizione sia fisica che morale, che lo porterà alla morte. Gustav von Aschenbach, artista di fama, è deciso a mettere fine alla propria immobilità intraprendendo un viaggio con metà finale, in tutti i sensi, Venezia. In una città malata, le cui descrizioni si accompagnano ai deliri interiori del protagonista, arricchendoli, il colera sta mietendo le sue vittime e Gustav incontra i propri demoni. Il peccato ha, per l'artista, il nome di Tadzio, giovane polacco dall'eterea bellezza, di cui s'infauta perdutamente. Senza preoccuparsi delle ineluttabili conseguenze, si lancia a braccia aperte in questo amore, per lo più esaltazione platonica della bellezza, che non tarderanno ad arrivare.
L'intensità del racconto segue le vicende narrate e alla partenza lenta e sobria si contrappone il crescendo successivo, in cui i toni si fanno più ritmati e densi. La vita semplice e morigerata del Gustav iniziale contrasta con il nuovo Gustav, ostaggio dei sensi senza più inibizioni. Le parole semplici e leggere dell'inizio, si complicano, si arricchiscono di metafore, si abbelliscono e, a un tratto, s'incupiscono per far percepire i farneticamenti interiori di un uomo di arte, che ha fatto della sua vita un esempio di moralità, ma che alla fine, non riuscendo più a resistere, con tutti i sensi, si abbandona alla esaltazione della bellezza, lasciandosi corrompere da essa.
Un racconto denso e coinvolgente da non lasciarsi scappare.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    28 Mag, 2013
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La morte a Venezia

Forze telluriche, primordiali, genetiche ribollono nella laguna veneziana, spazio fisico e dimensione interiore, assediata da esalazioni mefitiche, rifugio di demoni ctoni, irruenti, invertiti eppure attraenti. Epifanie disgustosamente magnetiche scandiscono il tempo della dissoluzione, materia che fagocita la forma. Passioni e istinti atavici cui l’intelletto, logorato e intransigente, si arrende. Tensioni distruttive, esplosive balenano improvvise a smuovere l’indolenza sempre più accentuato di una città flagellata dal colera.
Questa “La morte a Venezia”, apparizione dopo apparizione, simbolo dopo simbolo, resa dopo resa, bellezza su bellezza in una vertigine inarrestabile il cui approdo è un parossismo violento, avvinghiante e terribile, un abisso di desiderio inesprimibile soffocato da rigido controllo dell’intelletto. Dionisiaco e apollineo alla resa dei conti.
Esile la trama: un vecchio scrittore dalla fama consolidata, vinto dal desiderio di viaggiare, dopo una vita “secondo ragione”, si reca a Venezia, dove s’innamora di un quattordicenne polacco, Tadzio, da cui è avvinto, in una città dalla bellezza sfatta, matura ed indigesta, fermentata. Stile convulso, ipnotico, discesa nell’inferno della coscienza, autopsia dell’anima.
Un amore omossessuale, vero, elemento che non si può tacere: amore fisico, carnale, mai concretizzato, amore divino, supremo, contemplazione estatica della bellezza, ovvero del bene. Tadzio come mediatore tra il mondo terreno e quello ideale, “psicagogo”, come lo definirebbe Platone.
“La morte a Venezia” è essenzialmente una catarsi invertita: non purificazione dalle passioni, ma dalla ragione. Nel personaggio centrale dell’opera, Gustav Aschenbach, si realizza l’antinomia tra vita ed arte, quest’ultima intesa come frutto della malattia, del malessere. Vita in bilico tra passione ed intelletto, unione indissolubile di materia (le pulsioni istintive) e forma (la ragione, ciò che plasma). Sostanzialità umana che non si può negare, e che sarebbe assurdo rifiutare. Se Aschenbach è la razionalità, Tadzio è il sentimento, tenuto a bada per tutta la vita dallo scrittore, e infine emerso nello sguardo candido di un fanciullo, goccia che la ragione non riesce a trattenere. E’ l’innamoramento, pederastico, abominevole, eppure irrinunciabile, capace di annichilire l’ultimo spiraglio di razionalità, cancellato da un barbiere che addolcisce le rughe della vecchia, colora il bianco dei capelli, trasforma l’incorruttibile in totalmente depravato. Una passione per anni tenuta a bada, soppressa da una mente ormai logora: è il dionisiaco, l’estasi, il piacere divino che erompe, consuma se stesso, brucia la vita nell’ardore inestinguibile di un amore alla disperata ricerca di uno sfogo, di liberazione. E se il narcisismo dello scrittore, o l’ultimo bagliore di reticenza lo trattengono, l’unico modo, l’unico spazio della catarsi è il sogno, un orgia inquietante, disgustante, grida infernali, ultimo preludio della fine.
Mann, omosessuale dichiarato, eppure padre di sei figli, accoglie l’esperienza biografica, l’estremizza (o forse la rappresenta), ammiccando alla filosofia, alla psicologia freudiana, con un pathos, un’acutezza capaci di penetrare nel lettore, nella sublime ascesa alla contemplazione del bene. Eppure ciò che resta è l’inquietudine, l’insoddisfazione, una sensazione asfissiante che toglie il sonno, un vuoto che è in definitiva il mistero dell’esistenza. Tutto si trasforma nell’opera di Mann, camaleontica nella descrizione del paesaggio Veneziano in disfacimento, dinamica nel tratteggiare le sensazioni del protagonista, alla ricerca di un modo per riscattare una vita, invero monotona, il cui peso si fa definitivamente opprimente.
Sullo sfondo una Germania vicina al Terzo reich, destinata a veder infrangersi quel modello si superuomo wagneriano o nietzschiano, un uomo integerrimo, capace di incarnare in sé i valori della moderatezza, dell’intelligenza, della penetrazione critica e della morigeratezza, di cui il protagonista della Morte a Venezia è simbolo evidente. L definitiva presa di coscienza di una duplice natura che è cifra distintiva dell’uomo: apollineo e dionisiaco devono necessariamente convivere nella dimensione della contemplazione della bellezza suprema, o inevitabilmente destinata ad un fallimento, la cui esplicitazione non può non essere la morte.

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Mag, 2013
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Decadentismo assoluto. A Venezia.

Spesso, anche gli animali – quando avvertono che la fine è arrivata - scelgono un luogo ideale o accogliente ove ricongiungersi alla madre terra.
Forse vittima di questo medesimo istinto (a me piace immaginare che sia così) lo scrittore tedesco Gustav Aschenbach si reca nella città che interpreta – nella straordinaria concomitanza di bradisismi e maree – un assolo di amore, morte, arte e bellezza.
Perché su Venezia sembra incombere un’oscura pestilenza, forse taciuta dalle autorità cittadine.
Il fascino della città si incarna nella bellezza efebica di Tadzio, un ragazzo polacco che lo scrittore intravede sul Lido. Il giovane impersona i canoni fidiaci dell’armonia e della proporzione. Lo scrittore ne è incantato e lo ricerca in ogni luogo, in ogni momento. Il rapporto è meramente platonico: fatto di sguardi allusivi, di pedinamenti furtivi, di inseguimenti. Aschenbach si mantiene in disparte e si vergogna del proprio aspetto di fronte a tanta soavità.
Della stessa soavità Thomas Mann ammanta una storia diversamente scandalosa: quella di un vecchio che si innamora di un minorenne, in un amore proibito.
Il decadentismo opera a tutto tondo: nelle descrizioni della laguna, nell’aria ammorbata, nell’agonia – prima sentimentale e poi anche fisica – di Aschenbach, nella concezione estetica di una forma apollinea che riveste il dionisiaco di un sentimento impossibile.
Non sarà un caso se un regista come Luchino Visconti ha reso questa storia struggente in un film che è l’apoteosi del manierismo decadente…
Opera da leggere. Film da vedere.

Bruno Elpis

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... un manuale di storia dell'arte. Tipo l'Argan.
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    12 Mag, 2013
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Amore e morte

Anno 19.. Monaco di Baviera. Il famoso ed apprezzato scrittore tedesco Gustav Von Aschendbach, solitamente repellente all'idea di allontanarsi dalla sua città, viene preso da un'inspiegabile ed incontenibile impulso a partire. Decide allora di trascorrere un periodo di vacanza al mare, e nessuna destinazione appare più azzeccata della bellissima Venezia. Si avventura perciò in un viaggio che risulterà senza ritorno, in cui al degrado fisico si accompagnerà quello morale, frutto di una ossessiva quanto insospettabile attrazione platonica per un ragazzino polacco. Amore e morte convivono e combattono dalla prima all'ultima pagina di questo breve romanzo di Mann, la cui semplicità della trama contrasta con la complessità delle riflessioni concernenti il tema di fondo dell'opera: la ricerca della bellezza. Una ricerca che non conosce prevedibilità né limiti riguardanti età, convenzioni sociali, convenienze, questioni morali, che sprona l'uomo ad ambire ad un continuo miglioramento di se stesso, ma che, se portata all'estremo, può sfociare in insana morbosità e culminare nella morte dello spirito.

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antares8710 Opinione inserita da antares8710    04 Febbraio, 2013
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La morte o la bellezza

Il libro più famoso di Thomas Mann, scritto nel 1912, è questo piccolo e prezioso racconto ambientato a Venezia nel Novecento (l'autore non dice la data esatta, si limita a dire "Venezia 19..).
La trama è molto efficace come tutte le trame semplici: l'anziano scrittore tedesco Gustav von Aschenbach, rimasto vedovo e solo, dopo una vita intera spesa alla ricerca dei canoni di perfezione e bellezza, vuole provare nuove esperienze nuove sensazioni che lo facciano sentire di nuovo giovane e in forze. Per questo decide di fare un viaggio a Venezia, dove il clima migliore può aiutarlo a migliorare il suo stato di salute, oramai profondamente debilitato. Decide quindi di alloggiare in un grande e lussuoso albergo, dove la sua attenzione sarà su un bellissimo giovanotto polacco di nome Tadzio, in vacanza con la sua famiglia. Agli occhi dell'anziano scrittore tedesco, quel giovane è l'archetipo della Bellezza, un esempio mirabile della Kalokagathia greca, il simbolo di quei canoni estetici alla cui ricerca ha dedicato tutta una vita. Durante il soggiorno nella città lagunare, Gustav si lascia prendere da forti impulsi omosessuali nei confronti del ragazzo; impulsi che nemmeno lui sapeva di avere. Questa attrazione però non si concretizzerà mai in un rapporto sessuale.
Il racconto si concluderà con lo scrittore tedesco seduto su una sdraio in spiaggia, morente, intento ad ammirare una volta ancora la bellezza ineffabile del giovane Tadzio mentre gioca con gli amici. Con questa ultima immagine di estasi e bellezza, lo scrittore esala il suo ultimo respiro...

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JUNE Opinione inserita da JUNE    02 Febbraio, 2013
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THOMAS MANN NOBLESSE OBLIGE

Thomas Mann é uno dei miei autori prediletti e "La Morte a Venezia" uno dei suoi racconti più poetici,penetranti e che ti lasciano un senso di dilatazione interiore inspiegabile.
Devo ammettere che erroneamente ho visto prima il film di Luchino Visconti che nei suoi colori pastello,vividi di malinconia genetica é stato il fautore di una spinta che mi ha poi fatto conoscere questo grande scrittore del 900.
Questa passione vivida che il protagonista vive come paradisiaca ma allo stesso tempo infernale,il tutto circondato da una Venezia struggente,angusta e in preda all'avvicinarsi della minacciosa peste alla quale soccombere,é riuscita a toccare le mie corde interiori.

"..le osservazioni e gli incontri dell'uomo taciturno sono insieme più vaghi e penetranti di quelli dell'uomo socievole,i suoi pensieri più gravi e bizzarri,mai senza un ombra di mestizia.
Immagini ed impressioni che,con un'occhiata,un sorriso,uno scambio di giudizi,sarebbe facile disperdere lo occupano più del dovuto,si approfondiscono nel silenzio,acquistano peso,si trasformano in episodio,in avventura,in fatto sentimentale.
Matura l'originalità,
la bellezza audace ed inquietante.
ma anche l'opposto abnorme,
l'assurdo.
l'illecito."

non vi resta che immergervi in questo breve racconto..



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Marghe Cri Opinione inserita da Marghe Cri    25 Aprile, 2011
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Un classico

Un piccolo libro delicato, nonostante descriva il sentimento di amore proibito di un uomo maturo per un preadolescente.
Delicato perché i sentimenti, anche violenti, che descrive, restano a ribollire nell’animo dell’uomo che non si concederà altro che lunghe occhiate, poche parole e lievi carezze sul capo del bellissimo ragazzino.
Il dipanarsi della storia ed il manifestarsi della “malattia d’amore” sono accompagnati da bellissime descrizioni di una Venezia morente, già allora, coi canali stagnanti che divengono bacino di coltura per una pestilenza che esploderà virulenta verso le ultime pagine del libro.
I personaggi, anche quelli secondari, sono oggetto di un’attenta indagine psicologica che li rende reali, a tutto tondo, anche quando sono destinati a non pronunciare neppure una parola.
Lo stile di scrittura è quello dei grandi classici, ma Thomas Mann ha una sua modernità, una leggerezza nello scrivere che forse potrà piacere anche a chi non ha molta dimestichezza con i capolavori dell’inizio del secolo scorso (Mann ricevette il premio Nobel nel 1929).

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darkala92 Opinione inserita da darkala92    21 Febbraio, 2011
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Venezia: città d'arte, città decadente

[Premetto che ho letto la versione in cui sono presenti i seguenti racconti: LA MORTE A VENEZIA - TRISTANO - TONIO KRÖGER].

Il racconto che ho amato di più è stato proprio "La morte a Venezia". Dei tre, è quello che mi ha entusiasmato maggiormente, sia per la scelta della trama, ma soprattutto per la forma stilistica.
Un linguaggio davvero forbito, interessante, mai noioso, che rende efficaci tutte le descrizioni che Thomas Mann ha utilizzato per delineare e per rappresentare i paesaggi e le situazioni, con la nitidezza di una vera e propria fotografia. Avendo letto la versione in italiano, devo dire che la traduzione è stata perfetta: che non rispecchia la struttura classica della frase, ma porta cambiamenti tali da rendere il concetto poetico ed artistico.

La trama è come se si svolgesse in poco tempo, e in un piccolissimo spazio, nonostante il trascorrere dei giorni e le descrizioni accurate dei diversi luoghi. La lettura coinvolge, e la fine... che non posso svelare, lascia con un senso di vuoto, non per la scelta della conclusione, ma per altri fattori, alquanto sentimentali...

Essendo Thomas Mann un autore del primo '900, si percepisce quell'aspetto decadente (tipico del periodo) che mostra la città di Venezia sotto vari punti di vista: la città del commercio, del romanticismo, ma soprattutto una città putrida, da cui sembra quasi sentirne l'odore salmastro proveniente dai porti.

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Jan Opinione inserita da Jan    01 Gennaio, 2011
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Un capolavoro.

Spesso mi sono chiesto che cosa possa perdere un'opera così focale della Mitteleuropa nella traslazione in altra lingua: lo slavo, l'italiano, il francese.
Per quanto riguarda la "Morte a Venezia", Mann appare impareggiabile nel tracciare un limite inesausto fra forma e significante che travalica, lo assicuro, qualsiasi barriera stilistica.
E poco importa se questo capo d'opera gli sia costato, da parte di molti esenti dalla comprensione della metafora, la fama di omosessuale o, peggio, di pedofilo.
Kaiser Mann vola più in alto, non rispecchia che un fuoco decadente atto a proporre una morte simbolica.
Quella zweigiana di un mondo al crepuscolo.
E di uno stato sociale.

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